Sintomo della crisi di un sistema
La crisi elettorale apertasi negli Usa è un sintomo significativo delle contraddizioni sempre più acute che si stanno sviluppando nella società americana. Mentre scriviamo il conflitto è ancora ben lontano dall’aver trovato soluzione, e comincia a serpeggiare un certo nervosismo anche tra i difensori ad oltranza delle "meraviglie" del sistema americano. Dal giorno delle elezioni gli indici di Wall Street hanno perso il 5% (Dow Jones) e il 20% (Nasdaq), influenzando negativamente la maggior parte delle Borse mondiali.
Lo sviluppo della crisi appare del tutto incomprensibile alla gran parte dei commentatori, i quali si limitano a spiegarla con la "disperazione" di Gore, il quale ha puntato tutta la sua carriera politica su questa elezione. Si tratta di una spiegazione di stampo giornalistico, che si ferma alla superficie degli avvenimenti e considera solo gli elementi accidentali di un processo che ha in realtà cause più profonde.
Gli elementi significativi della crisi sono i seguenti.
1) La divisione equilibrata dell’elettorato, che si dimostra non solo nello stallo dell’elezione del presidente, ma anche nella perfetta divisione dei seggi al Senato (attualmente 50 a 50) e nella ridottissima maggioranza dei repubblicani al Congresso.
2) L’incapacità, perlomeno fino ad ora, di trovare una sede istituzionale riconosciuta da entrambi i contendenti, che possa dirimere il conflitto, con la conseguente guerra giudiziaria che si sta allargando a macchia d’olio coinvolgendo tutte le istituzioni sia a livello di singolo Stato (governatore, parlamento e Corte suprema dello Stato della Florida), sia a livello federale (gli attori della prossima fase saranno, con ogni probabilità, il collegio dei "grandi elettori", la Corte suprema degli Stati Uniti e forse lo stesso Congresso).
Anche se è prematuro parlare di una vera e propria crisi istituzionale, si sono aperte crepe profonde che non sarà facile richiudere.
Il bipartitismo Usa
Il sistema bipartitico che domina da 150 anni la politica Usa costituiva in passato una enorme risorsa per il capitalismo nordamericano. Grazie alla propria posizione dominante nel mondo, particolarmente a partire dal 1945, la borghesia Usa ha potuto permettersi di alternare al potere due partiti chiaramente borghesi, senza doversi confrontare con un partito di massa, neppure di carattere socialdemocratico, che fosse espressione del movimento operaio. A partire dagli anni ’30 i maggiori sindacati hanno in generale dato appoggio elettorale e finanziario ai candidati democratici, come è accaduto anche in queste elezioni con Gore. La posizione privilegiata del capitalismo americano, che permetteva larghissime concessioni alla classe operaia, particolarmente negli anni ’50 e ’60, creava le premesse per questa subordinazione dei lavoratori a un partito borghese che ne raccoglieva i voti ogni quattro anni senza subirne però le pressioni e senza alcuna partecipazione attiva dei lavoratori alla politica "ufficiale".
La possibilità di cambiare in modo sostanzialmente indolore il governo e il presidente aveva molteplici vantaggi per la classe dominante. Permetteva in primo luogo di creare l’illusione di una "alternanza" al potere che fornisse uno sfogo alle tensioni sociali; permetteva inoltre di tenere a freno il formarsi di una burocrazia statale troppo indipendente, poiché tutte le maggiori cariche (magistratura, apparato diplomatico, ecc.) dipendono dal vincitore del momento e sono quindi soggette a un continuo ricambio.
Tutto questo però è ormai musica di un lontano passato.
Nel corso degli ultimi decenni il sistema politico Usa ha visto una forte involuzione come mostrano numerosi sintomi. La classe politica è un circolo chiuso inaccessibile a chi non sia miliardario; la gran parte dei protagonisti della politica Usa sono o capitalisti, o "figli d’arte" (Bush figlio di un ex presidente, Gore figlio di un senatore, la dinastia dei Kennedy, ecc.). Questo distacco si esprime graficamente nell’ascesa dell’astensionismo, che ormai raggiunge oltre metà dell’elettorato.
