A “Marcia su Roma” avvenuta, il movimento “dei forconi” probabilmente si sgonfierà, almeno temporaneamente. La protesta – battezzata dai suoi organizzatori come “rivoluzione del 9 dicembre” - ha coinvolto alcune decine di migliaia di persone, prevalentemente padroncini dell’autotrasporto e agricoltori.
La forma della protesta è stata quella dei blocchi stradali. Si è trattato di una mobilitazione enfatizzata e trattata coi guanti bianchi dai mass-media, “compresa” dal patron di Confindustria Squinzi, lasciata “correre” da polizia e prefetture ed individuata dall’estrema destra come terreno proficuo per acquisire un minimo di radicamento nella società.
A sinistra, grande è la confusione sotto il cielo: lo spettro delle posizioni procede dalle analisi tutte ideologiche sul movimento dei forconi come espressione di un complotto neo-fascista – ma qui supereremmo pure il grottesco ben immortalato nel film “Vogliamo i colonnelli” con Tognazzi - fino alla partecipazione in quelle piazze dell’area autonoma di InfoAut, infatuata da quelli che definisce “nuovi proletari”.
Natura di classe del movimento
Quali sono, dunque, le basi sociali del movimento dei forconi? Senza alcuna eccezione, la protesta è stata socialmente egemonizzata da settori in crisi, talvolta rovinati, del piccolo padronato. Le sigle alla testa delle proteste sono state i Comitati agricoli riuniti, la Life (liberi imprenditori federalisti europei), i “forconi” siciliani, Autotrasporto unito ed altri spezzoni minori. Le radici del malcontento sonno necessariamente collegate alla crisi più generale del capitalismo: una parte della piccola borghesia proprietaria soccombe all’azione padronale tesa alla concentrazione del profitto. I dati non lasciano dubbi: a Torino, ad esempio, nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi, il 2% degli esistenti, altri 1500 erano “morti” l’anno prima. In generale, nel 2012 hanno chiuso in Italia circa mille piccole imprese al giorno, con l’area torinese ed il Nord-est in testa alla classifica. Il nanismo dell’apparato produttivo italiano accentua tale processo, alla faccia di quel “piccolo è bello” reiterato alla noia dagli anni ’80 in poi da miriadi di “sapienti” economisti.
Le rivendicazioni avanzate dai dirigenti della protesta confermano questa composizione sociale: la defiscalizzazione è il punto unificante, assieme a richieste di maggiori sovvenzioni pubbliche per il proprio pezzo di padronato. Si può però aggiungere che questi strati sociali intermedi, impregnati di ideologia e miti proprietari, non hanno mai dimostrato particolare freno a scaricare la loro crisi sociali sui loro dipendenti. E questo può valere tanto per chi possiede 2-3 camion e mette al lavoro in condizioni schiaviste lavoratori facilmente ricattabili, in particolare stranieri, quanto per quei produttori agricoli che impiegano manodopera a pochi euro l’ora e magari non versano nemmeno i contributi INPS. L’assenza di un programma politico chiaramente enunciato, a favore di una propaganda centrata sul generico “non ne possiamo più”, può tuttavia aver fatto breccia tra alcuni settori di lavoratori autonomi, studenti, precari e disoccupati che, alla ricerca di un punto di riferimento per ribellarsi, in alcuni casi si sono, sebbene in minima parte, aggiunti alla protesta.
I “Forconi” hanno nominato un gruppo dirigente nazionale ristretto di otto persone: industriali, edili, coltivatori, autotrasportatori, allevatori. Di questi, solo tre hanno diritto di parola per tutti: l'imprenditore agricolo Mariano Ferro – ex capo dei forconi siciliani ed ex Forza Italia ed MPA -, il leader dei contadini di Latina Danilo Calvani – un incapiente che chiede e ottiene passaggi in Jaguar ma ha 40mila euro di contributi Inps non erogati ai “suoi” lavoratori stagionali -, e il presidente degli imprenditori federalisti (Life) Lucio Chiavegato, ex leghista dalle pulsioni secessioniste. Il “triumvirato” a capo del movimento si è spaccato sull’opportunità di convocare la “marcia su Roma” il 18 dicembre – Ferro dice di non volersi mischiare coi neofascisti - ma questa rottura non modifica in nulla la natura sociale della protesta né tantomeno individua settori più o meno reazionari. Al massimo, in un futuro prossimo Calvani forse beneficerà politicamente della sua scelta di “andare a Roma”, mostrandosi il capo più risoluto agli occhi dei settori scesi in lotta.
