Cambia il vento in Europa
No al monetarismo!
Per l’occupazione e le garanzie sociali
Uno dei capitoli da sempre più criticati del Capitale di Carlo Marx è il XXIII del primo volume, nel quale si ipotizza l’impoverimento tendenziale della classe operaia in regime capitalistico. Questa prospettiva sembrava essere smentita nel secondo dopoguerra, quando circostanze eccezionali e non normali del capitalismo, provocarono un boom economico senza precedenti che permise un progressivo miglioramento del tenore di vita dei lavoratori nei paesi a capitalismo avanzato.
Ma la "talpa" di Marx ha continuato a scavare e questa ipotesi alle soglie del duemila diventa più attuale che mai. Eccettuando i "paesi tigre" del sudest asiatico, che comunque per il basso punto di partenza e per il loro limitato peso specifico rappresentano un’ eccezione che non fa tendenza, assistiamo a livello planetario a un calo reale dei salari medi determinato in larga misura dalla selvaggia tendenza alla precarizzazione delle condizioni di lavoro.
Questo processo in Europa è stato aggravato da una notevole crescita dei tassi di disoccupazione, la quale si situa nei paesi dell’Unione Europea al 10,5%. Se si prende il livello dell’occupazione totale del 1991 dei quattro paesi principali (Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia) e gli si dà valore 100 alla fine del 1996 il valore dell’occupazione corrispondeva rispettivamente a 96,1; 99,4; 98,2; 94.
Come si vede l’Italia ha il primato negativo in questa triste competizione; secondo un rapporto Bnl si assiste nel nostro paese per il secondo anno consecutivo a una riduzione secca del livello di vita, dall’altra parte dati Ocse confermano che tra il 1990 e il 1996 c’è stata una forte riduzione dei risparmi delle famiglie. La corsa al raggiungimento dei parametri di Maastricht, con l’attuazione di politiche monetariste e deflazionistiche con forti attacchi allo stato sociale inizia a far sentire le sue pesanti conseguenze in termini economici e sociali. Nel ‘96 c’è stato un forte rallentamento dell’economia europea (la crescita del Pil è calata dal 2,5 all’1,6%) e soprattutto dell’Italia (dal 3 allo 0,7%). Questo sta preoccupando enormemente le borghesie europee che temono di arrivare alla scadenza dell’Unità europea con le economie a terra.
L’ultimo vertice di Amsterdam rifletteva chiaramente questi timori che hanno reso vincente la proposta Jospin di "ammorbidire" i criteri di Maastricht che devono tener conto che l’Unione europea è in primo luogo un’unione "politica" prima che monetaria e che bisogna prestare maggiore attenzione all’occupazione. Di fatto sono state abolite le forti sanzioni economiche previste per i paesi inosservanti dei parametri di Maastricht che erano state decise dal precedente vertice di Dublino.
Lo scenario che si configura sempre più è quello di una Maastricht a "maglie larghe", dove presumibilmente si agiterà lo spettro dei parametri economici fino alla primavera del ‘98, quando si effettuerà l’esame di ammissione, ma che magicamente vedrà poi ammettere anche quei paesi che non riusciranno a rispettare i criteri economici, ma che avranno avuto miglioramenti tendenziali che li avvicinano all’obiettivo. Dimos-trando la loro sfiducia verso l’unificazione monetaria, diversi governi nazionali (Gran Bretagna, Svezia, Danimarca) hanno già dichiarato di voler entrare nella moneta unica solo al secondo turno. Non è il caso del governo Prodi il quale avendo costruito tutta la sua immagine sull’entrata dell’Italia nella moneta unica fin dal primo turno, è costretto a proseguire su questa strada. Gli occhi sono dunque puntati sulla riforma dello Stato sociale, che è diventata la cartina al tornasole su cui premono i partner europei per valutare la reale volontà italiana di entrare in Europa.
Nel mirino ci sono ovviamente le pensioni, che tornano ad essere il terreno decisivo dello scontro, si parla di ridurre gli sprechi ma la realtà è che si vuole colpire nuovamente i settori più poveri della società. In un anno di governo dell’Ulivo sono state già fatte manovre economiche per 100mila miliardi, solo un governo che vedeva nella maggioranza parlamentare il Pds e Rifondazione Comunista poteva far passare queste politiche di sacrifici.
