La sconfitta nelle elezioni regionali ha aperto ufficialmente la fase terminale nella parabola dei governi di centrosinistra. Quello che per due anni si era tentato di nascondere dietro le manovre parlamentari e dietro la retorica oggi è sotto gli occhi di tutti. Questa coalizione affonda nel discredito, nell’indifferenza e persino nel ridicolo.
È necessario, alla luce degli avvenimenti di questi giorni, tentare un bilancio complessivo di questi anni, che dia indicazioni chiare sul futuro e sui compiti della prossima fase.
Lo scenario della caduta del governo D’Alema è stato tragicomico. L’incapacità dell’ex primo ministro e dei suoi collaboratori di capire quello che si andava preparando, le dichiarazioni trionfanti della vigilia, la facilità con la quale sono stati attirati nella trappola da Berlusconi… c’è davvero qualcosa di piccante in questo spettacolo, con il vanitoso parvenu insediato a palazzo Chigi e circondato dalle lusinghe beffarde della stampa borghese ("sei il migliore, il grande tattico, il modernizzatore, addirittura capace di portare il paese in guerra…"), che finiva col credere a quello che la sua corte gli suggeriva. Colmo della storditaggine, è riuscito a far dimenticare il ricordo dell’Emilio Fede che nel 1995 piazzava bandierine sulle regioni italiane, dipingendo una immaginaria vittoria della destra. Ma non è stata follia quella di D’Alema e del suo governo, non è stato un semplice abbaglio a spingerlo su una strada suicida. C’è stata una logica ferrea degli avvenimenti, che dobbiamo capire se vogliamo affrontare la prossima fase con una posizione chiara.
Le origini del centrosinistra
Questa coalizione è sempre stata eterogenea e rissosa, fin dalla sua nascita. Ma non è stata questa la causa del suo crollo. La causa è da ricercarsi nel venir meno delle sue basi sociali.
È bene ricordare una volta di più come e perché il centrosinistra giunse nel 1996 a governare il paese. Questa coalizione fu ammessa, e anzi in un certo senso fu spinta, a governare con l’assenso dei poteri forti, del grande capitale, dopo l’esperienza del governo Berlusconi del 1994, che in soli dieci mesi era riuscito a suscitare un movimento di massa quale non si vedeva in Italia da oltre vent’anni. La Confindustria, che nel settembre del 1994 dava il via libera a Berlusconi e Dini per andare all’attacco dello stato sociale e delle pensioni, dovette cambiare la propria linea per forza di cose, posta di fronte all’ondata di scioperi, proteste, manifestazioni, al risveglio della partecipazione di milioni di lavoratori, di giovani e di pensionati. La lezione del 1994 fu ribadita l’anno successivo dalle lotte dei lavoratori francesi, che a loro volta aprirono la strada al crollo della destra nel loro paese.
Il grande capitale accettò allora di cambiare metodo, e di passare a una via consensuale, contrattata, coinvolgendo nella concertazione i vertici sindacali e il Pds. Cambiava metodo, accettando anche tempi più lunghi e complicate trattative, ma non cambiava i suoi obiettivi strategici: smantellamento dello stato sociale, privatizzazioni, precarizzazione, attacco ai diritti dei lavoratori.
Il centrosinistra nacque sotto il segno di quella svolta del 1994-95, come un patto fra governo, vertice sindacale e Confindustria, che facesse attraverso il consenso quello che Berlusconi non era riuscito a fare con l’attacco frontale.
È vero che la coalizione si ammantava di una retorica "buonista", interclassista, conciliatoria. Ma se elenchiamo i provvedimenti fondamentali di quattro anni, la direzione in cui vanno è solo una, e sempre quella: verso destra.
- Privatizzazioni a tappeto.
- Precarizzazione di massa con l’introduzione del lavoro interinale e di altre forme di lavoro "atipico", tutte precarie.
- Regali di ogni sorta alle aziende, dalla rottamazione ai "contratti d’area".
- Attacco alla scuola pubblica e finanziamenti a quella privata.
- Introduzione di logiche di mercato in tutti i servizi sociali, dalla sanità alle pensioni (già tagliate con la controriforma Dini).
