Quale posizione per i comunisti?
Nei mesi passati siamo stati oggetto di polemiche nei dibattiti in Rifondazione perchè rifiutavamo di riconoscere la "mutazione genetica" dei Ds in partito liberale. Secondo i nostri critici il partito di D’Alema aveva rotto ogni legame con la socialdemocrazia e in generale con la burocrazia nel movimento operaio per diventare a tutti gli effetti una rappresentanza politica del grande capitale.
Apparentemente nell’epoca del centrosinistra, con D’Alema presidente del consiglio che portava un attacco dietro l’altro alle classi popolari e faceva la guerra nel Kosovo, questa posizione sembrava corrispondere ai fatti.
Le relazioni che l’apparato Ds aveva allacciato dal governo con settori della borghesia (vedi la scalata di Colaninno al gruppo Telecom) e la disponibilità di esponenti della Confindustria a candidarsi per l’Ulivo in diverse elezioni amministrative davano ulteriori argomenti a chi sosteneva questa tesi.
Il problema di questa analisi era il suo formalismo e la sua staticità, si fotografava una situazione senza vedere il processo nel suo sviluppo, con le interrelazioni dialettiche e le contraddizioni che si aprivano tra la base e il vertice del partito.
Il tentativo di un settore della classe dominante in effetti c’è stato, come la disponibilità di una parte dell’apparato. Questa operazione ha assunto varie forme e aveva al suo interno la costante ricerca del dissolvimento dei Ds all’interno di un partito democratico recidendo i legami storici con il movimento operaio.
Tuttavia questo progetto non si è realizzato e la rappresentanza politica borghese, pur tra contraddizioni, si è ricomposta non attorno a un partito democratico ma attorno a partiti come An, la Lega e Forza Italia.
Con la sconfitta del centrosinistra alle ultime elezioni e l’insediamento del governo Berlus-coni un processo che sembrava irrimediabilmente destinato a concludersi con una trasformazione "qualitativa" ha invertito il senso di marcia.
Il punto di inversione c’è stato con la formazione del "correntone" alla cui testa si è messo Sergio Cofferati. Quando il segretario della Cgil rompe con la maggioranza del partito collocandosi all’opposizione porta con sè un gruppo ben assortito di dirigenti (buona parte dei veltroniani e un piccolo drappello di ex-dalemiani) formando un blocco con le sinistre di Cesare Salvi e Gloria Buffo.
La prima cosa che dovrebbero spiegare i nostri critici è come mai dal centro del partito (che avevano dichiarato ormai liberale e borghese) si sia staccato un pezzo consistente del gruppo dirigente che prende a base di riferimento non la Confindustria ma la Cgil e il suo apparato. Attendiamo risposte convincenti.
La dialettica base-vertice
Con il mutamento delle condizioni oggettive è mutato anche l’atteggiamento della burocrazia, questo lo si è visto con il movimento no-global e lo sbarco della Seconda Internazionale al Forum di Porto Alegre.
Di fronte al "disgelo" delle lotte sociali un settore dell’apparato si è reso conto che per riconquistare l’autorità persa, dovevano mostrarsi più combattivi agli occhi dei lavoratori se non volevano perdere ogni possibilità di riproporsi in futuro come agenti della mediazione sociale.
Certamente questo processo riguarda per ora solo una parte dei Ds. L’asse strategico D’Alema-Fassino resta quello della "modernizzazione", ma è una linea sempre più debole agli occhi dei militanti, a dimostrazione di questo il clamore che hanno suscitato le dichiarazioni di Nanni Moretti e il movimento che ne è nato di conseguenza, dai girotondi, all’assemblea del Palavobis.
Di fronte a questo tumulto la reazione del segretario dei Ds è stata di accondiscendenza verso gli intellettuali, quella di D’Alema... programmare un viaggio di tre mesi negli Stati Uniti!
