Il crollo e la nazionalizzazione di General Motors hanno giustamente
attirato l’attenzione di milioni di lavoratori in tutto il mondo. Anche
se la crisi ci ha abituato a crolli di aziende celebri, non si tratta
esattamente di un’azienda come tante.
Per decenni, GM è stata la più grande società industriale del mondo, arrivando a impiegare direttamente oltre 600.000 lavoratori. Da quando negli anni ’20 superò la Ford fino al 2008, è stato il primo produttore di automobili al mondo. Per evitarne uno scomposto fallimento, l’amministrazione Obama ne è diventata il principale azionista, ponendola poi in amministrazione controllata (“Chapter 11”). In cambio dell’aiuto statale, azienda e sindacati si sono impegnati a predisporre un piano di lacrime e sangue per creare una società più snella ed efficiente, in grado di tornare a competere a livello mondiale.
Questo progetto non funzionerà. Il fallimento di General Motors non è un fulmine a ciel sereno ma il risultato delle caratteristiche dello sviluppo economico statunitense degli ultimi decenni e non può che trovare una soluzione in una trasformazione radicale di tali caratteristiche.
Gli ultimi giorni
Nelle ultime settimane, le vicende delle grandi case automobilistiche americane hanno subìto svolte sempre più drammatiche. Alla fine, dopo mesi di minacce e pressioni di ogni tipo, il sindacato dell’auto, l’UAW, ha firmato con GM e governo un accordo-capestro che lega i lavoratori mani e piedi alle sorti dell’azienda. L’accordo è stato ratificato dal 74% dei suoi iscritti. Un accordo simile è passato anche in Canada. Secondo il Vice Presidente del sindacato Rapson, “è stato negoziato un accordo che renderà GM competitiva” (sito dell’UAW, 29.5.09). In realtà, si tratta di una resa senza condizioni. Le concessioni sono pesantissime. Verranno tagliati 20.000 posti in produzione (uno su tre), chiuse 14 fabbriche, saranno eliminati bonus, giorni di riposo, l’adeguamento del salario all’inflazione, questo quando dal 1975 i salari reali non crescono. Ancora più grave è la previsione che vieta di sottoporre all’approvazione dei lavoratori ogni modifica degli accordi sino al 2015 nonché la clausola che prevede che l’azienda smetta di pagare i suoi debiti se i lavoratori scendono in sciopero. Il ridimensionamento dell’azienda è totale. Molti marchi verranno ceduti. Quello della Hummer potrebbe andare a una società cinese, la Tengzhong, l’umiliazione finale per l’industria americana. Di fatto, l’UAW capitola di fronte a un’azienda le cui difficoltà strutturali implicano che l’accordo non segna una svolta ma sarà la prima di ulteriori dolorose concessioni.
Inoltre, la sottoposizione di GM alla procedura del Chapter 11 significa che saranno i giudici e non i lavoratori a indirizzare l’esito dell’accordo. L’amministrazione Obama, dal canto suo, ha scelto il fallimento per potersene lavare le mani di fronte ai lavoratori. Ha investito 70 miliardi di dollari nell’azienda ma potrà far finta di aver dovuto prendere ordini dal tribunale. Come ha osservato il Financial Times “la cosa bella del Chapter 11 è che Obama non ha bisogno di interferire” (4.6.09). Con tanti saluti alle migliaia di attivisti dell’UAW che hanno speso mesi di incessante campagna per farlo eleggere.
Solo poche settimane prima, anche Chrysler è stata posta in
amministrazione controllata nell’ambito dell’accordo che prevede la sua
cessione alla Fiat dopo un drastico ridimensionamento. Qui la
situazione è persino peggiore perché il sindacato è proprietario del
55% dell’azienda anche se a comandare è la Fiat con il 35. Un caso in
cui la proprietà non da nessun diritto ma solo complicità. Anziché
licenziare i dirigenti, il nuovo proprietario, l’UAW si sta suicidando.
Non si tratta di una stranezza americana, tentazioni di
corresponsabilizzare il sindacato vi sono anche in Europa, ad esempio
la Cisl fa proposte simili.
