Venerdì 13 giugno il Cda di Alitalia ha accettato l’offerta di Etihad per entrare nel capitale della compagnia di bandiera italiana: il vettore arabo investirà 1,3 miliardi di euro; 560 milioni subito e 200 milioni ogni 12 mesi per i prossimi quattro anni. Inoltre, un fondo sovrano di Abu Dhabi prende il 20% del capitale di Adr (la società che gestisce l’aeroporto di Fiumicino, valore complessivo di 3,5 miliardi di euro).
Si farà ancora una nuova compagnia (dopo la Cai, creata all’epoca della privatizzazione del 2008 con i capitani coraggiosi nostrani miseramente falliti) con Etihad al 49% ed i debiti della vecchia azienda che verranno trasformati in azioni della nuova.
È l’ultima puntata di una storia di ordinaria privatizzazione, una scandalosa svendita costata già più di 9mila licenziamenti, con un dimezzamento quasi secco del numero di dipendenti Alitalia, passati dai 21.294 del 2004 agli attuali 12.268.
Sborsando per ora 560 milioni di euro, Etihad mette le mani su una quota di viaggiatori pari a 23,5 milioni di passeggeri, che sono quelli che Alitalia ha avuto nel 2013 (mentre Etihad è a quota 11,5).
In Alitalia sono stati dichiarati 2.250 esuberi: 1.870 dipendenti (786 sono già in Cig a zero ore e verranno licenziati) e 380 naviganti (che verranno trasferiti ad Air Serbia o ad Air Berlin).
Nella manutenzione ci sono 255 esuberi, oltre ai 133 che sono in Cig a zero ore ed è il settore la cui parabola esemplifica al meglio lo scempio di questa privatizzazione.
Fino a quindici anni fa, la manutenzione era il fiore all’occhiello di Alitalia, poi un pezzo alla volta tutte le attività sono state smontate ed esternalizzate: prima le manutenzoni pesanti degli aerei del lungo raggio cedute in Israele, poi i carrelli in Francia, con anche Air France (all’epoca dell’alleanza con Klm e Alitalia in Sky Team, l’inizio della fine di Alitalia) che in seguito ha portato via qualche altro pezzo della manutenzione.
Il 17 giugno c’è stata la rottura tra Cgil, Cisl e sigle professionali di piloti e assistenti di volo che sentono maggior sicurezza per il personale viaggiante, mentre i sindacati confederali sentono che per loro non c’è nulla da concertare.
Grande assente l’Usb, il sindacato di base più rappresentativo in Alitalia, l’unica organizzazione sindacale ad opporsi nel 2008 alla trasformazione di Alitalia in Cai.
All’epoca, l’Usb (allora Sdl, poichè la fusione con le Rdb, che diede vita all’Usb, è del 2010) fu protagonista di un’imponente mobilitazione contro la privatizzazione con scioperi, occupazioni delle piste a Fiumicino e assemblee permanenti per decidere gli obiettivi della lotta. Completamente screditati i sindacati confederali, Cgil in testa, che erano sostenitori della privatizzazione sin dalla fine degli anni ‘90, salvo poi versare lacrime da coccodrillo quando la vendita si è rivelata una svendita, le sorti della lotta erano in mano al sindacato di base.
Quando occorreva alzare il tiro ed indicare il blocco di tutte le attività per fermare la privatizzazione, l’Usb si rifiutò di farlo e alla fine si limitò ad accettare il piano Cai e i 7mila licenziamenti facendosi scudo con la “volontà dei lavoratori” (che evidentemente non avevano molte alternative di fronte).
Ora l’Usb sembra uno spettatore della vicenda, con comunicati in cui si parla di “impedire i licenziamenti, di intervento strategico dello Stato e riordino complessivo del settore”. Una palpabile sensazione di impotenza. Di convocare un’ora di sciopero, nemmeno se ne parla.
Alitalia è il fallimento della politica di privatizzazioni ma anche di una strategia sindacale incapace di fronteggiare gli attacchi padronali in questa epoca di crisi del capitalismo italiano (declino di cui Alitalia è uno specchio fedele).
Da qui si dovrà ripartire. Mettendo in discussione le privatizzazioni ed opponendo ad esse l’idea dell’esproprio e della rinazionalizzazione dei centri fondamentali dell’economia sotto il controllo dei lavoratori.