Resistere un minuto più del governo!
Oltre mezzo milione di lavoratori sono scesi in piazza il 29 gennaio nella giornata conclusiva della serie di scioperi regionali convocati dalle confederazioni sindacali. È stata la più grande mobilitazione sindacale dopo il 1994, e dimostra una volta di più a tutti gli scettici come la classe operaia sia viva e vigile, e come esista una chiara volontà di opporsi agli attacchi del governo.
Le prossime settimane potrebbero essere decisive; a meno che Berlusconi non decida di fare il passo indietro e rimandare lo scontro (ma non pare averne l’intenzione), lo scontro assumerà un carattere frontale, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Le forze per vincere ci sono: dobbiamo lavorare energicamente e sistematicamente per diffondere fra i lavoratori questa convinzione. Il governo sta sfidando milioni di persone: lavoratori, studenti, immigrati, i settori decisivi della società, e può essere battuto come lo fu nel 1994. Non mancano né i motivi per lottare, né la disponibilità a mobilitarsi. Manca però una chiara strategia e un programma adeguato che possa portarci a questa vittoria.
Questo è il compito decisivo che dobbiamo porci.
L’azione delle confederazioni sindacali, e in particolare della Cgil, ha aperto un varco alle mobilitazioni. È un fatto obiettivo, riconoscerlo non significa affatto dire "bravo" a Cofferati (che sta facendo il minimo del minimo indispensabile considerata la posta in gioco), ma riconoscere la realtà dei fatti per elaborare una strategia d’intervento che possa incidere sulle prospettive di questo scontro. La paventata rottura tra Cgil da un lato, e Cisl e Uil dall’altro (rottura che comunque per ora si limita soprattutto alle parole) non è certo sufficiente a disinnescare il conflitto. Sottoscriviamo pienamente le parole di quel delegato al congresso nazionale della Cgil che ha dichiarato: "Se saremo soli, saremo soli con milioni di lavoratori!"
Il nodo del problema non è qui, il nodo del problema è la strategia con la quale Cofferati sta avviandosi a questo scontro.
Dichiarare che lo sciopero generale è possibile è un fatto importante. Ma l’insieme della linea seguita da Cofferati a partire dall’autunno mostra come il vertice della Cgil si orienti in base a una logica burocratica che si può riassumere così: il governo e i padroni ci attaccano frontalmente, non possiamo pensare di trattare su queste basi, la mobilitazione dei lavoratori è però uno strumento ausiliario da impiegarsi lo stretto indispensabile per tornare poi ai "normali" metodi della concertazione.
La conseguenza pratica di questo ragionamento è evidente: si vuole restringere lo scontro anziché estendere il conflitto, si vuole circoscrivere i punti di disaccordo, anziché dire chiaramente ai lavoratori che è l’insieme della politica di questo governo a costituire una minaccia permanente ai nostri diritti. I dirigenti della Cgil sanno perfettamente qual è il clima nei posti di lavoro, e quanta frustrazione e rabbia si siano accumulati fra i lavoratori. Sanno che c’è una bomba a orologeria innescata, ma il loro obiettivo è renderla innocua e fare sì che l’esplosione non causi danni a nessuno. Il nostro obbiettivo invece è che l’esplosione sociale mandi a gambe all’aria questo governo e i padroni che gli hanno dettato il suo programma.
Lo strumento principale per l’estensione del conflitto deve essere la piattaforma sulla quale si chiama alla mobilitazione. Cofferati dice una cosa sacrosanta quando dichiara che i diritti non sono negoziabili, e che non esiste un diritto "a metà". Tuttavia l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che protegge contro i licenziamenti arbitrari, è proprio un diritto dimezzato. La nostra prima richiesta allora deve essere che la Cgil dica a chiare lettere: articolo 18 per tutti! Per i lavoratori delle piccole imprese sotto i 15 dipendenti (circa la metà del totale), per gli interinali, i "collaboratori", gli immigrati, per tutti quegli "atipici" che rappresentano ormai circa l’80% dei nuovi assunti. Basta flessibilità e precariato! Estendiamo lo Statuto a tutte le imprese abrogando le indegnità del "Pacchetto Treu", a partire dal lavoro interinale, e lottiamo fabbrica per fabbrica, categoria per categoria, rivendicando l’assunzione di tutti i precari.
