Nella discussione sul referendum per l’estensione dell’articolo 18 si è consumata una rottura in Cgil che ha visto prevalere, a grande maggioranza nel direttivo nazionale, la posizione per il Sì. Si tratta di un Sì “passivo”, in quanto non è prevista una mobilitazione della Cgil nella campagna, ma che comunque sconfessa la posizione astensionista assunta dall’ex segretario, Sergio Cofferati.
Il “cinese”, che sei mesi fa poteva contare su un appoggio quasi incondizionato da parte dell’apparato, finisce oggi in netta minoranza. Se i rapporti di forza sono 5 a 7 nella segreteria nazionale, più si scende negli organismi più si riducono le adesioni alla posizione astensionista.
E così in un colpo solo Cofferati perde il controllo sulla segreteria della Cgil (che secondo qualcuno doveva essergli fedele vita natural durante) e rompe la sinistra Ds a pochi giorni dall’investitura a co-presidente dell’associazione di Aprile.
Il primo a non credere ai propri occhi è lo stesso Fassino, che aveva fatto la voce grossa alla Conferenza programmatica dei Ds per richiamare all’ordine la sinistra interna, ma che mai avrebbe pensato di trovare in Cofferati un militante così “disciplinato”.
Il cofferatismo alla prova dei fatti
Il cofferatismo ha rappresentato negli ultimi due anni una reazione (per quanto parziale) allo spostamento a destra dei Ds e ha potuto prosperare proprio in virtù dell’enorme scontento accumulato dai lavoratori a cui Rifondazione Comunista non ha saputo offrire un’alternativa credibile a sinistra.
Cofferati, dal fronte sindacale, ha provato a ricostruire quel solido rapporto con le masse lavoratrici che storicamente aveva caratterizzato il Pci e la socialdemocrazia in tutta Europa riempiendo il vuoto lasciato da D’Alema e Fassino impegnati ad inseguire “la terza via liberale” di Tony Blair.
È riuscito in breve tempo a generare grandi illusioni tra i lavoratori che pensavano di aver ritrovato un dirigente disposto a battersi contro le destre e con gli strumenti adeguati per farlo. Obiettivamente l’imponenza dell’apparato Cgil, effettivamente mobilitato, faceva una certa impressione soprattutto se si considera che quello stesso apparato era servito per anni a spegnere ogni risveglio di conflittualità operaia.
Ma quando è scaduto il mandato, Cofferati per consolidare la sua autorità e tradurla in un progetto politico, non poteva limitarsi a dichiarazioni altisonanti sui giornali; doveva cominciare un affondo mettendo in campo una proposta anche sul terreno organizzativo.
Scrivevamo su Falcemartello di febbraio: “il cinese non può pensare di continuare all’infinito a fare la propria battaglia per l’egemonia senza appoggiarsi saldamente su una forza politica. Il sostegno di cui gode nell’apparato sindacale e la lealtà che fino adesso continua a mostrargli il gruppo dirigente della Cgil non può bastare e non può durare all’infinito, se nel frattempo Cofferati non sarà in grado di controllare un partito da utilizzare ai propri fini.”(Falcemartello n°163, dove va Sergio Cofferati?)
Non solo Cofferati (almeno per ora) ha rinunciato a dare una battaglia decisiva dentro e fuori i Ds, piegandosi alla pressione dei dalemiani; ma quello che più conta è che dichiarandosi contro l’estensione dell’articolo 18, ha favorito il rafforzamento della maggioranza di Fassino.
La sconfitta alla Fiat e l’esito successivo della guerra, che ha visto l’imperialismo occupare Baghdad più facilmente del previsto, hanno determinato una “normalizzazione”, un riflusso temporaneo delle mobilitazioni, che presumibilmente ha convinto Cofferati che non era il momento per iniziare l’attacco. Ma l’attesa non gioca certo a favore di chi, non potendo contare su una base politica organizzata, per non cadere nel dimenticatoio dovrebbe agire rapidamente “radicalizzando” le proprie parole d’ordine.
Sempre più isolato
La posizione di Cofferati sul referendum (insieme al suo sostegno all’invio dei Carabinieri in Iraq), si può spiegare, oltre che da una totale mancanza di strategia, dall’ambizione personale di diventare il futuro leader dell’Ulivo.
Il tentativo di Berlusconi di trascinare Prodi e Amato in reati di corruzione nel caso Sme e Fassino nella vicenda Telecom-Serbia può aver rafforzato i “pruriti” cofferatiani inducendolo a pensare che si potessero bruciare candidature forti che gli avrebbero aperto la strada alla premiership nelle elezioni politiche del 2006.
