Accordi conclusi in 14 regioni su 15
È ormai ufficiale, in 14 regioni su 15 Rifondazione comunista si presenta alle elezioni regionali in coalizione con il centrosinistra. Per capire fino a che punto sia profonda la svolta effettuata, si pensi che nel 1995 gli accordi erano stati siglati solo in sette regioni.
Il bilancio degli accordi è fortemente negativo. Si dica quello che si vuole sui "punti d’eccellenza" dei programmi presentati dai candidati di centrosinistra: la realtà è che le trattative hanno visto il partito il più delle volte succube delle posizioni e della pressione del centrosinistra. Una breve carrellata alcuni degli accordi conferma quanto diciamo.
Candidata del centrosinistra in Piemonte è Livia Turco, ministro del governo D’Alema e quindi diretta responsabile della sua politica a partire dalla guerra contro la Jugoslavia. La Turco parla di "flessibilità amica" (di chi??), tace sulla parità scolastica, riconferma l’adesione al programma dell’Alta Velocità ferroviaria.
Non stupisce che la proposta di accordo sia stata bocciata dal comitato politico del Prc di Torino e di Cuneo, mentre una forte opposizione (fra il 30 e il 40%) si manifestava ad Asti, Alessandria, Vercelli, Novara; tutto questo non impediva al gruppo dirigente regionale di riconfermare l’accordo.
Ecco un estratto del documento votato a Torino: "Complessivamente il documento elaborato da Livia Turco esprime una cultura politica e ideologica estranea e per certi versi alternativa all’identità del nostro partito. Si pensi alla esaltazione della piemontesità, all’idea di un Piemonte stato portatore di un progetto di Stato nazionale federale, alla riduzione del welfare all’assistenza per i bisognosi, alla individuazione della famiglia come il centro delle politiche sociali e al concetto di "flessibilità amica" in materia di politiche occupazionali".
Concessioni al federalismo
Non è solo la Turco a esaltare la Regione come nuovo centro di potere. È questo anche il punto decisivo per Mino Martinazzoli, candidato in Lombardia, che intervistato da Liberazione il 12 marzo dichiara essere il regionalismo il punto che più gli sta a cuore: "Diciamo ai lombardi: non vogliamo darvi una giunta, ma un governo". Sappiamo bene che regionalismo, autonomia, decentramento sono le parole d’ordine attraverso le quali in questi anni si sono fatte passare la distruzione dello stato sociale, l’introduzione delle logiche di mercato nei servizi pubblici, la frammentazione dei lavoratori e dei loro diritti. Ma tutto questo non preoccupa il gruppo dirigente del partito in Lombardia, che intrepidamente parla di "federalismo inteso correttamente" e di "giusta interpretazione" del concetto di "sussidiarietà".
La realtà è che l’accordo in Lombardia presenta dei veri e propri "buchi neri": silenzio sulle leggi di parità scolastica approvate dal Polo (e anche dal centrosinistra) durante la scorsa legislatura, concessioni verso le politiche "familiste" del Polo, che scaricano sulla famiglia e sulle donne in particolare gli effetti dello smantellamento dello stato sociale, concessioni puramente verbali su questioni decisive quali alta velocità e grandi opere autostradali; viene sbandierata come grande vittoria la concessione dello 0,8% del bilancio regionale a iniziative di cooperazione con i paesi sottosviluppati, fatto che, se non cambierà il destino del Terzo mondo, certo stimola la propensione "lobbistica" di tante associazioni "non governative".
L’accordo in Emilia Romagna risulta ancora più soprendente, poiché segue a cinque anni di opposizione del Prc alla giunta di centrosinistra di Errani. Tutto dimenticato, pare, se il Prc sottoscrive un giudizio sulla giunta uscente che parla di "tratti strategici positivi". Si vuol dimenticare che quella strategia ha fatto dell’Emilia Romagna un laboratorio di tagli, privatizzazioni, e di prima sperimentazione della legge di parità scolastica. E proprio sulla scuola, che è stata uno dei punti critici di scontro fra Prc e centrosinistra, il programma di Errani propone obiettivi quali "vantaggio competitivo per la regione", "più stretta relazione tra gli atenei e il tessuto regionale della produzione e della ricerca" (cioè asservimento dell’università all’impresa), e, decisivo, sottolinea che "la Regione sosterrà la nuova fase della riforma della scuola nel quadro dell’autonomia". In altre parole, via libera all’applicazione in regione delle controriforme di Berlinguer.
L’accordo con Cacciari in Veneto è stato oggetto di un’accurata analisi da parte dei compagni della sinistra del partito di quella regione, che abbiamo pubblicato in parte sullo scorso numero di questa rivista.