Dichiara Paolo Fresco, amministratore delegato Fiat, sul Corriere della Sera: "Se ci immoliamo per l’articolo 18 rischiamo di perdere anche la flessibilità che abbiamo già conquistato".
È dunque possibile lottare non solo sulla difensiva, ma anche per riprenderci quei diritti che ci sono stati sottratti con i disastri della concertazione. Se lo capisce il sig. Fresco, sarebbe ora che lo capissero anche i dirigenti della Cgil!
Il ritiro integrale delle deleghe chieste dal governo è un obiettivo minimo e irrinunciabile guai se si pensasse di scambiare un rinvio sull’articolo 18 con una apertura sulle pensioni o sulla scuola. Significherebbe la sconfitta sicura su tutti i terreni nel giro di pochi mesi, significherebbe frammentare il potenziale movimento e mandarlo allo sbaraglio.
Ancora Cofferati ha detto: ci opponiamo al "doppio regime" sull’articolo 18 (cioè mantenere la legge per i lavoratori attuali e cambiarla per i neoassunti) perché romperebbe la solidarietà fra le generazioni. Parole sacrosante! E se sono sacrosante, devono valere anche per le pensioni. La riforma Dini del 1995 ha precisamente rotto la solidarietà fra le generazioni (ma che memoria corta che ha il compagno Cofferati!) e ha messo il futuro della previdenza in mano alla speculazione finanziaria dei fondi pensione, nei quali rischia oggi di finire anche tutta la liquidazione. Il disastro della Enron, dove migliaia di dipendenti avevano le proprie pensioni in fondi legati alla quotazione del titolo di Borsa e si sono visti azzerare la futura pensione, dovrebbe far riflettere. La pensione deve essere pubblica e uguale per tutti.
Restano ai margini dell’attuale piattaforma della Cgil la questione della scuola, dell’immigrazione, la questione salariale e i disoccupati. Ma come può essere credibile la lotta per i diritti nei luoghi di lavoro se contemporaneamente non ci opponiamo frontalmente a una legge schiavista sull’immigrazione, che lega vita e morte dell’immigrato al volere del padrone, che alimenta la clandestinità (naturalmente con l’eccezione delle schiave domestiche di lor signori, che non vogliono certo rinunciare alla "filippina" che gli pulisce la casa!), che non solo umilia gli immigrati, ma apre anche una breccia pericolosissima nel fronte dei lavoratori aumentando la ricattabilità degli immigrati? E come è possibile lottare per i diritti sul lavoro senza porsi anche il problema di una controriforma della scuola che, oltre ad aprire ulteriormente al privato, crea una massa di manodopera giovanile sottopagata con il cosiddetto "obbligo formativo"?
E ancora: siamo alla fine di un ciclo di crescita economica e ci si avvia a una crisi: ai milioni di disoccupati già esistenti si potrebbero aggiungere, secondo Prodi, 600mila esuberi nel corso del prossimo anno. Come possiamo lottare per la sicurezza del posto di lavoro con un simile esercito di disoccupati che preme? Un salario garantito per i disoccupati, che garantisca una vita degna fuori dal ricatto del lavoro nero o dell’economia mafiosa, non è solo una rivendicazione elementare per i disoccupati, ma difende anche chi il lavoro ce l’ha.
La firma dell’accordo sul pubblico impiego (vedi riquadro in queste pagine) la dice lunga su molte cose. Certamente il fatto che il governo abbia più che raddoppiato la sua offerta precedente è il risultato della lotta, e in particolare degli scioperi del 29 gennaio. Ma quei presunti 100 euro di aumento sono pieni di "se" e di "ma", quel contratto contiene più di una polpetta avvelenata. E poi, se con due scioperi si è ottenuto un raddoppio dell’offerta iniziale, non si poteva ipotizzare che proseguendo la lotta e unendola alla battaglia generale per l’articolo 18 si sarebbe potuto ottenere molto di più, non solo sul piano salariale ma soprattutto nel fermare i processi di privatizzazione, aziendalizzazione e precarizzazione che colpiscono ormai tutto il pubblico impiego? E basta quel contratto per garantire il futuro dei docenti in un contesto nel quale tutta la scuola pubblica è sottoposta a un attacco martellante? Noi crediamo di no.
