Si deve ascoltare la voce delle fabbriche!
Sono in corso le ultime trattative tra governo, sindacati e Confindustria su pensioni, ammortizzatori e stato sociale. Mentre scriviamo accordi non ne sono ancora stati firmati, ma è chiaro che la trattativa volge al termine. E ancora una volta saranno i lavoratori a pagare il prezzo delle nuove controriforme, a partire dalle pensioni.
Il fatto che la trattativa arrivi all’epilogo proprio nel mese di luglio non è un caso. I numerosi segnali che la classe operaia aveva lanciato ai vertici sindacali e a Rifondazione in questi mesi, si veda la contestazione dei segretari di Cgil, Cisl e Uil a Mirafiori a dicembre sulla finanziaria e in queste settimane gli scioperi contro un nuovo innalzamento dell’età pensionabile, spingono governo e sindacati a chiudere una volta per tutte la partita.
Che le trattative non promettessero nulla di buono era chiaro da mesi, con la finanziaria che aveva aumentato i contributi pensionistici dei lavoratori dipendenti dello 0,3%, portando nelle casse dello Stato ben 5 miliardi di euro all’anno; a marzo con un memorandum ambiguo licenziato dalle segreterie di Cgil, Cisl e Uil si è preteso di andare a trattare col governo senza prima chiedere un mandato ai lavoratori.
Se da un lato vengono distribuiti un po’ di soldi utilizzando una parte del cosiddetto tesoretto, stimato intorno ai dieci miliardi di euro, con tagli all’Ici, assegni alle famiglie con prole, aumenti delle pensioni più basse e degli assegni di disoccupazione, dall’altro però misure come la defiscalizzazione degli straordinari o la nuova controriforma delle pensioni portano nuovi e pesanti peggioramenti alle condizioni di vita e di lavoro.
Precariato, straordinari e competitività
La legge 30 rimarrà, con qualche ritocco ininfluente a quegli istituti che le aziende non hanno utilizzato. Intanto i lavoratori parasubordinati (a termine, a progetto, ecc) vedranno aumentare ulteriormente i contributi fiscali, il che significa che, non essendo mai stato definito un salario minimo, come già avvenuto con la finanziaria 2007 ancora una volta saranno questi lavoratori a farsi carico dell’aumento dei contributi. In compenso avranno la possibilità di contrarre prestiti “agevolati” con banche e finanziarie. Viene negato il diritto a un lavoro stabile, ma viene assicurato il diritto a contrarre debiti!
Lo Stato si farà carico di finanziare la flessibilità degli orari, con esenzioni e decontribuzioni per i padroni per gli aumenti salariali nei contratti integrativi e sugli straordinari. Oltre ad essere un pesante colpo alla centralità dei contratti nazionali la decontribuzione permetterà ai padroni di usare le ore di straordinario a costo più basso senza dovere versare allo Stato e all’Inps la quota prevista. Da un lato potranno chiedere sempre più straordinari ai lavoratori, dall’altro faranno mancare allo Stato sociale entrate importanti.
Le pensioni
Ma è ovviamente sulle pensioni che si sta giocando la partita più importante. Per la borghesia è in primo luogo una questione di principio conquistare un ulteriore innalzamento dell’età pensionabile. Per i padroni le pensioni hanno sempre rappresentato uno spreco, vedere tanti soldi buttati per mantenere chi non produce più invece di essere utilizzati per i propri affari è sempre stata fonte di sofferenza…
I vertici sindacali hanno perseguito con tutte le proprie forze in questi mesi la ricerca di un compromesso col governo per sostituire lo scalone Maroni, che sarebbe entrato in vigore il 1° gennaio prossimo, con i cosiddetti scalini con l’argomento che essendo la controriforma Maroni una legge dello Stato, sarebbe entrata comunque in vigore. Al di la delle considerazioni che si possono fare sul fatto che Epifani durante la campagna elettorale si spese per Prodi in primo luogo perché diceva avrebbe abolito lo scalone e la legge 30, è da notare come il segretario della Cgil fin dall’inizio abbia voluto consapevolmente evitare qualsiasi mobilitazione che mettesse in discussione le controriforme ereditate dal governo Berlusconi.