In questo fiume, l’estrema destra ha oggettivamente terreno nel quale muoversi. Forza Nuova e Casa Pound sono intervenuti sostenendo le rivendicazioni di un padronato in crisi e approfittando del quadro ideologico ed estetico dominante nel movimento: riferimenti nazionalisti dilaganti – la globalizzazione è criticata perché mette in crisi il lavoro “italiano” -, tricolore come bandiera del movimento, ostilità verso i lavoratori organizzati, come dimostrato dagli insulti lanciati a Torino dal corteo dei “forconi” a quello dei metalmeccanici della Fiom. Ovviamente, in questo contesto diverse idee di estrema destra si sono potute veicolare meglio del solito: pensiamo ad esempio alla dirigente più in vista dei “forconi” modenesi che ha fatto appello ad un governo dei militari.
Parlare di uno sfondamento organico dell’estrema destra organizzata è però, oggi, un’esagerazione: le strutture direttamente riconducibili a tale area politica, ad esempio la Lega della Terra di Forza Nuova, non hanno infatti svolto alcun ruolo significativo nelle mobilitazioni. Affermare che questo movimento sia stato un “travestimento” di Forza Nuova è dunque una forzatura ideologica.
La crisi del sistema di rappresentanza borghese
Nelle forme non convenzionali e diplomatiche assunte da queste proteste possiamo intravedere un altro processo di fondo in corso, ovvero l’erosione delle basi economiche della democrazia borghese. La crisi morde così acutamente da far saltare, almeno parzialmente, le tradizionali forme di mediazione politica degli interessi materiali di queste frazioni di padronato. Tutti i capi della protesta hanno infatti alle spalle esperienze politiche nella destra tradizionale italiana degli ultimi vent’anni e rotture con le tradizionali organizzazioni di categorie, accusate di essere troppo vicine ai politici. I colpi della spending review, i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione e le politiche tese a favorire la grande distribuzione non lasciano però margini significativi per sperare ancora in una qualche forma di rappresentanza classica del campo borghese. Lo intuisce anche il neo segretario della Lega Nord, Salvini, attento a sostenere i “Forconi” e ad amplificare la sua demagogia contro l’Unione Europea e magari domani anche contro le banche.
Due anni fa, all’epoca dei Forconi siciliani, scrivevamo quanto segue sulla natura del movimento: “Nel caso siciliano la matrice del movimento è essenzialmente reazionaria: i forconi rivendicano la defiscalizzazione dei carburanti, l’uso dei fondi europei per lo sviluppo da destinare all’agricoltura, il congelamento delle procedure di Equitalia Serit per la riscossione dei tributi, richieste che possono ad un occhio inesperto apparire popolari e pertanto trasversali ma che in realtà celano un chiaro connotato politico. La piattaforma organizzativa non mette in alcun modo in discussione i poteri locali e i poteri forti, quelli della borghesia, concentrando la polemica solo sul mancato finanziamento da parte del governo Monti e su richieste che, se si valutano nel concreto, non beneficiano che i padroni”. (Il movimento dei forconi: questa non è rivoluzione) A distanza di due anni possiamo dire che avevamo colto un processo di crisi della piccola borghesia che iniziava ad esprimersi con mobilitazioni reazionarie espresse in forme aggressive.