Un declino che arriva da lontano
I problemi dell’industria automobilistica americana non sono nati con la crisi, che pure vi ha impresso un’accelerazione impressionante. I crolli di vendite sono stati enormi. A maggio del 2009 GM ha fatto -29%, Ford -24%, ma anche alla Toyota è andata male: -38%. I dati assoluti di vendite sono i peggiori da 30 anni. In questo crollo generalizzato, continua il declino della quota di mercato di GM che ancora nell’83 sfiorava il 45% e che oggi è al 22. Questo calo inarrestabile riflette l’arretratezza tecnologica delle aziende automobilistiche americane, o detto diversamente, il fatto che i concorrenti (giapponesi ed europei) investono di più. I produttori statunitensi hanno puntato su prodotti obsoleti, come i SUV, contando sul basso prezzo del petrolio, una strategia che si è rivelata perdente. Tutto ciò si è riflesso nei bilanci del colosso americano. I risultati economici di GM sono negativi da molti anni. Già nel 2005, la società aveva perso quasi 9 miliardi di dollari. Negli ultimi 4 anni, le perdite ammontano in tutto a 82 miliardi.
Qualche commentatore ha provato a ridurre il problema al fatto che le “big three” (GM, Ford e Chrysler) pagano salari più alti delle altre aziende che producono automobili negli Stati Uniti. La realtà è che la paga dei lavoratori è la stessa. La differenza sta nelle spese sanitarie e contributive che le società di Detroit pagano ai loro ex dipendenti, che sono milioni. Non a caso, un aspetto decisivo del negoziato è stato l’eliminazione di vari aspetti di questa sorta di stato sociale aziendale, a partire dalle prestazioni sanitarie.
In questo senso, la parabola di General Motors incarna la parabola del capitalismo americano. Cresciuta con le commesse nella seconda guerra mondiale (caso unico, GM ha contribuito allo sforzo bellico sia americano sia tedesco), è arrivata a rappresentare la massima espressione della grande azienda Usa: un colosso verticalmente integrato che produceva tutto in casa, dall’acciaio alle gomme, dalla progettazione alla rete di vendita, arrivando a possedere i pascoli dove vivevano le mucche che finivano nei suoi sedili in pelle. Il suo modello è stato copiato da tutte le aziende del mondo. GM pagava buoni salari e tra i benefici aggiuntivi annoverava quella sorta di welfare privato necessario in un paese che, anche nei periodi migliori, non forniva assistenza sanitaria e pensionistica ai propri lavoratori. Gli alti salari erano un peso per i profitti, ma consentivano di vendere molte automobili.
Questo modello aveva in sé delle debolezze che solo il boom post-bellico poteva coprire. In particolare, per un’azienda, dover fornire direttamente servizi sociali (pensioni, cure mediche, ecc.) ha senso solo se ha una forza-lavoro in crescita e stabile. Se no è ottimale che a fornire questi servizi sia lo stato, come avviene in Europa. Costa meno ai padroni e accontenta più lavoratori.
Quando la borghesia americana ha deciso di precarizzare il mercato del lavoro e le grandi aziende sono passate per continue ristrutturazioni, il modello GM ha smesso di essere redditizio. Ovviamente questo fallimento ricade ora sulle spalle dei lavoratori e degli ex lavoratori di General Motors. I primi finiranno disoccupati o resteranno a lavorare per metà stipendio. I secondi non avranno più né pensione né cure mediche.
Ma soprattutto, il modello Detroit, a partire dai famosi 5 dollari pagati da Henry Ford ai suoi operai, si basava su buoni stipendi. L’imperialismo americano aveva alla base della propria stabilità economica e sociale gli alti salari. Negli anni ’40 e ’50 un metalmeccanico di Detroit guadagnava anche 5 volte più di un suo collega europeo. Ma questo periodo è finito. I lavoratori americani, non solo quelli dell’auto, hanno salari sempre più bassi. Sono dunque costretti a rimandare l’acquisto di nuove automobili come di altri prodotti. Questo processo è stato nascosto per dieci vent’anni dall’aumento senza precedenti del credito al consumo, ossia dal precipitare delle famiglie in un baratro di debiti che è stata una delle cause principali dello scatenarsi della crisi. Ma c’è un limite a quanto il credito possa innaturalmente espandere l’economia. E questo limite è stato abbondantemente superato.
