Prima di parlare dell’operazione Fiat-Opel vorremo però partire dai bilanci e cioè dai profitti fatti dalla proprietà mentre si gettavano sul lastrico i lavoratori.
Profitti e salari
Nel consiglio di amministrazione che si è tenuto a fine ottobre (quando si cominciava a mandare in cassa integrazione migliaia di lavoratori) nella sede Cnh di Racine nel Wisconsin, sotto la presidenza di Luca Cordero di Montezemolo sono stati presentati i dati: l’utile netto nel terzo trimestre dell’anno 2008 era in crescita del 3,1% (468 milioni di euro, 14 milioni in più rispetto all’analogo periodo del 2007). I ricavi del gruppo aumentavano del 3,2% (a 14,3 miliardi di euro).
Per quanto attiene strettamente alle auto (Fga – Fiat Group Automobiles) si sono registrati utili in crescita dell’1,9% rispetto al 2007, per un ammontare di 1,541 miliardi di euro (1,457 miliardi nello stesso periodo del 2007). Dati positivi insomma confermati alla fine dell’anno 2008 (utile netto complessivo: 1,7 miliardi di euro).
Le cose sono certamente cambiate con l’anno nuovo, ma comunque nel primo trimestre 2009, in un contesto di crisi globale e di obiettiva difficoltà non c’è stato il tracollo di Fiat a differenza dei colossi statunitensi. Nel panorama europeo il Lingotto è tra le case che meglio ha saputo affrontare la crisi dei mercati.
Questi risultati ovviamente non piovono dal cielo ma sono stati fatti grazie agli enormi sacrifici sopportati dai lavoratori a cui oggi viene presentata un’altra parcella. A non pagare mai sono i padroni.
È la stessa musica da 25 anni. Infatti la quota dei profitti sulla ricchezza nazionale è salita a razzo, amputando quella dei salari. Secondo uno studio della Bri (Banca dei regolamenti internazionali) nel 1983 la quota del Prodotto interno lordo (Pil) intescata dai profitti era al 23,12%, quella destinata ai lavoratori superava i tre quarti. Oggi i profitti si attestano attorno al 31-32% e ai lavoratori dipendenti è rimasto in tasca poco più del 68%. Una cifra enorme, otto punti in meno di Pil che corrispondono a circa 120 miliardi di euro.
Se i rapporti di forza fossero gli stessi di 25 anni fa, quei soldi sarebbero nelle tasche dei lavoratori, invece che dei capitalisti. Per i 17 milioni di lavoratori dipendenti, vorrebbe dire 7.000 euro, in media all’anno, in più in busta paga.
Fiat esce dall’auto?
L’accordo con Chrysler e il tentativo di acquisire Opel viene presentato dai media come una grande operazione del Lingotto di cui tutto il paese dovrebbe andare fiero. Secondo Berlusconi si tratta di “un’operazione che sarebbe un sogno per gli azionisti Fiat, gli operai e tutti gli italiani”.
Per Marchionne: “Fiat non vuole acquisire Opel; vogliamo costruire una nuova e forte casa automobilistica internazionale. In questo modo saremmo il secondo costruttore più grande al mondo dietro Toyota e ciò rende sicuri anche in futuro posti di lavoro sia a livello mondiale che in Germania” (dall’intervista rilasciata al Bild).
Secondo le indiscrezioni del quotidiano tedesco Handelsblatt l’accordo prevede la perdita di 9-10mila posti di lavoro e la chiusura di almeno due stabilimenti, che se non saranno in Germania è lecito pensare siano in Italia.
Il sogno di cui parla il presidente del consiglio è tale per gli azionisti ma si può trasformare in un vero e proprio incubo per i lavoratori visto che, di fronte, più che un’acquisizione abbiamo una vera e propria uscita di scena della famiglia Agnelli che si prepara a scorporare Fiat Auto dal resto del gruppo (il cosiddetto spin-off di cui parlano al Lingotto da almeno 15 anni). Nessuno è in grado di sapere chi realmente controllerà il futuro assetto azionario della nuova impresa che nascerà e che dovrebbe produrre 6 milioni di auto.
In questo quadro l’Italia rischia di perdere l’industria dell’auto che attualmente contribuisce (con l’indotto, il movimento terra e tutte le collegate) all’11% del Pil dando lavoro complessivamente a circa un milione di persone. Facile immaginare quali conseguenze potrebbe avere nel già povero contesto produttivo italiano.