Il processo sociale ha messo radici ancora più profonde e soltanto un’irruzione politica dei lavoratori nella lotta di classe – come abbiamo visto negli scioperi “selvaggi” dei tranvieri di Genova e Firenze – con una prospettiva generale di rovesciamento del sistema potrà attrarre almeno una parte del lavoro autonomo in crisi, a partire dalle finte partita IVA, in una battaglia che non sia per mantenere i privilegi e le ambizioni sociali di alcuni a detrimento della massa dei lavoratori sfruttati. Compito dei comunisti è fare chiarezza. Occorre oggi comprendere la natura di tale movimento. Partecipare alle iniziative dei “forconi” lede il carattere di classe e l’identità politica di chi lotta contro il capitalismo e alimenta una gran confusione tra giovani e lavoratori. È necessario, insomma, saper distinguere tra reazione e rivoluzione.
Il ruolo della polizia
La stampa e la televisione hanno commentato spesso con entusiasmo le dichiarazioni di affetto dei capi del movimento verso la polizia e la pacatezza degli apparati repressivi dello Stato nei confronti dei blocchi e dei presidi dei “forconi”. I poliziotti che si tolgono i caschi davanti ai manifestanti sono diventati un tormentone usato per dare un’immagine al tempo stesso popolare e benpensante alle proteste. La polizia ha, in effetti, usato la forza soltanto in pochissimi casi. Davanti ai blocchi stradali e autostradali, effettuati da gruppi sparuti, questure e prefetture hanno lasciato fare. Il casello dell’A1 di Modena Nord è stato bloccato o rallentato quasi quotidianamente per due settimane nella più piena concordia con polizia e Digos. Quando nel maggio 2012 migliaia di operai della Fiom in lotta per la difesa dell’articolo 18 occuparono il medesimo casello per una mezz’ora, il prefetto reagì comminando una decina di multe da 2.500 euro ad altrettanti metalmeccanici accusati di interruzione di pubblico servizio.
La natura sociale del movimento dei Forconi si misura anche nell’atteggiamento benevolo dello Stato, ben diverso quando a manifestare sono operai o studenti. La riverenza dei capi del movimento verso i vertici della polizia è semplice da spiegare se non si abbandona il terreno di un’analisi di classe.
Autonomi senza classe (operaia) e allo sbando
L’area dell’Autonomia rappresentata dal sito web InfoAut e dal centro sociale Askatasuna di Torino ha teorizzato e messo in pratica l’idea che nelle piazze dei “Forconi” ci si dovesse andare per influenzarle e provare a invertirne la rotta. A tale suggestione si associa anche Alberto Perino, leader storico del Movimento NoTav, quando afferma che: “anche noi dovremmo scendere in piazza con loro.” (Il Manifesto, 18 dicembre)
Nell’eterna ricerca del “soggetto sociale dinamico” col quale mescolarsi, gli autonomi hanno creduto di poter cavalcare le forme di protesta più accese del movimento per generare un innesco di rivolta più generale dei cosiddetti “esclusi” e marginali delle metropoli, soprattutto giovani precari o con partita IVA. L’obiettivo è fallito perché l’analisi era ed è sbagliata, una vera e propria elucubrazione ideologica sovrapposta alla realtà. Per citare, ribaltandoli, gli astrusi termini gergali negriani impiegati da InfoAut, non c’era una gran “eccedenza sociale” in quelle piazze.
Quando non si distingue tra reazione e rivoluzione, al massimo si può portare acqua al mulino di altri. La rivolta dei “Forconi”, secondo i redattori di InfoAut, è l’espressione della crisi del modello cosiddetto post-fordista e dell’emergere di un nuovo proletariato, riecheggiando in forma sgangherata le tesi avanzate da Sergio Bologna una trentina di anni fa sui lavoratori autonomi del settore autotrasporti come nodo vitale e decisivo della catena produttiva. InfoAut considera il movimento dei forconi socialmente più ricco di potenzialità del proletariato in carne ed ossa in quanto quei “pezzi di società, nel bene e nel male, [che] non hanno subito decenni di disciplinamento politico-sindacale alla passività e all’obbedienza” (Cosa succederà il 9 dicembre?, InfoAut). L’elogio implicito della disobbedienza presuntamente messa in campo dai “Forconi” sorpassa il grottesco quando, in buona compagnia di un più prudente Guido Viale (Siamo un po’ più uguali ai movimenti globali. Il Manifesto, 13 dicembre), InfoAut propone un’analogia tra il linciaggio mediatico degli operai che si rivoltarono nel 1962 a piazza Statuto a Torino, scavalcando le burocrazie sindacali e politiche del movimento operaio, ed il trattamento riservato, soprattutto dalla sinistra ufficiale, ai Forconi 1. L’analisi di classe è assente, tutto è focalizzato sulla rivolta in sé.