Il capitalismo non ha una soluzione per l’industria dell’auto
L’industria dell’auto ha una capacità produttiva a livello mondiale più che doppia rispetto alle possibilità di vendita. Questo è il risultato di decenni di riduzione dei salari reali sia nei paesi occidentali che in quelli “emergenti”. Anche laddove i salari sono cresciuti, come in Cina, l’aumento della capacità produttiva è stato assai maggiore. Così la sovrapproduzione non si è ridotta con lo sviluppo economico cinese o indiano, ma si è aggravata. Se oggi scomparissero tutte le fabbriche americane di automobili, o tutte quelle europee, la capacità produttiva rimanente sarebbe comunque sufficiente rispetto alla domanda esistente.
Questo è il nodo di fondo che fa sì che la ristrutturazione non servirà a creare una GM “agile” ma solo a far pagare la crisi ai lavoratori. La ristrutturazione è stata già tentata in molti paesi. In Italia, dopo la sconfitta dell’80 alla Fiat e con il regalo dell’Alfa Romeo ad Agnelli. A Detroit, come documenta il fim “Roger and Me” di Michael Moore, che racconta la devastazione portata a Flint, la sede storica di General Motors, con la ristrutturazione di quegli anni. Gli accordi di chiusura di stabilimenti e di riduzione del personale provocheranno la fine di intere città, ma non trascineranno fuori le aziende dalla crisi. Non ha alcun senso ristrutturare il settore su queste basi. L’unica soluzione è la totale riconversione dell’industria dell’auto. Negli Stati Uniti, come in Europa e in Giappone.
La crisi dell’auto non è solo una crisi di vendite, peraltro comune ad altri settori, si pensi al crollo dei prezzi e del numero di transazioni sul mercato immobiliare. È la fine di un modello. Non si producono troppe auto solo rispetto a chi può comprarsele, se ne producono troppe perché sono una tecnologia inefficiente, oltre che distruttiva per l’ambiente, per trasportare persone e merci in giro per il mondo.
Come lo stesso Michael Moore ha osservato di recente, la crisi di GM mostra che il settore dell’auto non ha più senso così com’è. Eppure l’esperienza e le capacità dei lavoratori sarebbero essenziali per progettare la totale riconversione del sistema dei trasporti americani. Treni super-veloci, autobus elettrici, produzione di energia alternativa tramite pannelli solari, eolico. La crisi delle “big three” è l’occasione per sbarazzarsi dell’uso di combustibili fossili, con tutto il loro bagaglio di riscaldamento climatico e guerre per il controllo dei pozzi petroliferi.
Si tratta di proposte razionali e coraggiose. L’unico errore che possiamo imputare a Moore e ad altri intellettuali statunitensi è che si rivolgono all’indirizzo sbagliato. È futile chiedere al presidente Obama di portarle avanti. Non succederà, perché anche se Obama ci tiene alla retorica filo-sindacale, non si metterà mai contro petrolieri, costruttori di automobili, il grande capitale. La nazionalizzazione di GM ha lo scopo di sostenere la potenza dei capitalisti americani, non certo fare “gli interessi del paese”, che non si conciliano con quelli dell’oligarchia industrial-finanziaria che lo comanda. Del resto, anche prima dell’aiuto pubblico, in aziende come Chrysler o General Motors il peso dei lavoratori avrebbe dovuto essere preponderante se si considera che, per esempio a fine 2005, il fondo pensione di GM valeva 100 miliardi di dollari contro una capitalizzazione di borsa dell’azienda di 13 miliardi. I lavoratori di GM avrebbero dunque già potuto comprarsela almeno 6 volte. E invece…
Il problema è che la proprietà statale o addirittura sindacale non significano ben poco in un’economia dominata dal grande capitale. Continueranno a comandare quelli che hanno condotto il settore automobilistico americano nel baratro.
Non si può sperare che Obama risolva il problema al posto dei lavoratori americani. Ma che vada risolto è sicuro. Bisogna solo vedere a favore di quale classe. Si tratta di un momento decisivo. La nazionalizzazione e riorganizzazione dell’industria dell’auto sotto il controllo operaio come primo passo per rivoluzionare il sistema dei trasporti del più potente paese del mondo sarebbe un banco di prova decisivo di un’economia non basata sui profitti ma sulle esigenze della popolazione, potrebbe mostrare nei fatti che cos’è un’economia socialista.