Lo scalone Maroni non verrà abolito, ma sostituito da una controriforma che innalza da subito l’età pensionabile a 58 anni, e dopo un periodo di sperimentazione di tre anni (parola che ormai entra sistematicamente in tutti gli accordi tra sindacati e controparte) durante il quale i lavoratori saranno incentivati a rimanere al lavoro per sopperire alle mancate entrate dello scalone, dal 2010 si andrà in pensione a 60 anni. Senza contare che l’ulteriore riduzione delle “finestre” per accedere alla pensione comporterà un ulteriore allungamento di fatto dell’età lavorativa. Per addolcire la pillola ci informeranno che però i lavori usuranti saranno esentati. Colmo dell’ipocrisia, visto che è dalla controriforma Dini del 1995 che questi lavori usuranti dovevano essere individuati per avere un trattamento più favorevole, e ora, dopo 12 anni un cui nulla si è fatto, ci vengono a dire che ad essi verranno temporaneamente evitati i nuovi peggioramenti.
Anche sui coefficienti di calcolo non c’è una vittoria del sindacato, ma solo una tregua temporanea. L’accordo in discussione dice che da qui a dicembre una commissione apposita farà i conti su quanto i coefficienti dovrebbero essere ridotti per non aggravare la spesa pensionistica, poi se entro il 2010 sindacati e governo non avranno trovato un accordo i coefficienti verranno tagliati automaticamente. La tanto sbandierata politica verso i giovani e i precari viene smascherata anche sui coefficienti, poiché saranno proprio i giovani a ricevere in futuro una pensione ancora più bassa di quanto già attualmente previsto.
Rispetto all’aumento delle pensioni basse, come per il sussidio di disoccupazione si parla di aumenti irrisori rispetto alla reale necessità. Si discute di cifre tra i 300 e 450 euro all’anno su una platea di 2 o 3 milioni di lavoratori. Ovvero di aumenti tra i 23 e i 35 euro al mese per pensioni che oscillano tra i 350 e i 500 euro al mese. E in cambio di un piatto di lenticchie si pretende di avere il via libera a nuovi e profondi peggioramenti sull’intero impianto pensionistico.
Il Prc e le nuove controriforme
Ecco quindi che i famigerati accordi di luglio del 1992-93, tanto contestati a parole dall’allora sinistra sindacale in Cgil e dal Prc, oggi vengono cambiati in peggio con l’avallo anche di chi in quegli anni li aveva contestati. Non va dimenticato che Bertinotti e Patta, attualmente presidente della Camera e sottosegretario del governo sostenitori di questi accordi, furono allora i due principali dirigenti della corrente di sinistra della Cgil che criticava gli accordi.
Le controriforme in arrivo non incideranno negativamente solo sulla vita dei lavoratori, ma come la finanziaria dello scorso anno, come la controriforma del Tfr di questi mesi, rappresenteranno un ulteriore allontanamento tra i vertici del sindacato e Rifondazione e una parte importante dei lavoratori più combattivi.
Eppure le condizioni per rafforzare il radicamento dei comunisti nel movimento operaio anche attraverso una battaglia di opposizione a questi accordi ci sono. Se il partito anziché appiattirsi sulle posizioni della Cgil intraprendesse una campagna tra i lavoratori per incalzare il sindacato, questo sicuramente verrebbe letto come un primo vero segnale di coerenza da migliaia di delegati e lavoratori.
Lavorare per respingere l’accordo
In queste settimane abbiamo assistito a un continuo interrompere e riprendere le trattative che ha dimostrato come a causa del malessere nelle fabbriche i vertici non potessero firmare la prima cosa che il governo avesse proposto.
Il fatto però che non abbiano mai avanzato la proposta di uno sciopero generale ogni qual volta si sono interrotte le trattative la dice lunga sulle loro reali intenzioni. Consapevoli che uno sciopero rischiava di trovare un vasto consenso, non consentendo così di avere via libera per continuare una trattativa al ribasso, i vertici sindacali non hanno mai voluto consultare i lavoratori, ad eccezione dei metalmeccanici.
Su Rinaldini, segretario Fiom-Cgil (questi accordi condizioneranno anche la vertenza dei metalmeccanici in autunno) e l’attuale sinistra sindacale in Cgil, la Rete 28 aprile, pesa ora la responsabilità di portare avanti, coerentemente con quanto espresso in questi mesi, la battaglia perché in tutte le categorie inizi una vera mobilitazione, senza aspettare il referendum che i vertici confederali dicono di voler tenere a settembre, e sul quale stanno già lavorando per dividere precari, lavoratori e pensionati.
La lotta per costringere Epifani e compagni a fare un passo indietro non è rinviabile, gli scioperi di queste settimane hanno dimostrato che la disponibilità. La protesta comunque ci sarà, è nostro compito organizzarla in modo tale che non si riduca a un semplice sfogo ma si trasformi in un opposizione organizzata che getti le basi per ricostruire una vera opposizione dai luoghi di lavoro alla concertazione e al moderatismo sindacale.
4 luglio 2007