Marchionne in tutta questa vicenda si è mosso in maniera spregiudicata: ha prima fatto la trattativa con gli americani ottenendo soldi dal governo Usa e da quello canadese, poi sono arrivati i soldi del fondo pensione Veba del sindacato Uaw, successivamente ha aperto il tavolo con il governo tedesco dal quale ci si attende finanziamenti pubblici per 5-7 miliardi di euro.
Solo alla fine di questo lungo peregrinare si aprirà la partita italiana. E visto i soldi che ci stanno mettendo i governi è del tutto logico aspettarsi che gli esuberi saranno fortemente condizionati da scelte di tipo politico.
Il 23 aprile scorso alla presentazione dei bilanci del primo trimestre Marchionne è stato chiaro. Di fronte alla domanda di un’analista: “La Fiat farà affari che possono essere ripagati con gli aiuti di Stato o riesci a vedere un aumento di capitale e nuovi investitori”, la risposta è stata: “voglio essere onesto, di privati disposti a fare un affare del genere non ne vedo”. Di conseguenza gli unici che sono disposti a metterci dei soldi (visto che la proprietà Fiat non ha intenzione di metterne) sono i governi che vogliono evitare tensioni sociali.
Ma se Germania e Usa insieme arriverebbero a mettere sul tavolo 12-13 miliardi di euro, cosa mette il governo italiano? L’assenza di un piano industriale in Italia e l’incertezza che ne deriva serve in primo luogo a ricattare il governo Berlusconi che pare infischiarsene, ma serve soprattutto a ricattare i lavoratori e il sindacato.
Ovviamente Marchionne teorizza l’intervento “ponte” degli stati (e una loro entrata nella proprietà) a patto che sia prevista con chiarezza la via del ritorno sul mercato delle aziende oggi sussidiate.
Si torna al punto iniziale; quando si perde sono gli Stati (e dunque i lavoratori) che ci rimettono, quando ci sono profitti intascano lor signori.
Marchionne diventerà con tutta probabilità l’amministratore delegato di un grande gruppo internazionale dell’auto, la famiglia Agnelli incasserà grandi plusvalenze dalla vendita delle proprie azioni mentre gli stabilimenti vanno verso la chiusura. Questo è il capitalismo, bellezza…
Le sovrapposizioni Fiat-Opel (e Chrysler)
Pomigliano attende da tempo un’auto nuova (attualmente nello stabilimento napoletano si producono la 147 vecchia di 10 anni e la 159 che ha un target elevato) ma sembra che le nuove Alfa per il mercato americano si assembleranno a Detroit. Si parla della Milano e della Giulia. La Milano dovrebbe essere commercializzata a partire dal 2010, mentre la Giulia sarà pronta non prima del 2011. Per quanto riguarda le utilitarie (500 e Panda 4x4) dovrebbero essere prodotte nella fabbrica messicana di Toluca. Chi nel sindacato vedeva positive ricadute occupazionali in Italia dall’accordo con Chrysler è stato per ora smentito.
Se il mercato americano non aggiunge nulla l’accordo tedesco rischia di togliere, e molto. Le sovrapposizioni tra il Lingotto e l’Opel sono molte ed è su questo punto che andranno realizzati i tagli, i cosiddetti “consolidamenti” come li chiama Marchionne.
Mentre il segmento A (le city car) non tocca l’Italia (la Fiat produce in Polonia, l’Opel in Germania dell’Est, Polonia e Ungheria) le sovrapposizioni maggiori, che rischiano di avere più conseguenze sono proprio nei segmenti B, C e D.
Nel segmento B delle utilitarie (Melfi produce la Grande Punto, Termini Imerese la Lancia Y) c’è la competizione con Opel Corsa (prodotta ad Eisenach e a Saragozza). Nel segmento C la sovrapposizione è tra Bravo e Delta (prodotte a Cassino), Alfa 147 (Pomigliano) e il gioiello della Opel, l’Astra che è prodotta in vari stabilimenti distribuiti tra Belgio, Germania e Inghilterra. Infine Croma (Cassino) e 159 (Pomigliano) dovranno combattere sul segmento D imbattendosi contro lo stabilimento più importante della Opel in Germania, il quartier generale di Russelsheim dove si producono la nuova Insigna e la Vectra.
