Un bilancio necessario
Per mesi la "disobbedienza civile" è stata propagandata come una innovazione . Tutti i problemi di tattica, strategia, programma legati allo sviluppo di un movimento di massa sono stati tralasciati per dedicarsi alla pratica di questa miracolosa forma di lotta. Il 20 luglio ha mostrato la volontà omicida dell’apparato statale e del governo. Ci pare indiscutibile però che la gestione della giornata della "disobbedienza civile" abbia purtroppo facilitato il compito agli assassini di Carlo Giuliani.
La critica che sviluppiamo in questo articolo, quindi, non è certo rivolta alle decine di migliaia di compagni che hanno dovuto affrontare la repressione scatenata, ma piuttosto ai vertici del Gsf, che hanno gravemente sottovalutato la situazione che si stava creando.
Gli organizzatori delle giornate di Genova hanno eletto la linea rossa a simbolo delle ingiustizie di questo sistema. Il simbolo però ha preso completamente il sopravvento sui contenuti. Buona parte delle discussioni prima di Genova sono state totalmente incentrate su "come violare la linea rossa". Un’intera giornata di lotta, quella di venerdì 20, è stata strutturata attorno a questa necessità. Il movimento è stato diviso non in base ai contenuti politici, ma in base a quale atteggiamento tenere verso la linea rossa. I fautori della lotta simbolica hanno portato migliaia di giovani a passare intere giornate a fare "training" per superare la linea rossa, piuttosto di discutere con quali contenuti e con quali metodi continuare il movimento antiglobalizzazione.
Il vero pregio delle giornate di Genova è che per mesi hanno scatenato una discussione in diversi settori della società sulle ingiustizie di questo sistema e su quali alternative sia necessario contrapporgli. Questa era la discussione da approfondire. Concentrarsi solo sugli aspetti simbolici, ha invece contribuito a portare questa questione in secondo piano. Scrivevamo a giugno: "E’ la estrema sopravvalutazione dell’elemento simbolico di queste manifestazioni, fino al punto da dimenticare la realtà che sta dietro a questi simboli. Le manifestazioni antiglobalizzazione hanno avuto e hanno un enorme ruolo positivo nel risvegliare la coscienza anticapitalista, nel denunciare i crimini e la barbarie di questo sistema. Ma non possiamo dimenticare la realtà che il potere della borghesia nel mondo non è racchiuso nei vertici dei grandi o nelle organizzazioni internazionali. Il potere del capitalismo risiede nella proprietà privata dei mezzi di produzione e nell’apparato statale che difende questa proprietà"(FalceMartello 148).
Questo dovrebbe essere spiegato più chiaramente da Rifondazione. I nostri dirigenti, però, continuano a chiamare bene ciò che è male, a spacciare i limiti del movimento per delle ricchezze. Il 22 luglio Bertinotti dichiarava al Manifesto: "tutte queste facce del prisma sono metabolizzate in un movimento che ha come ragione fondamentale la sua ragione di esistenza". Si tratta di un’esplicita teorizzazione del "movimento fine a sé stesso". Bertinotti continua: "Naturalmente questo movimento sa che ha un problema di contenuti, per questo, ad esempio, usa Porto Alegre: perché è un movimento che usa il simbolo anche come supplenza. Ha scelto il simbolico come traduzione della propria crescita. Non solo per il carattere estremamente contemporaneo della lotta simbolica. Ma, per dirla così, in questo caso svolge attraverso questo un ruolo di supplenza a quello che non è maturato in termini di programma".
Quindi prima verranno i simboli e poi i contenuti. E a loro volta i simboli da dove vengono? Anche i simboli sono scelti in base ai contenuti. Infatti chi più ha contribuito a concentrare tutta la discussione sulla linea rossa, nasconde in un’ultima analisi un estremo moderatismo nelle proprie proposte politiche.
Dalla farsa alla tragedia
Una volta che si parte dalla premessa che tutto ruota attorno alla linea rossa, tutto il dibattito inizia a concentrarsi su come superarla. C’è chi ha teorizzato che si dovesse ingaggiare uno scontro di carattere militare con la polizia per violare la linea rossa. In concreto questo avrebbe voluto dire attrezzarsi per combattere con i blindati. C’è chi più semplicemente ha teorizzato la "disobbedienza civile": violiamo la linea rossa pacificamente, solo con delle protezioni, disarmati, ci caricano e dimostriamo all’opinione pubblica che loro sono i cattivi e noi i valorosi eroi che hanno violato per un metro la linea rossa.