Allora diciamo che sì: vogliamo e dobbiamo lottare e dobbiamo spingere per lo sciopero generale e sostenere attivamente ogni iniziativa di mobilitazione, ma per portare questi contenuti. Lottare tutti per i diritti di tutti, e allora davvero potremo vincere.
Dal programma derivano automaticamente altre considerazioni sui metodi di lotta da impiegare. Quando Pezzotta domanda provocatoriamente "dopo lo sciopero generale, cosa si fà?" lo dice perché si prepara a giustificare una probabile scelta di crumiraggio. Ma a questa domanda dobbiamo rispondere anche noi per un motivo molto semplice. I padroni e il governo lo sciopero generale l’hanno certamente messo in conto, e pensano che il gioco valga la candela. Così il presidente di Confindustria D’Amato: "Lo sciopero generale non è mica la bomba atomica". Come dire: lasciamoli sfogare, che alla fine dovranno ingoiare tutto. Data la portata dello scontro lo sciopero generale, anche di 24 ore, potrebbe non essere sufficiente soprattutto se si considera che in numerosi settori del pubblico impiego le leggi antisciopero ormai rendono questo diritto quasi simbolico. I cosiddetti "servizi minimi" garantiti dalle leggi antisciopero come la 146/90 in realtà vanno di molto al di là di una ragionevole autoregolamentazione su questioni come ricoveri d’urgenza o altri casi analoghi. È necessario uno sciopero vero, che paralizzi tutto il paese, inclusi trasporti, servizi e quant’altro, se vogliamo davvero incidere a fondo.
Ma soprattutto è necessario che lo sciopero generale non sia il punto d’arrivo, ma il volano per rilanciare ulteriormente la lotta. Lotta di lunga durata, come ha detto Cofferati? Per ora ci pare che a durare a lungo siano soprattutto le schermaglie e la pretattica, comunque siamo d’accordo. Ma la lunga durata può essere garantita solo se i lavoratori saranno convinti non con le parole, ma con il comportamento che la Cgil terrà sul campo, che il sindacato non li mollerà a metà strada, che veramente si vuole andare fino in fondo. Lo sciopero generale non è solo uno strumento di lotta, è il trampolino di lancio per garantire la tenuta di una mobilitazione che si preannuncia dura e complessa.
L’unica risposta che possiamo dare a Pezzotta e a tutti gli altri sabotatori è quindi la seguente: dopo lo sciopero generale, se il governo non cede si continuerà a lottare, fino a quando sia necessario!
Oggi finalmente si è aperto un varco, dopo anni amari di arretramenti. Non lasciamo che si richiuda! Mobilitiamoci dal basso, in massa, tenacemente, portiamo questo dibattito in tutti i luoghi di lavoro, costruiamo legami fra le fabbriche, le scuole, le università: questo è l’unico modo per aprire la prospettiva di una vittoria, per impedire che la stessa Cgil torni sui suoi passi o si limiti a una mobilitazione formale e di facciata.
Se nelle prossime settimane si creerà questo ambiente, allora non solo possiamo fermare l’attacco allo Statuto dei lavoratori, ma possiamo avviare il conto alla rovescia per cacciare questo governo. L’Argentina faccia da lezione: quando c’è la volontà di andare fino in fondo, niente può resistere alla mobilitazione popolare!
Milano, 12 febbraio 2002
Il contratto del pubblico impiego
Il 4 febbraio è stato firmato l’accordo sul contratto del Pubblico impiego tra governo e Cgil-Cisl-Uil. Di conseguenza lo sciopero del 15 febbraio è stato revocato. Sicuramente, rispetto alle dichiarazioni bellicose del governo, che era disposto a concedere all’inizio solo 9.000 lire di aumento, la differenza è molto grande. Si parla di circa 100 euro (195.000 lire) lorde di aumento.
Ma è tutto vero? Intanto in busta paga se ne vedranno meno di 120mila… La cifra quindi risulta del tutto insufficiente a coprire il rincaro del costo della vita. L’accordo è poi definito una cornice, al cui interno verranno poi stipulati i veri contratti dei diversi settori (Ministeri, sanità, scuola, ecc.). Inoltre una sua parte verrà legata alla produttività e alla meritocrazia, quindi non sarà per tutti. Infine, i soldi si dovranno trovare nella prossima finanziaria del 2003!