La stessa "economicità" del sistema politico ormai viene meno. Questa campagna elettorale ha visto una spesa complessiva da parte dei candidati di oltre 7mila miliardi di lire se si accettano le cifre ufficiali, 9mila e 500 secondo la stima del politologo Larry Sabato riguardo i fondi neri: una sorta di "tangentopoli" legalizzata che non fa certo piacere alle grandi imprese costrette a sborsare miliardi per finanziare i politici. L’aspetto paradossale è che la maggior parte delle imprese è costretta a finanziare entrambi i candidati, per coprirsi da ogni sorpresa. Così per esempio la Microsoft ha investito quasi tre miliardi e mezzo di dollari, suddividendoli tra Bush icandidato favorito di Bill Gates) che ne ha presi il 54%, e Gore, che pur essendo inviso a Gates, deve essere "unto" a causa del processo contro la stessa Microsoft avviato dall’amministrazione Clinton; Gore così ha avuto il restante 46%. Analogo il comportamento della AT&T, che ha versato oltre 4 miliardi di dollari dividendoli tra i repubblicani (62%) e i democratici (38%). Per conquistare il seggio più "costoso" della camera, i due candidati hanno speso complessivamente 22 miliardi di lire.
Non a caso il candidato verde Ralph Nader ha battezzato i due candidati i "republicrats", per indicare la sostanziale identità dei due partiti. A causa di questa situazione, e anche grazie a un sistema elettorale complesso, gran parte degli strati più poveri della popolazione hanno smesso di partecipare al voto.
Polarizzazione sociale
Il distacco crescente della politica ufficiale dall’insieme della popolazione corrisponde perfettamente al crescente divario sociale che si è aperto in questi anni nella società americana.
Il boom economico degli anni ’90 infatti non solo non ha ridotto le ingiustizie sociali, ma le ha allargate a dismisura. Alcune cifre dimostrano quanto diciamo.
Nel 1980 lo stipendio, inclusi i bonus, degli alti manager era pari a 42 volte un salario operaio. Oggi il rapporto è di 419 volte. Nel 1945 l’1% più ricco della popolazione controllava un terzo della ricchezza nazionale. Nel 1976 la percentuale era scesa al 22%. Oggi siamo saliti al 42%, probabilmente la distribuzione del reddito più ingiusta in tutto il secolo.
Secondo l’International Labour Office un lavoratore Usa lavora in media due settimane all’anno più di uno giapponese e 10 settimane più di un tedesco. Solo recentemente, dopo oltre vent’anni di stasi, i salari hanno cominciato a crescere, come risultato dell’alta occupazione e della ripresa delle lotte sindacali in diverse categorie.
Un aspetto importante della situazione negli Usa è costituito dalla ripresa della sindacalizzazione e degli scioperi. A partire dal 1996 infatti c’è stata una parziale svolta nella politica del gruppo dirigente della confederazione sindacale Afl-Cio, che di fronte alla crisi verticale del sindacato ha dovuto orientarsi verso le nuove leve di lavoratori precari in particolare nei servizi, fra i nuovi immigrati, ecc. Il risultato è una ripresa delle iscrizioni al sindacato, e anche una ripresa degli scioperi. Lotte sia difensive (General Motors, edili a New York) che offensive (Verizon, Ups, imprese di pulizia a Los Angeles ecc.) testimoniano di una nuova disponibilità della classe lavoratrice Usa a lottare in prima persona per i propri diritti.
La partecipazione significativa di settori del sindacato alla manifestazione di Seattle dimostra con chiarezza che c’è un nuovo clima che matura nella società Usa, così come lo dimostrano i crescenti sentimenti anticapitalisti che attraversano parte della gioventù universitaria.
Il verde Ralph Nader ha tentato di raccogliere questo clima candidandosi alle elezioni, dove ha raccolto circa due milioni e mezzo di voti. Nonostante Nader sia rimasto lontano dal 5% che si prefiggeva, la campagna che si è sviluppata attorno alla sua candidatura ha costituito un episodio significativo, poiché ha aperto un forte dibattito nei sindacati, dove il vertice è rimasto infine fedele a Gore, ma alcuni settori di militanti a livello locale hanno aderito alla campagna di Nader, che oltre ai temi ambientali poneva un forte accento su questioni di classe (sanità, diritti sindacali, ecc.). Non a caso Los Angeles Times aveva definito il raduno organizzato a Seattle da Nader con 10mila sostenitori come "l‘evento politico più significativo dell’anno".
Divisioni al vertice
L’aspetto apparentemente più sconcertante della crisi aperta dalle elezioni è che le politiche proposte da Bush e Gore sono in larga parte identiche. "Tanto rumore per nulla": questa è la conclusione che ne traggono i commentatori, che si limitano a puntare il dito sulla "ostinazione" di Gore. La realtà è più complessa. Da un lato, come abbiamo accennato, la società americana è profondamente divisa socialmente e politicamente. Dall’altro, la stessa classe dominante è ben lungi dall’avere una visione unanime del futuro.
Al di là del fatto che i due partiti propongano politiche molto simili, restano enormi problemi aperti di fronte al capitalismo Usa, problemi che cominciano a turbare i sonni dell’élite statunitense.