Una politica subalterna
Ma gli effetti deleteri di questi accordi non si misurano solo nei contenuti programmatici. Per giustificare tali scelte si costruisce una propaganda e una teoria ad uso e consumo dei tanti compagni che sono perplessi di fronte a queste scelte. Si veda, ad esempio, la già citata intervista di Liberazione a Martinazzoli, nella quale l’ex sindaco di Brescia, esponente del mondo della finanza cattolica e uomo di punta della Dc viene presentato come "mai veramente "organico" al gruppo dirigente e al notabilato Dc". Segue una ispirata biografia: ex presidente della commissione inquirente, tre anni da ministro della giustizia (nei governi Craxi, ma questo viene pudicamente taciuto), poi alla Difesa, alle Riforme istituzionali, per tre anni presidente dei deputati Dc… niente male per un "povero avvocato", quale egli stesso ama descriversi.
"È una candidatura forte, in campo con grande autorevolezza e bella immagine", chiosa il nostro quotidiano.
Dietro a questi toni lirici si avanza una nuova teoria: quella dei "territori" che si ribellano al controllo "dal centro": questa, secondo Bertinotti, sarebbe la chiave di lettura per leggere una ipotetica contrapposizione fra D’Alema e Martinazzoli, o fra D’Alema e Bassolino.
A nessuno viene in mente che "i territori", ammesso che entrino in conflitto con "il centro", lo fanno in nome di interessi del tutto estranei a quelli che dovrebbe difendere il nostro partito? Che il "territorio" veneto, o campano, o lombardo, in realtà non è altro che la borghesia locale che rivendica sì maggior libertà, ma da "lacci e lacciuoli" ritenuti ormai da rottamare, quali contratti nazionali di lavoro, tasse da pagare, norme di sicurezza, sanitarie, ambientali, da rispettare.
E non è certo un caso che proprio Bassolino abbia gioito per l’elezione del "duro" D’Amato alla presidenza della Confindustria, in omaggio precisamente al "dinamismo imprenditoriale del nuovo Mezzogiorno".
Quali accordi per quali obiettivi
Di fronte a questo scivolamento rapido verso le posizioni del centrosinistra, si pone quindi il problema di un’alternativa chiara da avanzare. È un fatto che questi accordi creano grande disagio nel corpo del partito; ma è altrettanto vero che non basta la denuncia per invertire la rotta rovinosa imboccata dal gruppo dirigente. Difficilmente il centrosinistra uscirà bene dalle elezioni, e il Prc rischia di essere ancora una volta coinvolto nel discredito che colpisce la maggioranza di governo. Ci sono sondaggi che parlano, ad oggi, di un possibile 42% di astenuti: difficile pensare che con simili accordi si vada al recupero dei voti persi negli ultimi anni.
La sinistra del partito ha condotto in tutte le regioni una forte battaglia contro gli accordi. Tuttavia quando si tratta di proporre un’alternativa non riesce a superare la perplessità di tanti militanti che, pure sensibili alla critica, non vedono un’alternativa percorribile.
Il gruppo dirigente del partito, soprattutto a livello locale, dipinge un quadro a tinte fosche della realtà politica e sociale del paese, per giustificare la crisi di orientamento in cui versa. La realtà ci pare però differente. Negli ultimi mesi si sono visti segnali significativi di mobilitazione sociale e sindacale. Non solo il 1999 ha visto un aumento del 50% delle ore di sciopero rispetto al ’98; le lotte degli insegnanti, dei trasporti, dei portuali, singole vertenze come la ex Olivetti, la Goodyear, e altre che non hanno guadagnato le prime pagine dei giornali… sono altrettante crepe nel muro della concertazione, così come lo sono le divisioni che abbiamo visto aprirsi negli apparati sindacali e negli stessi Ds.
E precisamente qui sorge il problema per il nostro partito. I lavoratori sono sempre più insofferenti verso la politica del sindacato e del governo, non credono più alle favole della concertazione. Ma quale alternativa proponiamo loro? Gli accordi a perdere col centrosinistra ci precludono la possibilità di conquistare un ruolo egemonico in queste mobilitazioni, che entrano in rotta di collisione non solo con la politica del governo, ma anche con quelle del centrosinistra a livello regionale.
Il partito avrebbe potuto e dovuto, nell’ultimo anno, aprire un’offensiva politica a tutti i livelli, a partire dal bilancio negativo dell’azione del centrosinistra, resa evidente a tutti dalla sconfitta bruciante subìta nelle elezioni europee. Dovevamo rivolgerci a tutti quei militanti e votanti dei Ds, alla base della Cgil sempre più delusa e preoccupata, e proporre una discussione comune e un’azione concreta contro la ripresa della destra e la nuova offensiva della Confindustria. Non mancavano certo le possibilità, a partire da una reale campagna di massa contro i referendum antisociali.
