"A coloro che vogliono rovinare,
gli dèi tolgono prima la ragione"
(antico detto greco)
Lo scontro che si è giocato a Milano attorno alla candidatura a sindaco di Dario Fo illustra con chiarezza la crisi che colpisce i Ds e il risultato rovinoso al quale l’Ulivo va incontro nelle prossime elezioni. È noto che la candidatura di Fo è emersa su iniziativa di ambienti intellettuali genericamente progressisti, non particolarmente vicini al movimento operaio. Ma le caratteristiche del personaggio, le stesse ambiguità delle sue dichiarazioni di natura programmatica sono passate in secondo piano a causa dell’effetto che ha avuto la sua candidatura, della percezione che di essa si è avuta in amplissimi settori della sinistra milanese.
Dario Fo emergeva non solo e non tanto come un nome illustre che poteva affrontare il Polo ad armi pari. Emergeva soprattutto come un candidato di svolta, come un personaggio che per il suo passato di militanza politica (sia pure nelle forme individualiste e da "libero battitore" che gli sono sempre state proprie), per il ricordo di una carriera artistica e "politica" che poneva al centro lo smascheramento dei "potenti", l’irrisione del potere, il rifiuto della sottomissione al perbenismo e al "buon senso comune", la denuncia dei crimini dello Stato e del capitalismo, poteva incarnare una netta inversione di tendenza.
Basta pensare alle ultime campagne elettorali per capire perché si fosse creata questa speranza. Nel 1995 alle Regionali il centrosinistra presentò il democristiano Diego Masi, seguace di Segni e alleato di An nelle ultime elezioni europee. Nel 1997 venne candidato a sindaco di Milano l’industriale Fumagalli, ex presidente dei giovani di Confindustria. Il Prc, dopo un’estenuante trattativa, decise all’ultimo momento di presentarsi autonomamente, mentre al secondo turno il partito si spaccò con la federazione milanese che proponeva di non partecipare al voto mentre Bertinotti proponeva l’appoggio a Fumagalli. Alle ultime regionali il candidato del centrosinistra (assieme al Prc) Martinazzoli è riuscito nel non facile compito di iniziare la campagna elettorale con 20 punti di distacco e di finirla con 30, doppiato dal ciellino Formigoni.
È facile capire perché la candidatura di Fo, dopo questa sequela di industriali e democristiani, sia stata accolta come una vera liberazione, non solo nella base del Prc, ma fra tutti i militanti di sinistra, compresi quelli dei Ds.
La candidatura di Fo esprimeva anche un potenziale politico di rottura all’interno del Centrosinistra; popolari, democratici e centristi vari si trovavano per la prima volta schiacciati in una posizione difficile, costretti a scegliere tra il sostegno a Fo (con la prevedibile apertura di forti contraddizioni al loro interno) e la scelta di rompere da destra l’Ulivo, con l’esito probabile di essere completamente schiacciati alle elezioni.
Il 5 dicembre si è tenuta un’assemblea significativa alla Camera del Lavoro, con diverse centinaia di partecipanti. In quell’assemblea sono emerse chiaramente le contraddizioni tra la base e il vertice Ds; un segretario di circolo diessino di una zona popolare si è spinto a dire che avrebbero appoggiato Fo indipendentemente dal parere dei loro dirigenti. "Finalmente un candidato che possiamo chiamare compagno": questo era il clima che molti interventi trasmettevano, e Fo stesso lo ha alimentato dicendo che a lui non interessava cosa avrebbero fatto i partiti di centro, ma che voleva essere il candidato di tutta la sinistra.
Come è noto questo processo è stato interrotto dall’intervento di Veltroni, che ha tagliato ogni discussione (il direttivo provinciale dei Ds era fortemente diviso, ma prevalentemente orientato contro Fo, e fra i contrari i giornali segnalavano gli esponenti locali della sinistra Ds). È facile intuire cosa abbia detto Veltroni ai suoi compagni: Dario Fo rischia di aprire una reazione a catena di rotture fra noi e l’Ulivo: si comincia a Milano, si prosegue a Roma o a Napoli, e tutta l’alleanza rischia di saltare.
Alla scelta di Veltroni non era certo estranea la preoccupazione per il proprio futuro personale. Egli considera perdute le elezioni politiche, e di conseguenza a rischio la propria posizione nel partito. La sua autocandidatura a sindaco di Roma esprime nel modo più trasparente questa preoccupazione, e l’immagine del topo che abbandona la nave che affonda calza in questo caso a pennello. È chiaro che Veltroni temeva una ritorsione dei partiti di centro: se Fo passa a Milano, in cambio devi lasciare Roma a un cattolico.