L’aspettativa diffusa di vedere la sinistra al governo ha permesso questa luna di miele con i lavoratori che però sta giungendo a termine e che sulle pensioni potrebbe trovare uno scoglio decisivo. Il contesto internazionale sicuramente aiuta una ripresa delle lotte. Non è casuale il fatto che in Gran Bretagna dopo 18 anni di governo conservatore abbiano vinto i laburisti e che in Francia socialisti e comunisti abbiano sconfitto le destre che solo due anni fa si eranno assicurate la maggioranza assoluta dei seggi.
In questo momento gli unici due governi chiaramente di destra che restano in Europa sono quello tedesco e quello spagnolo. In Germania ci saranno le elezioni in autunno ed è chiaro che Kohl rischia grosso e che cresce il malessere tra i lavoratori tedeschi. Nonostante tutto la Germania non ce la fa. È esemplificativo lo scontro che c’è stato tra Waigel, ministro dell’economia tedesco e Tietmayer presidente della Bundesbank. Di fronte al tentativo di truccare i conti fatto dal governo quando propose di consolidare le riserve auree per finanziare il deficit, la banca centrale tedesca ha opposto il proprio veto. La Germania presumibilmente chiuderà l’anno con un deficit del 3,5% e con un debito pubblico che è in rapida crescita (dal 58,1 al 61%). Entrambi i dati sarebbero oltre il "tetto" di Maastricht. Al timore diffuso tra la borghesia francese e inglese di una egemonia tedesca fa da contrappunto l’incapacità tedesca di assumere funzioni di leadership in Europa.
Il capitalismo europeo è chiaramente in crisi di competitività. Secondo dati pubblicati dal settimanale americano Business Week le mille imprese più grandi al mondo hanno un valore di mercato pari a 17 milioni di miliardi di lire (circa un terzo del prodotto mondiale lordo). Nel 1996 di questo valore il 45,6% era composto da aziende statunitensi, il 23,4% giapponesi, il 17% da aziende delle quattro economie europee più forti (Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia).
È interessante notare come i dati relativi al ‘95 fossero del 40,1% per le aziende Usa, 27% per quelle giapponesi, 18,4% per quelle europee. Questo dato consente di valutare indirettamente l’importanza dei paesi, la loro capacità di aggregare capitali, il loro peso decisionale. Nel capitalismo, conta molto di più un paese con una decina di grandi imprese, capaci di elaborare strategie, che non un paese con decine di migliaia di imprese minori che complessivamente arrivano allo stesso fatturato o valore aggiunto e il verdetto registra una supremazia indiscutibile degli Usa che è testimoniata dal rafforzamento del dollaro e un impasse del Giappone e dell’Europa.
Cosa significa questo? Indipendentemente da Maastricht la strada del rigore è una strada obbligata per il capitalismo europeo, l’Italia in questo contesto per giunta è l’ultima della classe. Ogni volta che ci propongono dei tagli ci dicono che saranno gli ultimi, con questi dati vogliamo dimostrare come questa sia solo una menzogna.
I dirigenti socialdemocratici in tutta Europa tentano di venire in soccorso al capitalismo, proponendo di ammorbidire gli attacchi al tenore di vita operaio e su questa base vincono le elezioni, ma non hanno i margini per mantenere a lungo questi propositi, anche perchè il potere di autonomia dei governi si è notevolmente ridotto con lo strapotere delle multinazionali che sono in grado di mobilitare quantità di capitali enormemente superiori a quelli delle banche centrali. Questi governi di sinistra o di centrosinistra saranno dunque un totale fallimento a meno che non si metta in discussione non solo Maastricht, ma le fondamenta stesse della società capitalistica recuperando le idee rivoluzionarie e autenticamente socialiste.
L’alternativa, per tornare a Marx da cui siamo partiti, è l’impoverimento della classe lavoratrice e più in generale la barbarie sociale nonostante l’enorme potenziale scientifico e tecnologico che la società ha raggiunto.