Cosa si è fatto invece? Bertinotti ha rilanciato l’idea di un accordo con il centrosinistra chiedendo "una svolta" (l’ennesima "svolta", quasi che tutte le promesse e le belle parole che in passato abbiamo avuto dai vari Prodi e Veltroni fossero già state dimenticate), si è rinunciato a costruire una reale opposizione dalla base della Cgil, privilegiando il rapporto preferenziale con i gruppi dirigenti delle varie "aree" di opposizione d’apparato, e spargendo illusioni sul fatto che si stesse creando "una grande sinistra sindacale unitaria" (con quale programma, quali metodi, quali rivendicazioni, quali obiettivi?) e infine la grandinata di accordi regionali di cui oggi siamo testimoni.
La coalizione di governo è a pezzi. È impossibile non pensare che, in cuor loro, migliaia e migliaia di lavoratori e di militanti che hanno avuto fiducia nel centrosinistra non stiano oggi facendo un bilancio molto critico di questa coalizione. A tutti questi non possiamo limitarci a dire "rompete coi Ds e venite in Rifondazione", perché questo non è considerato un’alternativa credibile dalla maggior parte di loro. Per poter dialogare con quest’area non sono sufficienti gli appelli; dobbiamo essere pronti anche ad aprire trattative e, se necessario, a giungere ad accordi con quei settori d’apparato (sinistra Ds, sinistra Cgil, ecc.) che tentano di cavalcare questo dissenso. È una posizione caricaturale dire che l’alternativa alla linea fallimentare di Bertinotti è di andare sempre e comunque soli, senza alcun accordo e alcuna trattativa se non con soggetti che di fatto sono già d’accordo con il Prc.
Se fosse sufficiente l’appello diretto, tramite la propaganda, alla base dei partiti a noi avversi, non ci sarebbe bisogno di alcuna tattica. Ma le cose stanno diversamente: sfidare al confronto i dirigenti delle forze socialdemocratiche è indispensabile poiché nella misura in cui milioni di lavoratori continuano a seguirli, è necessario anche il confronto "ai vertici" per far giungere "alla base" le nostre posizioni alternative.
Non è decisivo che si arrivi o meno ad accordi, anzi, è facile dire che nella fase attuale pesano molto di più le divergenze che gli interessi comuni. Ma il percorso intrapreso, il fatto che alla eventuale rottura si arrivi su chiare basi politiche, comprensibili a tutti, apertamente discusse, è altrettanto importante dell’esito finale.
Da questo punto di vista, le tratattive per le regionali hanno invece dato un buon esempio di tutto quello che non si doveva fare: rimozione di qualsiasi pregiudiziale di classe riguardo le forze e i candidati con i quali si è andati a trattare, oscuramento delle questioni programmatiche, trattative condotte in modo poco trasparente, quasi sempre senza che fossero conosciuti i reali contenuti della discussione, una diplomazia soffocante (si vedano gli esempi citati sopra, che sono solo alcuni di una lunga serie), che disarma il partito nella propria critica verso il centrosinistra.
Su quali basi proponiamo invece che il partito si muova nelle trattative con altre forze?
1) Rottura con la politica del governo su terreni decisivi quali: flessibilità, privatizzazioni, politica estera, parità scolastica, diritti sindacali.
2) Rottura con i candidati e con i partiti che queste politiche rappresentano in modo più conseguente: i partiti borghesi del centrosinistra, la stessa ala liberal dei Ds; per candidati che siano chiaramente riconoscibili come espressione dei lavoratori e del movimento operaio.
3) Piena libertà di critica su tutti i punti di dissenso. Assoluta indipendenza del nostro programma in ogni momento della nostra azione.
Nuovi pericoli si preparano
La lenta agonia del governo potrebbe subire un’accelerazione in caso di una nuova sconfitta alle regionali; di fatto si aprirebbe una lunga e confusa campagna elettorale strisciante che potrebbe durare anche un anno. In questo contesto il Prc rischia un logoramento che potrebbe dimostrarsi intollerabile per un partito indebolito e privo di strategia quale è oggi il nostro.
La sinistra del partito ha quindi una grande responsabilità: quella di tentare di dare una risposta compiuta ai problemi aperti di fronte a tutti i militanti: analisi e comprensione della fase che attraversiamo, programma, strategia, tattica, radicamento.
Nonostante la frammentazione crescente del gruppo dirigente di maggioranza, non è emersa alcuna altra ipotesi che possa trarre il Prc fuori dalle secche in cui naviga ormai da quasi due anni. Se non sapremo quindi costruire un’alternativa, possono diventare irresitstibili le spinte disgregatorie che già oggi, da più parti, premono per uno scioglimento del Prc in un clima di disarmo politico, organizzativo e ideologico.