Nella misura in cui il governo tedesco (a differenza di quello italiano) sta intervenendo in questa vicenda è lecito pensare che ad essere tutelati saranno in primo luogo gli stabilimenti tedeschi (con l’eccezione forse di Kaiserslautern che non ha un marchio e produce solo motori e componentistica per altri stabilimenti). In Italia sono Cassino, Termini Imerese e Pomigliano gli stabilimenti più a rischio. Forti dubbi restano sul futuro di Saragozza in Spagna. Per giunta è possibile che la Fiat trasferisca parte della produzione di Mirafiori in Serbia. Il che determina un quadro che non da garanzie di alcun tipo neanche allo stabilimento torinese.
La nazionalizzazione è l’unica risposta
In realtà si tratta di semplici deduzioni, ipotesi visto che nessuno in casa Fiat si è ancora sognato di aprire un tavolo in Italia con i sindacati. Per la verita anche in Germania, Marchionne, mentre scriviamo, ha parlato solo con il governo e non ha ancora incontrato i sindacati, che infatti giustamente manifestano preoccupazione e si oppongono all’acquisizione di Fiat. Finalmente sembra che nei prossimi giorni una delegazione dei sindacati italiani incontrerà quelli tedeschi, si auspica per tenere una linea di condotta comune, che impedisca aste al ribasso e mantenga i necessari vincoli di solidarietà tra i lavoratori di tutti i paesi.
Ma ciò che è chiaro è che la standardizzazione delle produzioni rende possibile una “razionalizzazione” a geometrie variabili, secondo la compiacenza dei governi, delle maestranze, dei sindacati. In un contesto di crisi come quello attuale ogni governo nazionale e persino le regioni e i lander possono entrare in competizione per proteggere i propri stabilimenti. Un vero e proprio gioco al massacro teso al protezionismo, che indebolisce ancor più i lavoratori e aumenta il potere di ricatto padronale.
Per questo è necessario lavorare a un percorso di mobilitazione a livello mondiale dei lavoratori di tutti i gruppi coinvolti nell’operazione ma soprattutto è necessario avanzare una proposta alternativa che eviti il massacro sociale.
Se il privato non è in grado di intervenire a tutela dei posti di lavoro, nonostante i profitti fatti in questi anni e l’ingente quantità di denari messi dal pubblico, allora si faccia da parte. Se siamo arrivati al paradosso che un fondo pensione di un sindacato controlla il 55% della Chrysler non si capisce perché poi a fare l’amministratore delegato debba essere Marchionne e non una rappresentanza regolarmente eletta dai lavoratori.
Se Fiat vuole uscire dall’auto, faccia pure ma gli stabilimenti devono essere nazionalizzati sotto il controllo dei lavoratori. Lo Stato italiano, la Fiat, l’ha già pagata più volte (con varie forme di incentivo e finanziamenti a fondo perduto) per cui non ruberebbe niente a nessuno.
Controllo pubblico e democratico significa anche produrre in funzione dei bisogni sociali e non del profitto, significa poter ripensare la mobilità e il trasporto. Si potrebbero affrontare e risolvere i problemi delle emissioni inquinanti che producono le auto termiche a proprietà individuale e aprire un discorso serio di auto ecologica, così come hanno proposto i compagni del circolo di Rifondazione Comunista della Fiat di Pomigliano.
Radicalizzare il conflitto fino alla vittoria!
Allo sciopero del comprensorio che si è tenuto il 27 febbraio a Pomigliano si è visto l’enorme potenziale di questa mobilitazione. Una vera e propria lotta di popolo, un’intera città si è stretta attorno alla fabbrica. 30mila persone in piazza con una determinazione che poche volte si è riscontrata nelle lotte sindacali di questi anni.
La risposta della Fiat è quella repressiva di sempre: reparti confino, vigilantes armati che girano in fabbrica, avvisi di garanzia che giungono ai principali attivisti sindacali, minacce quotidiane ai lavoratori e via di questo passo. E questo perché Marchionne vuole il “dialogo con il sindacato”, sappiamo bene che tipo di sindacalismo ha in mente.