Il primo riguarda la politica internazionale. La posizione dominante dell’imperialismo Usa su tutti gli scacchieri costringe a continui e costosi interventi militari. Dai Balcani al Medio oriente, dall’Indonesia al Pakistan, alla Colombia, alle Filippine, al Caucaso… I focolai di crisi si moltiplicano, e nuove crisi si aggiungono senza che quelle vecchie vengano risolte. Bush ha proposto una politica estera più "isolazionista", in consonanza con una certa tradizione del proprio partito (è bene ricordare che gran parte dell’interventismo estero degli Usa è stato condotto in questo secolo sotto la guida dei democratici). Ma è più facile dirlo che farlo. L’America non può disimpegnarsi così facilmente dall’intervento militare all’estero, e al tempo stesso non può tranquillamente accettare di approfondire la linea interventista di Clinton. Risultato: scontri e tensioni crescenti sul futuro della politica estera Usa.
Un secondo punto di tensione riguarda l’economia. Tutti si aggrappano alla speranza di un "atterraggio morbido" dell’economia Usa, pilotato dal capo della Federal Reserve Greenspan, ma anche qui più che di previsioni si tratta di scaramanzie. La "bolla" speculativa di Wall Street costituisce una mina vagante, e nessuno si sente in grado di dire quando scoppierà, e quali effetti avrà il suo scoppio. Altro tema tabù è l’enorme deficit commerciale combinato con un debito estero record (1.200 miliardi di dollari), vera spina nel fianco non solo dell’economia Usa, ma dell’intera economia mondiale. Terzo punto dolente, l’enorme indebitamento delle imprese e delle famiglie, il cui risparmio è ormai azzerato.
Speculazione borsistica, deficit commerciale e debito sono tre enormi ipoteche sul futuro, che potrebbero dare un carattere catastrofico alla prossima recessione negli Usa, e anche su questo terreno le divisioni del capitalismo Usa sono forti.
Terzo punto, la situazione sociale del paese. Dopo Seattle anche gli osservatori più superficiali si sono resi conto che qualcosa sta cambiando nella coscienza delle masse, e anche qui l’establishment si divide su come affrontare una possibile instabilità sociale. Estendere, seppure parzialmente, le misere tutele sociali del welfare statunitense oppure completare il processo di privatizzazione, col rischio di alimentare una classe di decine di milioni di cittadini privi di tutele e di diritti? Anche su questo le divisioni sono forti, come già si è visto sotto la presidenza Clinton.
Possibili sbocchi della crisi
Il muro contro muro tra Bush e Gore ha assunto una sua dinamica, avvitandosi in un circolo vizioso. È tuttavia probabile che Gore sia costretto a un certo punto a gettare la spugna. Questo non tanto per i risultati del tragicomico conteggio dei voti in Florida, ma perché le istituzioni che verranno chiamate a pronunciarsi nelle prossime settimane saranno tendenzialmente favorevoli ai repubblicani, in particolare la Corte suprema federale. Ostinandosi a combattere su un terreno sempre più sfavorevole, Gore rischia di perdere per la strada l’appoggio delle alte sfere del partito democratico, le quali non hanno certo interesse a immolarsi per una battaglia perduta; Clinton ha già ironicamente preso le distanze dal suo vice.
Se, contro ogni probabilità, lo stallo dovesse protrarsi fino a gennaio, vedremmo invece la crisi esplodere a un livello molto più alto. Si realizzerebbero allora le ipotesi che oggi appaiono fantascientifiche, di uno stallo o addirittura di una contestazione nel voto del collegio dei "grandi elettori", con il conseguente trasferirsi della disputa nelle aule del congresso che sarebbe chiamato ad eleggere direttamente il presidente (eletto dalla camera dei deputati) e il vicepresidente (eletto al Senato); la soluzione di compromesso che oggi viene esclusa dallo scontro frontale dei due candidati diventerebbe un fatto compiuto nelle aule del Congresso, sancendo in qualche modo la fine del sistema maggioritario, perlomeno nelle forme in cui è esistito finora negli Usa.
Quale che sia l’esito dello scontro, è comunque chiaro che attraverso l’episodio "accidentale" di un risultato elettorale, emergono con eccezionale chiarezza tutti i sintomi di decadenza e di crisi del capitalismo americano e del suo sistema politico.
Un anno fa le manifestazioni di Seattle hanno rivelato al mondo i processi che maturano nella società americana. Un anno dopo, le presidenziali mettono a nudo un’altra faccia dello stesso processo, che si mostra questa volta non nelle strade di una città operaia, ma nei più alti palazzi del potere.