Dalle urne emerge un paese diviso
La destra è oggi in vantaggio. I suoi candidati a presidenti hanno preso 14.292.000 voti contro 12.578.790 del centrosinistra. Sarebbe sbagliato tuttavia vedere in queste elezioni solo una inarrestabile "marea nera". I risultati elettorali vanno letti in modo più articolato.
C’è innanzitutto il crollo del "centro del centrosinistra", e in particolare dei democratici. Si aggiunga a questo il risultato disastroso di Martinazzoli, che in Lombardia è riuscito a far disperdere al centrosinistra qualcosa come 400mila voti rispetto alle ultime europee. All’interno del Polo, è vero che avanzano i "centristi" (Ccd-Cdu), ma Forza Italia perde circa la stessa quantità di voti. Chi invece avanza fortemente è Alleanza nazionale, che è il principale vincitore con un’avanzata di oltre mezzo milione di voti. Fini, rotto l’abbraccio con Segni e abbandonata la "corsa al centro", torna a crescere sulle linee che più sono connaturate alla natura del suo partito, cioè una demagogia populista di destra.
Anche a sinistra c’è un aumento di voti. Il Prc guadagna 92.000 voti. Più difficile è il calcolo per quello che riguarda il centrosinistra, poiché in Lombardia non si presentavano le liste dei partiti, ma solo una lista unica (esclusi i socialisti). Il fallimento della lista di Martinazzoli è inequivocabile: 917.831 voti contro oltre 1.300.000 raccolti nelle europee dai partiti del centrosinistra dimostrano come siano tutte chiacchiere quelle del "valore aggiunto dell’Ulivo", che tanto piacciono a Veltroni. Se si esclude la Lombardia, nelle altre regioni i Ds guadagnano 276.000 voti. Facendo una stima sul voto lombardo, basata sul presupposto che i risultati dei diversi partiti del governo siano omogenei a quelli del centrosinistra nelle altre regioni, si può ricavare la stima che riportiamo nella tabella.
Infine l’astensione continua ad aumentare (rispetto alle ultime regionali), e senza dubbio è in gran parte un’astensione "politica", alimentata dalla delusione verso l’operato del governo.
Questi risultati smentiscono molte delle spiegazioni che, in particolare nel gruppo dirigente del Prc, vennero date della sconfitta elettorale delle europee l’anno scorso. Si parlava allora di "americanizzazione", di marcia irresistibile dei "partiti leggeri", della politica televisiva basata sull’immagine dei singoli candidati, che avrebbero distrutto inesorabilmente i partiti tradizionali e il loro radicamento.
Oggi possiamo dire che in quelle analisi vi era molta superficialità, molte impressioni, e ben poco di scientifico. Il partito "americano" per eccellenza, la lista Bonino, esce demolito dalle urne. Il secondo partito "americano", i Democratici, sono i grandi perdenti del centrosinistra, e questa sconfitta aprirà presumibilmente una crisi al loro interno che potrebbe portare anche alla loro disintegrazione. Infine il "clintoniano" Veltroni, che pure ha guadagnato voti, deve per ora rinunciare alla sua linea strategica: quella dello scioglimento dei Ds in un partito per l’appunto "all’americana". Il disastro della lista unica in Lombardia e il tracollo del centro, e in particolare dei Democratici, chiudono quella prospettiva.
Non "americanizzazione", quindi, ma una polarizzazione significativa: di fronte alla crisi del centrosinistra i voti si spostano in primo luogo verso i due estremi dello schieramento politico. Crediamo che questa polarizzazione vada intesa come un segnale, un avvertimento i processi sociali più profondi, che solo in parte si riflettono nelle urne.
Le ripetute prese di posizione di D’Alema prima delle elezioni, dal manifesto liberista firmato assieme a Blair fino al tentato abbraccio con la Bonino non erano frutto di un attacco di follia. D’Alema non voleva essere salvato dall’intervento dei lavoratori. Voleva convincere la borghesia. Non voleva recuperare voti a sinistra, dall’astensione, ma a destra, dai settori più moderati. Solo così, pensava, la sua vittoria avrebbe potuto essere stabile e duratura.
Nonostante tutto, qualche centinaia di migliaia di votanti Ds sono tornati a votare nel tentativo di fermare la destra. Questa reazione è significativa, perché dimostra la differenza fra i Ds e i partiti di centro del governo. Questi ultimi, di fronte all’avanzata della destra, tendono a squagliarsi e a disgregarsi. Al contrario, i Ds in qualche modo tentano di compattarsi. Questo si deve al radicamento operaio e popolare che tuttora quel partito mantiene.