- Attacco al diritto di sciopero.
- Partecipazione alla guerra contro la Jugoslavia.
A tutto questo si aggiunga una serie infinita di contratti di lavoro che il sindacato in questi anni ha firmato sempre più al ribasso, sempre con l’argomento implicito che essendoci il "governo amico" non bisognava mettere in crisi la concertazione.
Nel 1996 il centrosinistra aveva un punto decisivo a suo favore: l’ostilità verso la destra, che con il governo Berlusconi aveva mostrato il suo volto aggressivo, spingeva milioni di lavoratori a crearsi delle illusioni sul fatto che mandando al governo l’Ulivo, e in primo luogo il Pds e Rifondazione, sarebbero cambiate le cose. Vedevano il centrosinistra al governo come una diga che avrebbe potuto fermare il pericolo di destra e fare alcune riforme significative a loro favore.
La storia del centrosinistra in questi anni si può ridurre in fin dei conti all’aver dilapidato in poco tempo questo capitale di autorità che, malgrado la sua stessa politica, aveva accumulato.
Mese dopo mese, anno dopo anno sono cresciute la delusione, la frustrazione, il cinismo e anche la rabbia verso questa coalizione. I dirigenti sindacali che hanno speso la loro autorità nel difendere il governo sono oggi visti con sospetto nelle fabbriche, e anche con ostilità, per aver accettato cose impensabili fino a pochi anni fa.
Solo un cieco poteva non vedere il crollo dell’autorità del governo e dei partiti che lo compongono, in particolare fra i lavoratori, i giovani, gli strati popolari. In realtà dal 1997 in poi ogni elezione ha mostrato in modo via via più evidente l’erosione del consenso alla coalizione, fino al tracollo delle elezioni europee del 1999, ribadito sostanzialmente in queste elezioni regionali.
Anche se la pace sociale finora ha sostanzialmente retto (pur con significative eccezioni in questi anni), sono stati sempre di più i lavoratori che hanno scelto di punire il governo nelle urne, o con l’astensione che non a caso ha raggiunto livelli mai visti in passato.
I vertici dei Ds pensavano che la destra fosse stata sconfitta una volta per tutte, così come pensavano che i lavoratori li avrebbero sempre votati, quasi per diritto divino. Si sono dedicati esclusivamente ad accreditarsi quali "modernizzatori" affidabili e sempre più schiacciati sulle politiche confindustriali, altrimenti dette di libero mercato. Nell’ultima fase, quando la crisi della coalizione è diventata sempre più evidente, D’Alema ha compiuto un ultimo strappo, abbandonando il suo stesso partito in mano a Veltroni e ancorando tutta la sua strategia alla permanenza a Palazzo Chigi. Le sue ultime mosse, compresa l’apertura alla Bonino, si spiegano non con la follia, ma con questa logica, portata alle estreme conseguenze.
Tanto in alto pensava di essere volato, tanto più fragorosamente è caduto.
Il centrosinistra e la borghesia
La borghesia italiana, tuttavia, non ha mai creduto al centrosinistra in quanto tale. Vi si è adattata, ha fatto ottimi affari sotto il suo governo, ma ha sempre guardato con una certa preoccupazione alla partecipazione dei Ds e dei vertici sindacali ai massimi livelli del potere.
Non per timore di D’Alema, Veltroni e Cofferati, sia ben chiaro. Sanno che oggi i gruppi dirigenti della sinistra ufficiale e del sindacato sono completamente pervasi da concezioni che non si possono che definire neoliberali. La diffidenza nasceva dal fatto che Veltroni, D’Alema e Cofferati avevano e hanno dietro di loro il grosso dei lavoratori organizzati di questo paese, e la loro capacità di tenerli irreggimentati e disciplinati, per quanto grande non può essere eterna.
Inoltre, nonostante la linea generale del governo sia stata dominata dagli interessi del capitale, la concertazione aveva tempi lunghi, il governo più volte doveva muoversi in modo altalenante, cercare di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, regalare qualche contentino ai vertici sindacali.