Ci sono pochi dubbi che i mezzi siano collegati al fine. Una volta che il fine è semplicemente superare la linea rossa, si cerca di scegliere i mezzi che permettono di farlo più facilmente. E’ inutile nascondere che attorno alla necessità di varcare le "zone proibite" si sia stabilita una tradizione di taciti accordi tra "disobbedienti" e forze dell’ordine. Nel dire questo non ci basiamo di certo sulle dichiarazioni dell’ex-questore di Genova. Le calunnie di un questore non possono essere nemmeno prese in considerazione. Ci basiamo sulla nostra esperienza e su un fatto risaputo tra gli attivisti. Candidamente la deputata verde Zanella ha dichiarato al Manifesto: "Ma non c’era nessun attacco da gestire: c’era da concordare un segnale simbolico per le Tute Bianche, bastavano cinque centimetri di zona rossa... ma non è stato possibile contrattare nulla". In seguito aggiunge: "la pratica delle Tute Bianche gioca proprio sulla rappresentazione di uno scontro che in realtà non si fa, sulla conquista alla disobbedienza civile delle tentazioni violente... perché non consentirla?".
Ma la polizia non è un "simbolo", cari compagni! È una forza armata che difende il potere della classe dominante, e non si cura affatto delle vostre fantasie. Quando il potere ritiene che un movimento possa costituire una minaccia, effettiva o potenziale, non esita a reprimerlo con la forza. Era forse così difficile prevederlo?
Prima di Genova tutti si genuflettevano di fronte alla "novità" della disobbedienza civile. Nessuno, in particolare nel Prc, se la sentiva di mettere in discussione la moda del momento.
Per questo ci permettiamo di ricordare quanto abbiamo scritto prima di quelle tragiche giornate: "È doveroso però dire tutta la verità. Si è stabilita ormai l’usanza di taciti accordi tra la polizia e i vertici di organismi quali Ya Basta! o i Centri sociali del nordest, accordi che prevedono in sostanza degli scontri ‘mimati’ (…) Ha senso una simile messinscena, che nel migliore dei casi si traduce in una mascherata, e nel peggiore manda allo sbaraglio coloro che vi si trovano coinvolti, volenti o nolenti? (…) Alla fine il tutto si riduce o in farsa, con qualche vetrina rotta per la gioia dei vetrai e degli arredatori, o in tragedia come poteva finire a Napoli e a Goteborg." (FalceMartello n°148)
Il problema dell’autodifesa
Dopo l’assassinio di Carlo Giuliani e la repressione del 20 luglio, migliaia di persone si sono poste il problema della necessità di difendere le manifestazioni pacifiche dalle aggressioni poliziesche. C’era una sensazione diffusa di essere stati mandati allo sbaraglio, e una parte non secondaria di chi era in piazza ha cominciato a porsi il problema dell’autodifesa e dei servizi d’ordine dopo averne constatato sulla propria pelle la necessità. Ma i cosiddetti portavoce non hanno perso l’occasione per dimostrare la loro inutilità, e si sono precipitati a spiegare come i servizi d’ordine siano il primo passo verso la "militarizzazione" (e, suggeriscono implicitamente, verso il terrorismo).
Noi siamo contrari alla creazione di strutture separate e "specialistiche" che si dedichino a "proteggere" il movimento; è una logica elitaria e potenzialmente burocratica che respingiamo. Ma diciamo con chiarezza che se in un movimento di massa, migliaia o decine di migliaia di persone si rendono conto della necessità di difendere le proprie manifestazioni (e questo era certamente il caso a Genova il 21 luglio), è possibile e necessario appoggiarsi su questa consapevolezza per strutturare l’autodifesa, con un coinvolgimento democratico non di qualche "samurai" dello scontro di piazza, ma dei settori più coscienti e più disposti al sacrificio, a partire dai lavoratori. Non è un caso se il 21 luglio i militanti della Fiom, dei Cobas, di molte federazioni del Prc hanno tentato di circoscrivere e difendere i propri spezzoni. Così come non è un caso che, nel corso del corteo, ovunque qualcuno provava ad organizzare dei cordoni, la massa dei manifestanti disorganizzati spontaneamente si univa a loro, anche se era evidente che nel contesto questi potevano fare ben poco per difendere il corteo.
Oggi nessuno si azzarda a riproporre la discussione negli stessi termini di luglio (anche perché, dopo gli attentati di New York, i profeti del "simbolismo politico" hanno ben poco da aggiungere). Ma il problema non è chiuso. Non esiste, infatti, solo l’autodeterminazione del movimento; esiste anche la volontà repressiva dello Stato, che non si è certo esaurita a Genova.
Sarà bene pertanto che tutti facciano tesoro delle lezioni di quelle giornate, per non dover in futuro fare le inutili autocritiche del giorno dopo.