Staremo a vedere cosa accadrà ma quello che è certo è che un partito non può restare perennemente in crisi: o si dissolve (non è l’ipotesi più probabile) o avvia un cambiamento decisivo nella sua politica.
La base seppur confusamente spinge a sinistra, Cofferati sta solleticando e allo stesso tempo provocando le aspettative represse per anni. A dimostrazione di questo i fischi che hanno sommerso D’Alema all’incontro di Firenze, e le centinaia di cartelli in sala che riportavano uno degli slogan del movimento: "D’Alema dì qualcosa di sinistra".
Cofferati emerge sempre più chiaramente agli occhi di milioni di lavoratori e militanti di base come l’unica alternativa alla crisi devastante che attanaglia i Ds e la sinistra più in generale. La cosa può non piacere ma è un dato di fatto, basta andare alle manifestazioni e alle assemblee della Cgil per respirare questo ambiente. A sommergere il cinese non sono i fischi ma gli applausi.
D’altra parte quello che sta accadendo non è precisamente qualcosa di ordinario. La Cgil ha convocato uno sciopero generale senza Cisl e Uil solo tre volte nella sua storia (mentre scriviamo non sappiamo ancora se gli altri due sindacati confederali alla fine si accoderanno). L’ultimo è stato nella primavera del ‘68.
Come ha riconosciuto lo stesso Bertinotti nella direzione nazionale, il Prc giunge impreparato a questa sfida. Inutile negarlo, questa svolta della Cgil non era stata prevista dalla maggioranza del gruppo dirigente di Rifondazione comunista.
Chi come noi avvertiva della possibilità che si realizzasse uno scenario del genere veniva accusato di avere illusioni in Cofferati. Chi ha dimostrato invece di avere queste illusioni sono i sindacalisti comunisti che, con il sostegno di Zuccherini e della segreteria nazionale del Prc, hanno votato il documento finale uscito dal congresso della Cgil.
Un atto quest’ultimo che contribuisce a rafforzare le aspettative nel movimento verso chi, nella sua relazione introduttiva al congresso, ha dichiarato che convoca queste lotte per poter stabilire in futuro "normali relazioni concertative".
I comunisti non dovrebbero mai dimenticare che siamo di fronte allo stesso Cofferati che ha firmato gli accordi di luglio, sostenuto le leggi antisciopero, la precarizzazione del mercato del lavoro, la controriforma Dini paralizzando la classe operaia per quasi dieci anni che è stata soffocata dalla cappa della concertazione.
Le svolte brusche della socialdemocrazia: un po’ di storia
Eppure se si guarda al passato non è la prima volta che si assiste a conversioni del genere sul piano sindacale che poi si trasferiscono su quello politico. La storia è piena di svolte burocratiche fatte allo scopo di cavalcare le mobilitazioni per riconquistare il controllo sul movimento operaio.
Quei partiti socialdemocratici che nel 1914 sostennero la prima guerra mondiale, saranno attraversati negli anni ‘30 da un processo di radicalizzazione che vedrà al loro interno la formazione di tendenze di sinistra che si muoveranno in direzione rivoluzionaria. I giovani del Psoe (Partito socialista spagnolo) chiederanno ai militanti trotskisti di entrare nella loro organizzazione per "bolscevizzarla". Andres Nin, nonostante i consigli di Trotskij, rifiutò l’offerta permettendo agli stalinisti di prendere il controllo di quell’organizzazione che inevitabilmente degenerò.
Uno dei leader del Psoe, Largo Caballero, sotto la spinta delle masse radicalizzò a tal punto le sue posizioni da essere soprannominato il Lenin spagnolo. E’ utile ricordare che solo pochi anni prima lo stesso Caballero era sottosegretario al lavoro del dittatore Primo de Rivera!