Il centro, e in particolare i Democratici, crollano in primo luogo perché viene a mancare per loro l’appoggio attivo della borghesia, dei mezzi di comunicazione, del grande capitale. La loro perdita è di oltre 1 milione di voti. Essendo partiti d’opinione, senza un vero radicamento, questi dipendono strettamente dai finanziamenti diretti della borghesia, dal fatto di avere "buona stampa", ecc. Oggi, però, il grande capitale sta facendo scelte diverse: il centrosinistra è ormai "a termine", si dia il tempo ad Amato di dare gli ultimi ritocchi ai disastri di Prodi e D’Alema, e poi si passerà la mano a un governo di destra. La linea ormai prevalente in Confindustria è quella che della concertazione si può anche fare a meno, e quindi anche del centrosinistra. Questa linea non si esprime solo in dichiarazioni alla stampa, ma anche in una nuova intransigenza delle diverse associazioni padronali di categoria, che nelle trattative contrattuali in corso si sono schierate su posizioni sempre più oltranziste.
Chi, nel padronato, immaginava soluzioni diverse, moderate (nuovo partito di centro, rottura tra An e Forza Italia), che potessero evitare gli "estremi", dovrà rinunciare ai propri progetti, dato il risultato emerso dalle urne.
Qual è lo stato della destra, che stando alle cifre si può preparare a tornare al governo in tempi brevi? Abbiamo già detto di An e dei motivi della sua crescita. Forza Italia è apparsa come un vincitore anche se in realtà, come risulta dalla tabella, ha distribuito voti ai suoi alleati di centro. Certo il partito di Berlusconi appare diverso dal partito virtuale del 1994. Non dobbiamo però esagerare in queste valutazioni. Forza Italia ha certo oggi una rete di appoggio, legami clientelari, affaristici, gruppi d’interesse che vanno ben oltre il gruppo Mediaset. Rimane tuttavia un partito dallo scarso radicamento sociale. Sbaglia chi la paragona alla Dc. Della Dc, Forza Italia non ha l’appoggio sociale, non ha un sindacato paragonabile alla Cisl degli anni del "centrismo", non ha le Acli, non ha l’associazionismo. Le elezioni confermano che Forza Italia rimane un partito privo di un gruppo dirigente collettivo e di figure di primo piano che possano equilibrare il ruolo di Berlusconi forse con la sola eccezione del boss lombardo Formigoni. Si dica quello che si vuole, ma i vari Ghigo, Galan e soci sono pure nullità, che giganteggiano solo grazie all’infinito squallore del centrosinistra e alla impopolarità del governo e dei suoi portavoce locali. Il fatto che Forza Italia rimanga un partito monocratico, in cui Berlusconi deve avere l’ultima parola su tutto, in ultima analisi è un indice di debolezza (anche se può dare vantaggi tattici nella rapidità delle decisioni e nella disciplina interna). Una debolezza non casuale, non dettata da motivi personali, ma dall’impossibilità di ricostruire, nell’Italia di oggi, un interclassismo analogo a quello che sorreggeva la Dc, che ne fece per 50 anni un partito buono per tutte le stagioni, capace di avanzare di volta in volta mille facce diverse, dai settori che dialogavano con i neofascisti e coi militari che sognavano il colpo di stato, fino agli esponenti sindacali della Cisl, o ai portavoce del "cattolicesimo sociale", capaci di conquistare milioni di voti anche fra i lavoratori organizzati, fra i giovani, ecc.
In conclusione, dalle urne esce la sconfitta del governo, e probabilmente un passo decisivo verso un nuovo governo di destra. Ma la tanto sospirata stabilizzazione, che da un decennio la borghesia italiana insegue e sogna, rimane lontana. Nuovi e più profondi conflitti si preparano, sul terreno sociale e politico.
Il paese diviso e polarizzato che leggiamo nei risultati elettorali, è un preludio di questi conflitti.
Europee 1999 | Regionali 2000 | |
Partiti centristi di maggioranza (Ppi, Democratici, Dini, Udeur, Cacciari, Sdi) | 4.028.000 | 3.075.000 |
Sinistra del governo (Ds, Verdi, PdCI) | 5.896.000 | 6.169.000 |
Prc | 1.200.000 | 1.292.000 |
Centristi del Polo (Ccd-Cdu) | 1.218.000 | 1.465.000 |
Lega | 1.310.000 | 1.264.000 |
Forza Italia | 6.697.000 | 6.450.000 |
Alleanza nazionale | 2.730.000 | 3.279.000 |
Lista Bonino | 2.337.358 | 558.791 |