Il Tfr sarà d’altro canto sottratto ai lavoratori come nel settore privato, mentre le privatizzazioni, le esternalizzazioni e la soppressione di interi Enti pubblici non vengono affatto fermate, ma le loro modalità verranno contrattate.
Insomma per pochi denari e molte promesse si dà modo al governo di riprendere il fiato e si avalla il suo tentativo di dividere i lavoratori, dopo che gli scioperi regionali di fine gennaio e il grande sciopero del Pubblico impiego del 14 dicembre lo stavano mettendo in evidente difficoltà.
La direzione sindacale è contenta perché si è ribadito e difeso il principio della concertazione… ma è stato chiesto o si chiederà cosa ne pensano i lavoratori?
Il Prc e il congresso della Cgil
Lo scontro sull’articolo 18 si produce mentre l’opposizione parlamentare affonda nella crisi e nel ridicolo. Mentre si profila quello che potrebbe essere il più grande scontro sociale nel nostro paese da un decennio, i capi dell’Ulivo sono ridotti a un tale stato che persino un Nanni Moretti al loro cospetto giganteggia. Non a caso, l’intero dibattito politico della sinistra italiana ha ruotato attorno al congresso della Cgil e a Cofferati, che oggi più che mai appare arbitro delle sorti della sinistra.
La "svolta" del congresso di Rimini non ci sorprende: era prevedibile e l’avevamo prevista molto tempo fa, quando spiegavamo che l’effetto congiunto della radicalizzazione crescente nel paese e della vittoria elettorale di un governo reazionario avrebbe inevitabilmente costretto la Cgil a una svolta a sinistra, a convocare mobilitazioni, a porsi in un modo o nell’altro a capo di un movimento di opposizione.
Allo stesso modo spiegavamo che questo processo non investiva solamente il campo sindacale, ma avrebbe avuto riflessi immediati nella crisi dei Ds, cosa che puntualmente sta accadendo.
Purtroppo va detto che Bertinotti e il gruppo dirigente del Prc non solo non hanno capito quanto si stava preparando, ma stanno buttando dalla finestra un’opportunità d’oro per intervenire in questo processo. La linea seguita in questi mesi dimostra la più completa confusione. Il più delle volte si mostra un disinteresse quasi sprezzante (lo sciopero di due ore di dicembre definito "sciopericchio", la decisione di Bertinotti di non assistere al congresso nazionale della Cgil, i resoconti e i titoli quasi sprezzanti su Liberazione che ci raccontavano di un congresso in cui c’era solo "continuità", in cui nulla cambiava, in cui "il protagonista vero è la Cisl" (?!?). Tutto questo viene poi a cadere quando Cofferati pronuncia le due magiche paroline: "sciopero generale", e allora Liberazione esce con una prima pagina che in un tripudio di bandiere rosse titola "la nostra speranza". Colmo della confusione, mentre il responsabile nazionale lavoro del Prc Zuccherini commenta con molta freddezza le conclusioni del congresso, tutti i sindacalisti del Prc votano a favore del documento proposto da Cofferati, con la lodevole eccezione di Bruno Manganaro.
Per quanto ci riguarda crediamo che il compito dei comunisti non sia né quello di chiudere gli occhi quando un sindacato (sia pure guidato da una direzione riformista) porta in piazza centinaia di migliaia di persone, né quello di "sperare" alcunché dai suoi dirigenti, e tantomeno di aprirgli un nuovo credito (votando la posizione di Cofferati e la sua conferma a segretario) quando questi non solo rivendicano tutti i disastri della concertazione, ma si ingegnano con tutti i mezzi affinché il movimento rimanga entro gli argini e non si trasformi in una vera esplosione sociale.
Questi errori purtroppo confermano come la linea attuale del Prc rischi di sradicare il partito e di fargli perdere la capacità di incidere nei grandi processi di massa che si stanno aprendo. Ma su questo torneremo durante le prossime settimane nel corso del dibattito congressuale del Prc.