Negli anni ‘50 di fronte al riflusso delle mobilitazioni operaie una nuova ondata di destra si abbattè sulla Seconda Internazionale. Con la parziale eccezione del Partito socialista italiano (che mantenne una politica frontista con il Pci fino al ‘56) tutte le socialdemocrazie assunsero un carattere apertamente anticomunista e filo-occidentale. In questa fase maturarono le condizioni che portarono la Spd (socialdemocrazia tedesca) nel congresso di Bad Godesberg del ‘59 ad abbandonare ogni riferimento al socialismo.
La Sfio (Partito socialista francese) da parte sua si rese responsabile del massacro degli algerini nella politica coloniale francese che venne gestita personalmente dall’allora ministro, Francois Mitterand. In quel periodo il Partito socialista francese venne ridotto al 4% sul piano elettorale.
Qualche anno dopo in un contesto sociale diverso (dopo il maggio ‘68) lo stesso Mitterand avviò una svolta a sinistra (nel congresso dell’Epinay del ‘71). Questo permise ai socialisti di riguadagnare un certo consenso nella classe operaia e vincere in alleanza con i comunisti (l’Union de le Gauche) le elezioni dell’81 sulla base di un programma a parole molto avanzato (35 ore, nazionalizzazione di alcuni settori dell’economia, ecc.).
Un programma che ovviamente non verrà mai applicato per le pressioni della Confin-dustria francese che i riformisti si guardarono bene dallo sfidare sul terreno della lotta di classe.
Queste esperienze insegnano che i dirigenti socialdemocratici in determinate condizioni sono capaci di spostare anche molto a sinistra la barra delle loro rivendicazioni anche se poi finiscono inevitabilmente per ingannare il movimento operaio.
Quello che caratterizza le socialdemocrazie non è come ha affermato recentemente Fausto Bertinotti, nè il programma riformista che difenderebbero sempre e comunque (abbiamo visto come in passato sono state non solo contro le riforme ma anche apertamente controrivoluzionarie), nè la prospettiva del socialismo che rimarrebbe comunque nel loro orizzonte.
L’essenza della politica socialdemocratica, ossia della politica e dell’ideologia degli apparati che dominano il movimento operaio e sindacale, è sempre stata quella di "rappresentare", mediare e trattare gli interessi della classe lavoratrice all’interno delle compatibilità economiche e politiche del sistema capitalista.
L’aspetto che le distingue e la loro capacità di "controllare" la classe esercitando un ruolo di freno sulle mobilitazioni. Per poter esercitare questo ruolo, che beninteso è utilissimo alla classe dominante, devono mantenere un certo consenso senza il quale verrebbe meno il ruolo e il significato stesso di questi apparati. Il loro insediamento, la tradizione e la tendenza dei lavoratori a non abbandonare facilmente le proprie organizzazioni storiche gioca un ruolo decisivo in questo senso.
Proprio per aggirare l’ostacolo rappresentato dalle socialdemocrazie i comunisti hanno sviluppato fin dagli anni ‘20 la tattica del fronte unico allo scopo di conquistare la maggioranza dei lavoratori a una prospettiva rivoluzionaria.
Verso il Partito del Lavoro?
Chi scrive non se la sente di escludere a priori che un domani di fronte a un contesto di ulteriore acutizzazione dello scontro sociale, persino un D’Alema o qualche altro dirigente dell’attuale maggioranza dei Ds, trovandosi spiazzato dall’operazione Cofferati, non possa decidere di fare a sua volta un doppio salto mortale tentando lo scavalco a sinistra.
In questa prospettiva entrano in gioco elementi oggettivi e soggettivi. Questi ultimi sono i più difficili da prevedere, mentre è possibile capire i processi è molto più complesso prevedere gli individui che potranno guidarli.
Quello che è certo è che all’interno della burocrazia diessina si apre uno scontro molto duro di cui è difficile prevedere gli esiti, trattandosi di un conflitto tra forze vive. Così come si è disgregata la maggioranza dell’80% con cui Veltroni e D’Alema vinsero il congresso del Lingotto nel gennaio del 2000 allo stesso modo potrebbe disgregarsi l’attuale maggioranza D’Alema-Fassino.