Il punto per noi non è rifiutare di “sporcarsi le mani” nel movimento concreto, linea di difesa piuttosto debole di InfoAut, ma “sporcarsi le mani” innanzitutto in mezzo ai proletari in carne ed ossa, rompere la cappa di moderatismo e “disciplinamento” che ogni burocrazia sindacale o politica riformista cerca di mettere sulla classe lavoratrice. Se si voltano le spalle ai lavoratori, con anche punte di disprezzo, ed alle loro organizzazioni di massa, però, ci si condanna alla ricerca di scorciatoie che finiscono regolarmente in burroni piuttosto ripidi.
Che fare?
Soltanto un forte movimento operaio potrà influenzare una parte del lavoro autonomo, per esempio lottando sul serio per la nazionalizzazione del credito e l’esproprio delle banche, garantendo crediti a tassi agevolati e la cancellazione dei debiti dei piccoli risparmiatori, attraverso il controllo dei lavoratori e l’eliminazione della logica del profitto. Allo stesso tempo il movimento operaio dovrebbe anche contrapporsi, di necessità, a quei tanti padroni grandi ma anche piccoli che si oppongono e si opporrebbero a qualsiasi forma di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, ovvero di sfruttamento, dei propri dipendenti. Come avevamo già scritto a proposito del movimento siciliano dei Forconi del 2011: “la nostra critica non ha nulla a che spartire con quella di Confindustria Sicilia, che con il suo presidente Ivan Lo Bello, dichiara di dissociarsi da tali manifestazioni ritenute “proteste esasperate, con forme di lotta che stanno causando ulteriori danni all’economia e ai cittadini siciliani”.
Il problema infatti non è certo la ribellione in sé né la necessità di far vivere lotte dure e ad oltranza, ma gli interessi che si esprimono ed i fini che un movimento si propone.
La contrapposizione non può essere tra “veri italiani” e no. Ci sono italiani che sfruttano e altri italiani che vengono sfruttati. Il responsabile della crisi, dell’impoverimento, della rabbia crescente che si respira nel paese è il sistema capitalista, che nutre, tutela e promuove il sistema politico che a sua volta difende gli interessi del capitale.
L’unico programma unificante è un programma rivoluzionario che rompa con le compatibilità del capitalismo e delinei con chiarezza la sola via d’uscita, quella della rivoluzione socialista.
Il filo da tessere ce lo stanno fornendo i tranvieri in lotta, gli operai della Fiat e dell’Ilva che resistono alla violenza padronale, gli studenti che si battono in condizioni di crescente repressione. Insomma, basta guardare dalla parte giusta e c’è un sacco di lavoro politico per dei rivoluzionari.
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[1] “Per chi non conosce l’urbanistica di Torino, vi è una coincidenza tra piazze e luoghi percorsi dai blocchi di questi giorni e quelli delle lotte operaie degli anni ’60. In questo caso un po’ di evocazione, se sostanziata da elementi concreti e non solo simbolici, talvolta aiuta. Per chi non conosce la storia delle lotte, dopo la rivolta di Piazza Statuto il Pci e il sindacato (gli antenati della sinistra odierna) usarono lo stesso armamentario ideologico e dietrologico dispiegato in questi giorni: infiltrati, provocatori, fascisti.” (InfoAut, Dai diamanti dell’ideologia non nasce niente, 11 dicembre 2013).