A dicembre si è svolto il diciassettesimo Festival Mondiale della Gioventù in Sud Africa: un’occasione di incontro e di scambio fra le più diverse organizzazioni politiche giovanili progressiste provenienti da tutto il mondo, accomunate dall’impegno contro l’imperialismo e il razzismo.
L’impressione tuttavia era che gli ambiti di dibattito politico reale fossero veramente esigui: decine di seminari ogni giorno in cui venivano affrontate le tematiche più varie ( contro lo sfruttamento minorile, per il diritto allo studio, contro il razzismo) ma nel modo più generico possibile e quindi senza dare nessuna possibilità al dibattito di addentrarsi nel merito delle questioni.
Spesso questi seminari erano vuoti proprio perchè le discussioni venivano percepite come poco utili o puramente testimoniali. Tutta la radicalità espressa dalle mobilitazioni studentesche in Europa come in America latina o nel Maghreb, non avevano alcuno spazio in cui esprimersi. Forse la ragione risiedeva in un’ambiguità voluta, fin dallo slogan con cui si convocava il festival: termini che vanno bene a tutti come “pace” o “trasformazione sociale” non aiutano certo a caratterizzare e far decollare il dibattito.
Tuttavia, l’urgenza di discussione si poteva percepire nel salone dove erano raggruppati gli stands delle varie organizzazioni provenienti da tutto il mondo: come collegare tra di loro i movimenti che esplodono in ogni paese dell’Europa, come inserire nel movimento studentesco l’opposizione alle politiche di austerità imposte dai governi, attraverso quali strutture dotarci di una prospettiva internazionale.
Un paese che continua a mantenere alta l’attenzione su di sé è il Venezuela, le discussioni intorno al loro banchetto riportavano insieme l’euforia chavista, ma anche la preoccupazione di uno stallo che potrebbe essere fatale per la rivoluzione venezuelana, perchè apre enormi spazi alla burocrazia e alle sue capacità di sabotaggio.
Ma la più grande mancanza del Festival è stato il Sud Africa: nessun dibattito ha affrontato la situazione politica del paese in cui il festival aveva luogo! Le uniche volte che si è accennato al Sud Africa il tono era sempre quello della celebrazione storica del processo di lotta contro l’Apartheid culminato con l’elezione di Mandela nel 1994, senza nessuna analisi su quali siano le attuali condizioni delle masse lavoratrici e dei poveri. Nel discorso di apertura, un rappresentante della World federation of democratic youth (Wfdy), l’organizzazione promotrice del Festival, spiegava che la scelta del luogo non era stata casuale, ma il festival si teneva in Sud Africa proprio perchè questo paese è una concreta dimostrazione che con la lotta si può vincere, proprio come le masse hanno vinto contro l’Apartheid.
Purtroppo questo discorso è vero soltanto a metà: siamo convinti che la lotta sia l’unico strumento di vittoria contro lo sfruttamento, il razzismo e la povertà, e che la lotta contro una forma molto più subdola ma non meno brutale di Apartheid, sia ancora all’ordine del giorno in Sud Africa. La disoccupazione è molto alta e incide per lo più sulla popolazione nera, il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno, il 13,6% è analfabeta, 5,7 milioni di persone sono affette da Hiv, mentre la maggior parte delle industrie, terre e miniere è nelle mani della ricchissima minoranza bianca. Negli ultimi anni il governo ha varato delle misure per incentivare l’imprenditoria nera, come il programma Black Economic Empowerment ma questo tipo di politica non ha portato nessun beneficio alla maggioranza povera, mentre consente ad una ristretta minoranza di arricchirsi, in un clima di forte corruzione che coinvolge i vertici del governo e dell’African national congress (Anc, il partito di Mandela e che ha vinto tutte le elezioni dal 1994 ad oggi).
Crediamo che il Festival mondiale della gioventù non possa glissare così grossolanamente sulle reali condizione di vita di una popolazione, dando per buona la versione istituzionale “Va tutto bene, continuiamo così”, in virtù della scelta di mantenere buoni rapporti con il paese ospitante, ma che si debba porre il problema di come organizzare i giovani e gli studenti per cambiare la società.