Se questa è la prospettiva allora è del tutto naturale che abbia smorzato i toni, riallineandosi su posizioni moderate che lo rendono credibile agli elettori di centro e “rassicurante” per la classe dominante.
La contraddizione fondamentale è che agendo così, Sergio Cofferati sarà lentamente “triturato” dalla maggioranza dei Ds, che si avvantaggierà del ridotto sostegno popolare che la sua svolta politica inevitabilmente produrrà. Verrà meno il punto d’appoggio che gli ha permesso di contrastare quell’apparato diessino che, per la verità, ha mostrato fino ad oggi una notevole capacità di resistenza alla pressione dei movimenti.
Con questo passo falso Guglielmo Epifani ha colto l’occasione per prendere le distanze da Sergio Cofferati, come stanno facendo sul fronte politico Salvi, Mussi e Folena. Anche Cossutta e Patta che erano disposti a fare con lui il “partito del lavoro” si sentono abbandonati e sul referendum si distanziano, sostenendo il sì.
Quelli che continuano ad essergli “fedeli” nel sindacato (Casadio, Ghezzi e compagni) hanno pagato un prezzo molto alto: diventare minoranza nella Cgil, e non è detto che saranno disposti a sacrificare in futuro le loro posizioni in assenza di una prospettiva credibile.
Cofferati ha già perso molti treni, e si trova obiettivamente di fronte a un bivio. Potrà essere ricordato in futuro per essere stato una delle tante meteore della politica italiana oppure dovrà riprendere il cammino abbandonato riportando a sinistra il timone della sua politica.
Solo cavalcando quella rabbia e frustrazione che si accumula nel movimento operaio, e che dopo un temporaneo riflusso inevitabilmente tornerà ad esprimersi, può riconquistare uno spazio politico decisivo.
E anche così facendo ci saranno dei problemi: la sua credibilità non sarà più la stessa dello scorso anno. Voltando le spalle a milioni di lavoratori che nel corso del 2002 si sono mobilitati per difendere quelli che lui stesso aveva definito “diritti fondamentali”, è impensabile aspettarsi che gli stessi possano seguirlo in futuro con la medesima convinzione.
Il limite di Cofferati è il suo riformismo
Al di là delle scelte soggettive di Sergio Cofferati è opportuno ricordare (come abbiamo fatto più volte anche nei momenti di massima popolarità del cofferatismo) che il tradimento è insito nel riformismo ed è inevitabile che l’antagonismo inconciliabile tra capitale e lavoro si acutizzi nei momenti di crisi economica come quello che stiamo attraversando.
Gli esponenti di sinistra del riformismo socialdemocratico (Cofferati negli ultimi due anni, La Fontaine in Germania, Livingstone in Gran Bretagna) che ripropongono il modello keynesiano in un contesto di crisi sono inevitabilmente destinati a deludere le aspettative che loro stessi contribuiscono a generare. Margini per concessioni da parte della classe dominante non ce ne sono. Dunque il riformismo si traduce in questa fase in controriformismo e alla fine in tradimento.
Nella situazione attuale l’unica alternativa al blairismo, in grado di difendere coerentemente gli interessi di classe è una posizione anticapitalista che Cofferati si guarda bene dal fare propria.
Chiarito questo ci preme sottolineare altre due questioni:
1) La “partita Sergio Cofferati” non è chiusa definitivamente, le tensioni sociali riporteranno lui stesso o qualche altro demagogo (che sia lui o un altro poco importa) a ripercorrere le stesse vie, facendo appello alle masse per guadagnare un consenso da utilizzare ai propri fini e in ultima analisi per mantenere il controllo delle forze riformiste sul movimento operaio.
2) Ciò nonostante ogni qualvolta in futuro si aprirà un processo come quello che si è temporaneamente chiuso alle nostre spalle, da comunisti sosterremo quei dirigenti che saranno oggettivamente impegnati in una lotta (anche parziale) con le classi dominanti, il governo e i socialdemocratici di destra. Soprattutto se conterranno con il sostegno di settori decisivi del proletariato, come nel caso di Cofferati, indipendentemente dai comportamenti spregevoli di cui si è macchiato nel corso della sua vita politica e sindacale.
Infatti solo con una applicazione corretta del fronte unico (marciare separati, colpire uniti) è possibile conquistare la maggioranza del proletariato a posizioni rivoluzionarie. Questa tattica, ampiamente utilizzata dai bolscevichi, fondamentale per condurre i lavoratori all’ottenimento dei propri obiettivi e in definitiva alla conquista del potere, può funzionare però solo a condizione che i comunisti nel corso delle mobilitazioni mantengano la propria indipendenza politica e una critica implacabile ai dirigenti riformisti. E’ quanto abbiamo fatto e intendiamo continuare a fare in futuro.