Le vicende dei sindaci costituiscono un anticipo di quello che sarà la campagna elettorale nazionale dell’Ulivo: una corsa sfrenata verso posizioni sempre più moderate, e una tensione estrema fra gli "alleati" della coalizione.
Lo scontro è implicito nella situazione. Scontro fra centro e sinistra, scontro fra Rutelli e apparato Ds. I Ds detengono nella loro cassaforte la gran parte dei collegi considerati "sicuri" (circa un centinaio su 450); tuttavia mentre Rutelli, in quanto leader della coalizione, premerà affinché una quota di questi seggi vada ai vari alleati che deve accontentare nella coalizione, il gruppo dirigente Ds guarda già al dopo-elezioni, alla prevedibile sconfitta, e vorrebbe conservare per sè quei pochi gioielli di famiglia rimasti.
Il caso di Milano dimostra tuttavia come queste contraddizioni, per quanto acute, non scoppieranno prima delle elezioni. Il gruppo dirigente diessino è completamente paralizzato dalla lotta interna, le diverse correnti impegnano tutte le loro energie nel posizionarsi per lo scontro post-elettorale e nell’attesa si mettono in surplace come i ciclisti al velodromo, ciascuno aspettando gli errori degli altri. Ma l’esito, piuttosto che una gran volata finale, rischia di essere una rovinosa caduta collettiva.
Uscito di scena Fo, il centrosinistra milanese è ripiombato nel caos. Nella girandola di nomi emerge Gianni Rivera (democristiano di destra), che come biglietto da visita propone di "continuare il buon lavoro" della giunta del Polo di Albertini. A Roma i giornali prevedono per Veltroni una corsa in discesa, ma è tutto da vedere. Anche qui, il peggior nemico dell’Ulivo sarà l’Ulivo stesso. Veltroni correrà in un clima di sconfitta generale, avendo contro sicuramente una parte del suo stesso partito, e dei suoi stessi alleati, i quali, ad ogni buon conto, lanciano ora in pista la candidatura del presidente della Roma Sensi, patrocinato da Giulio Andreotti (e quindi presumibilmente dalla Compagnia delle opere, già grande elettore di Rutelli).
L’agonia del centrosinistra continua, dunque, e si protrae fino alle sue ultime conseguenze. Le scelte dei gruppi dirigenti dei Ds sono dettate unicamente da un disperato tentativo di guadagnare tempo in attesa di un miracolo. Ma miracoli non ne avverranno, e la conseguenza delle scelte odierne sarà solo quella di rendere più rovinosa la prossima fase. L’attesa della resa dei conti elettorale si trasmette a cascata dai vertici dei Ds alla loro periferia, alla loro base sociale ed elettorale, alla Cgil (dove Cofferati subordina a sua volta le sue scelte alle sue ambizioni di giocare un ruolo decisivo nello scontro interno che si aprirà nei Ds dopo le elezioni). Questo stallo incide indubbiamente anche sullo stato dei movimenti, sulla vita sindacale, e crea una difficoltà temporanea per chi, come noi, cerca di far emergere dalla crisi odierna una chiara alternativa agli anni amari della collaborazione di classe, della concertazione e del centrosinistra.
Nel 1994 il movimento operaio italiani conseguì una grande vittoria con la cacciata del governo Berlusconi. Quella vittoria venne poi snaturata e privata dei suoi possibili sviluppi ulteriori dal centrosinistra e dai dirigenti sindacali. Oggi non si respira un clima di vittoria, ma di sconfitta. Ma le lezioni di questi anni non andranno perse: la prossima sarà la fase in cui milioni di lavoratori che hanno dato in passato fiducia all’Ulivo e al gruppo dirigente Ds dovranno inevitabilmente fare un bilancio di questi anni, dovranno riconsiderare criticamente gli avvenimenti degli anni ’90 e cercare nuove vie da percorrere. Lo scontro che si aprirà nel centrosinistra aiuterà a mettere ancora più in chiaro il suo fallimento. Sarà allora che si apriranno grandi possibilità per chi propone una svolta radicale, e la rinascita del movimento operaio sulle basi dell’indipendenza di classe, della rottura con le idee di concertazione e della lotta rivoluzionaria per cambiare questa società.