Per questi motivi, in tutti questi anni nei quartieri alti dell’economia italiana si è continuato a ragionare di quale potesse essere l’alternativa da preparare una volta che il centrosinistra avesse cominciato a vacillare. Grosso modo, due linee si contrapponevano. Una era quella che vedeva la necessità di lavorare a un nuovo governo di destra, ma più solido e affidabile di quello del 1994. La seconda proponeva un disegno ambizioso e complesso: lavorare a una vera e propria dissoluzione dei Ds in un nuovo partito democratico "all’americana", che recidesse i vincoli residui fra i Ds e l’apparato sindacale, e tramite questo con i lavoratori, mantenendo però la sua base elettorale di massa (magari aiutato da una legge elettorale fatta su misura).
Questo progetto, il progetto del partito unico dell’Ulivo, ha certo conquistato Veltroni e gran parte del gruppo dirigente Ds. Ma una cosa è che la pressione ideologica della borghesia soggioghi un gruppo dirigente allo sbando quale è quello diessino. Un’altra cosa è sradicare un partito di massa, per quanto in crisi, dalle sue radici sociali. I Ds sono rimasti in gran parte un partito legato al movimento operaio, le cui sorti sono determinate in primo luogo dall’evoluzione della coscienza e dell’ambiente politico fra i lavoratori, in particolare quelli della Cgil.
Il progetto del partito democratico è quindi naufragato. Prodi è a Bruxelles, e anche se alla sua partenza aveva proclamato che "ogni settimana sarebbe tornati in Italia per costruire il partito della borghesia", l’Asinello è oggi il grande sconfitto delle elezioni. Se nascerà un qualche partito democratico di chiara natura borghese, questo con ogni probabilità non avverrà per lo scioglimento dei Ds, ma per la scissione da destra di tanti parlamentari che potrebbero abbandonare la nave che affonda e tentare di rifarsi una vita politica sotto altri cieli.
La borghesia cambia cavallo?
In realtà già dall’inizio dello scorso anno la Confindustria ha cominciato a lavorare per un’alternativa a D’Alema. Due episodi hanno chiaramente indicato come nel padronato stesse crescendo in modo irresistibile la voglia di rivalsa, di tagliare una volta per tutte i "lacci e lacciuoli" della concertazione e di passare all’offensiva aperta. In primo luogo c’è stato l’appoggio dato alla campagna referendaria dei radicali, sia nella fase della raccolta delle firme, sia con il pronunciamento a favore dei referendum in gennaio.
In secondo luogo, l’elezione di Antonio D’Amato ai vertici della Confindustria. D’Amato è oggi il rappresentante di quei settori che più scalpitano per una nuova offensiva contro i lavoratori, quella borghesia che allo Stato e al governo chiede sgravi fiscali e mano libera nelle imprese, e che pensa di poter fare a meno dello schermo della concertazione. Non a caso D’Amato è stato anche il candidato su cui ha puntato Berlusconi.
I padroni sono spinti da due motivi. In primo luogo, c’è una crisi di competitività dell’industria italiana. Nonostante la ripresa economica internazionale ingrassi i fatturati aziendali, l’economia italiana rimane poco concorrenziale, soffre di carenza di investimenti e vede una crescita della produttività fra le più basse d’Europa. Venendo a mancare la leva della svalutazione, i padroni pensano di risolvere il problema con una nuova offensiva contro il salario, sia diretto che indiretto (cioè sullo stato sociale) e contro i diritti dei lavoratori, a partire dallo Statuto dei lavoratori oggi sotto attacco con il referendum.
Ma c’è anche un altro motivo che spinge la borghesia all’offensiva, ed è l’opinione diffusa che i lavoratori, delusi e disincantati dopo l’esperienza amara del centrosinistra e di quasi un decennio di concertazione sindacale, siano incapaci di reagire. Ritengono di aver "spremuto" a sufficienza i Ds e il sindacato, e di poter fare a meno dei loro servizi nella prossima fase.