Nella sinistra Ds si sta discutendo apertamente della possibilità di una scissione per dare vita a un Partito del Lavoro. C’è chi si oppone (Berlinguer tra questi) ma è evidente che la questione viene valutata seriamente dai dirigenti di quell’area. In molti pensano (tra questi i compagni del Manifesto) che ci sia uno spazio di rappresentanza politica da occupare tra i Ds e Rifondazione Comunista.
E’ evidente che un’ipotesi del genere avrebbe un forte potere di attrazione sul Pdci di Cossutta, per non parlare dei quadri della Cgil (includendo l’area di Patta che rappresenta i tre quarti dei quadri in quota alla sinistra sindacale).
Dunque un apparato che potrebbe sostenere questa ipotesi ci sarebbe ed è certamente più grande di quello che possiede attualmente Rifondazione. Altra cosa è capire se questo progetto ha uno spazio e un reale bacino di consenso potenziale nel quale poter attingere voti e militanti.
Questo dipende dalle scelte che farà il nostro partito ma anche da quelle che farà D’Alema che oggi è chiaramente in difficoltà. Se la sua linea fosse in continuità con quanto si è visto negli ultimi anni, allora la vittoria di Sergio Cofferati sarebbe praticamente assicurata, e forse non ci sarebbe neanche bisogno di formare un nuovo partito perchè buona parte dell’apparato (magari dopo una possibile scissione di destra che finirebbe nella Margherita) si orienterebbe verso l’attuale segretario della Cgil. Un processo del genere è già iniziato con i sindacalisti dalemiani che sono sempre più schiacciati sulle posizioni di Cofferati.
L’altra ipotesi è che D’Alema cerchi un compromesso con Cofferati (il quale sembra poco propenso ad accettarlo, considerato che parte obiettivamente da una posizione di forza). Senza un accordo tra i due l’unica strada che resterebbe a D’Alema per competere con l’avversario è scendere sul suo terreno. A meno che non decida di fare la fine di Occhetto.
In ogni caso c’è più di una ragione per pensare che il gruppo dirigente dei Ds possa avviare una svolta che sarà tanto più radicale quanto sarà acuto il conflitto sociale che si svilupperà nei prossimi mesi. Si tratta di un processo non graduale che avrà alti e bassi dipendendo dalle congiunture politiche e sociali.
In un contesto del genere si aprirebbero grandi opportunità per Rifondazione che per non sciuparle accanto al proprio apparato rivendicativo e programmatico dovrebbe rilanciare la propria battaglia per l’egemonia, la cui condizione di partenza è mantenere un’assoluta indipendenza di classe dal centrosinistra.
In direzione completamente opposta si muove Bertinotti che in un intervista del 16 marzo rilasciata all’Unità invece di insistere sull’autonomia di Rifondazione fa un apertura a tutto campo rispetto a possibili accordi con l’Ulivo alle prossime amministrative.
Appena si sposta una virgola in casa Ds, ma soprattutto non appena si avvicinano le elezioni le frasi sulla "rottura col governo Prodi come atto rifondativo del Partito" lasciano lo spazio all’unità dei "democratici" contro le destre.
L’eclettismo del gruppo dirigente del Prc non è purtroppo una novita, ma una linea ondivaga non ci aiuterà a conquistare le masse, nè è pensabile progettare su queste basi una seria battaglia per l’egemonia. D’altra parte leggendo le tesi di maggioranza non ci pare che il concetto di egemonia nei movimenti rappresenti più un obiettivo per cui i comunisti dovrebbero battersi.
Per parte nostra continueremo a batterci rivolgendoci a tutti quei militanti del partito, ovunque collocati, che non hanno rinunciato alla prospettiva di contendere agli apparati riformisti la direzione sul movimento operaio, senza la quale nessun progetto di trasformazione della società sarà mai realizzabile.