In quello sciopero Rinaldini ha esposto la piattaforma della Fiom e ha annunciato la manifestazione del gruppo Fiat a Torino, che però è arrivata solo 80 giorni dopo, il 16 maggio!
I compagni di Pomigliano e non solo loro hanno fatto ogni sforzo per superare le resistenze (che esistevano anche in Fiom) nel dare continuità alla mobilitazione, se necessario, anche in forme separate (visto l’atteggiamento tenuto da Fim-Uilm e Fismic). Dopo il 16 maggio è però necessario dare maggiore operatività nel condurre lo scontro che, se vuole vincere, deve essere molto più incisivo.
È necessario che le riunioni del coordinamento dei lavoratori del gruppo Fiat diventino degli ambiti in cui non ci si parla addosso, ma si decide una precisa strategia di lotta per portare il conflitto, se necessario, fino alle sue estreme conseguenze. Non è più possibile che ogni realtà territoriale cammini per conto suo. Non si può parlare di sindacato europeo o mondiale se poi non si è in grado di coordinare una linea nazionale della Fiom che veda le diverse realtà, da Mirafiori a Termini Imerese, muoversi all’interno di una strategia complessiva.
Per compattare il fronte, dare fiducia ai lavoratori e colpire duro bisognerebbe scioperare lì dove fa più male alla Fiat che non è certo a Pomigliano o a Termini Imerese ma dove il lavoro c’è come a Termoli dove al reparto motori (per la Polonia) si lavora su 17 turni e si chiedono straordinari mentre ai cambi si fa cassaintegrazione, o a Melfi dove a febbraio e marzo si è lavorato anche al sabato per 5 settimane (e meno male che per la domenica la Fiom ha resistito, perchè Film e Uilm erano disposte a firmare).
Se questa lotta si perde, si perde tutti, non solo i lavoratori che vengono buttati in mezzo alla strada, ma anche quelli che restano che dovranno chinare la testa e ingoiare qualsiasi cosa. E anche la Fiom, in quanto tale non può pensare di continuare ad esistire come sindacato conflittuale e di classe se non è in grado di respingere questa offensiva.
Se vogliamo evitare la guerra tra poveri che cerca la Fiat, l’unico modo è lottare offrendo una prospettiva complessiva a tutti i lavoratori, mantenendoli uniti.
La Fiom ha tutte le potenzialità per farlo, ma ci sono ancora troppe esitazioni al suo interno e c’è indubbiamente un problema di quadri per guidare un conflitto di questa natura.
In questi anni di concertazione, senza voler fare generalizzazioni eccessive, troppe volte si è smesso di prendere quadri dalle fabbriche e si è iniziato a selezionarli dalle università, funzionari che non sono stati educati alla lotta di classe ma al compromesso. Questo è senza dubbio un problema.
Ma nuovi quadri disposti a condurre una lotta in modo più audace ci sono, sono i giovani operai entrati in questi anni nelle fabbriche che essendo spesso in cassa integrazione, hanno anche il tempo per dedicarsi alla lotta politica e sindacale. Per poter attingere da queste forze fresche è però necessario rompere le logiche gerarchiche che hanno guidato il sindacato (anche la Fiom) per troppi anni e sviluppare nuove forme di democrazia dal basso, di tipo consiliare.
La lotta deve generalizzarsi, dalla fabbrica alla società e c’è bisogno dell’appoggio di tutti: dell’Onda, dei centri sociali, dell’associazionismo, dei partiti della sinistra, deve nascere una coalizione di movimento attorno alla lotta del gruppo Fiat e delle grandi fabbriche da cui dipende il futuro di un’intera generazione.
Se venisse annunciata la chiusura di uno qualsiasi dei siti bisogna discutere e prepararsi all’occupazione degli stabilimenti, organizzando casse di resistenza che permettano alla lotta di resistere il più a lungo possibile. È l’unico modo per fermare la Fiat.
Sottoscriviamo le parole di Rinaldini: “se pensano di chiudere Pomigliano si preparino a mandare l’esercito”. È lo spirito giusto da cui partire.
La manifestazione del 16 maggio a Torino deve essere solo il primo passo per una mobilitazione che punta a scuotere il sistema dalle fondamenta, solo così potremo vincere e uscire positivamente da una crisi che altrimenti rischia di travolgerci.
*responsabile nazionale Prc sui luoghi di lavoro
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