Non è necessario dilungarsi sulla natura del nuovo governo. Si tratta di un governo transitorio, il cui obiettivo può essere al massimo di fare una legge elettorale e, forse, la prossima finanziaria prima di farsi da parte. C’è nei settori più moderati del centrosinistra chi vagheggia che Amato possa ripetere l’esperienza del 1992, quando organizzò la prima grande offensiva antioperaia di questo decennio, con l’abolizione della scala mobile, la firma del primo e più importante accordo di concertazione (luglio 1992) e la finanziaria da 92mila miliardi. Il sogno di questi signori è di convincere il padronato che è inutile portare la destra al governo, poiché lo stesso programma potrebbe applicarlo in tempi rapidi quello attuale. Le condizioni sociali e politiche sono però totalmente diverse da quelle del 1992, e se Amato tentasse di fare passi di questo genere con ogni probabilità vedrebbe sfaldarsi la sua maggioranza prima ancora di aver cominciato.
Ci si avvia, quindi, con ogni probabilità a un ritorno al potere delle destre, forse già dal prossimo autunno, nel caso non improbabile che si tengano elezioni anticipate.
Ma quali saranno le conseguenze di questa nuova svolta? Non pochi nella sinistra temono che si apra un lungo periodo di reazione, un tunnel nero del quale difficilmente si vede l’uscita.
Crediamo che queste posizioni pessimistiche non corrispondano alla reale situazione del paese.
Certo, la vittoria della destra demoralizza molti lavoratori, a partire dai militanti della sinistra. La destra al governo applicherà politiche odiose, delle quali abbiamo già visto alcuni esempi nelle regioni in cui ha governato negli scorsi anni. E’ indubbiamente un passaggio amaro, che lascerà dei segni profondi nella coscienza di milioni di persone.
Ma la vittoria elettorale non basta a garantire a Berlusconi una tranquilla gestione del potere. Non basta vincere un’elezione per egemonizzare l’intera società: è necessario affrontare e sconfiggere nello scontro sociale diretto la forza del movimento operaio organizzato, a partire dai sindacati. Questa forza è oggi in difficoltà in primo luogo per la politica disastrosa dei suoi dirigenti, ma non è sconfitta, né disgregata.
Nel 1994 Berlusconi dovette dimettersi dopo soli 10 mesi perché le mobilitazioni operaie che aveva provocato portarono allo sfaldamento della sua maggioranza in parlamento. Allo stesso modo nel 1997 in Francia il governo Juppé venne sconfitto alle elezioni come conseguenza diretta delle lotte dei ferrovieri, dei dipendenti pubblici, dei camionisti che da due anni attraversavano la Francia. La destra al governo, dopo un periodo di inevitabile sbandamento e confusione nelle file della sinistra e del sindacato, porterà a una riapertura del conflitto sociale, un conflitto i cui esiti non sono affatto definiti a priori, ma che dipenderanno in ultima analisi dalla capacità dei lavoratori di mobilitarsi e di darsi programmi, metodi di lotta, strutture e metodi organizzativi democratici capaci di coinvolgere nelle prossime ondate di lotte quei milioni e milioni di persone che dopo aver pagato sulla loro pelle le politiche antisociali del centrosinistra, dovranno subire anche la rivincita padronale che Berlusconi e compagni vorrebbero organizzare.
E se parliamo di una nuova ondata di lotte, diciamo pure chiaramente che da questo punto di vista la crisi la sconfitta del centrosinistra ha anche lati positivi. Questa coalizione e le sue politiche concertative erano diventati un macigno sulla strada dei lavoratori, un ostacolo insuperabile che paralizzava qualsiasi possibilità di mobilitazione dal basso. Un fronte compatto che vedeva uniti dirigenti sindacali e partiti del governo ha abusato per cinque anni della fiducia e della pazienza dei lavoratori, usando lo spauracchio del "pericolo di destra" per costringerli ad accettare politiche che colpivano frontalmente i loro stessi interessi.
Il ruolo del Prc
Non bisogna dimenticare che la stessa Rifondazione ha accettato questa logica, fornendo una copertura a sinistra, durante il governo Prodi, alle politiche liberiste. Le conseguenze sul partito sono state pesanti in termini di egemonia e consenso. Solo adesso il Prc sta risollevandosi da questa batosta, ma è necessario che da quella esperienza si traggano le giuste conclusioni.
Se da una parte non ci si può recintare su posizioni settarie, bisogna però farsi protagonisti attivi di una posizione che si proponga di rompere i legami tra le organizzazioni del movimento operaio e quelle della borghesia.
Il Prc deve rompere apertamente con il centro borghese dell’Ulivo avviando allo stesso tempo una interlocuzione con i militanti e l’elettorato dei Ds proponendo loro un’alternativa che si opponga tanto al Polo quanto all’Ulivo.
La crisi strategica del gruppo dirigente dei Ds e della Cgil rende più credibile questa posizione agli occhi di tanti militanti, che saranno spinti dagli avvenimenti a rimettere in discussione la politica disastrosa degli accordi al centro. Questo processo andrà maturando sempre più con l’agonia del governo Amato, e la crisi parallela della leadership dei Ds.
Bertinotti in un’intervista al Corriere della sera immediatamente dopo le elezioni si è pronunciato a favore di tale politica Ma non basta enunciarla, per realizzarla è necessario:
- rifiutare qualsiasi accordo elettorale con le rappresentanze politiche borghesi;
- smettere di caratterizzare come "liberali" i Ds. Sono tali le posizioni dell’attuale gruppo dirigente, ma la natura sociale di quel partito resta fondamentalmente proletaria;
- lanciare un’offensiva unitaria sui terreni sui quali è più facile sfidare i Ds entrando nelle loro contraddizioni interne (Statuto dei lavoratori, la legge Rsu), ecc., rivendicando allo stesso tempo la rottura con il governo Amato e con le politiche liberiste;
- in qualsiasi caso tenersi sempre le mani libere per sviluppare le nostre posizioni indipendenti anche quando si raggiungano, sul piano elettorale o su quello sindacale, un accordo su punti specifici.
- accantonare ogni tentativo di formare "nuove sinistre plurali" con realtà poco significative e orientare invece il partito alla conquista della base operaia dei Ds e dei sindacati;
- definire la nostra alternativa di sistema al capitalismo, senza la quale è inevitabile l’adattamento alle posizioni riformiste che hanno dimostrato di essere ampiamente fallimentari nell’esperienza del governo Prodi.
Oggi vediamo soprattutto l’aspetto negativo di questa sconfitta, una certa demoralizzazione per il ritorno delle destre, una confusione sul da farsi. Ma nella prossima fase, quando si renderà sempre più evidente cosa significa la destra al governo, quando la pressione accumulata in questi anni nei luoghi di lavoro comincerà a farsi incontenibile, vedremo allora che questi anni amari non sono passati invano.
I lavoratori hanno imparato a proprie spese in questi anni a distinguere fra le parole e i fatti, fra le promesse dei loro dirigenti e la realtà delle loro politiche. Non sarà tanto facile, come in un certo senso lo fu nel 1994-95, far rientrare la protesta e le mobilitazioni, una volta che cominceranno.
Gli ultimi anni sono stati dominati da una soffocante pace sociale. Ma sotto questa superficie si è consumato un processo di enorme importanza: sono state distrutte tante illusioni e tante speranze che bastasse affidarsi a una coalizione progressista per garantire la difesa e il miglioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice. In pochi anni i lavoratori italiani hanno visto la destra al governo, sono stati protagonisti di un grande movimento che l’ha messa in crisi, poi hanno visto il centrosinistra in tutte le sue varie incarnazioni, e ora vedono avvicinarsi il rischio di un nuovo governo di destra. Il prossimo periodo dovrà necessariamente essere un periodo di bilanci critici, di valutazione di tutte queste esperienze. Tante convinzioni verranno rimesse in discussione, tante proposte politiche fino a ieri apparentemente indiscutibili verranno messe da parte.
La conclusione che inevitabilmente si farà strada nella prossima epoca sarà che solo la mobilitazione diretta sul terreno sociale, sindacale e politico, può essere efficace per difendere i nostri diritti e per conquistarne di nuovi.
Siamo convinti che, per quanto possa ancora faticare a esprimersi, questa convinzione crescerà in modo irresistibile nella coscienza di milioni di persone nei prossimi anni. In questo processo si apriranno nuove possibilità, oggi inimmaginabili, per la crescita e la maturazione nel movimento operaio italiano, delle idee anticapitaliste, comuniste e rivoluzionarie.