Quando la democrazia si ferma ai cancelli delle fabbriche
La crisi del governo Berlusconi riapre il dibattito su come battere il centrodestra. Infatti negli ultimi anni l’arroganza padronale ha trovato forza dalla vittoria delle destre, dalla crociata della Confindustria contro i diritti che vengono dalla stagione del sindacato conflittuale, oltre che dal clima favorevole sul terreno parlamentare, del quale l’uscita dei comunisti è solo la rappresentazione più evidente.
La “cura Marchionne” proposta per la Fiat, di cui l’accordo di Pomigliano è solo la punta di un iceberg, va proprio nella direzione auspicata dalla Confindustria di riprendersi tutto ciò che è stato ottenuto negli anni ‘70 cancellando definitivamente quelli che la Marcegaglia definisce “gli orrori della lotta di classe”.
Non è un caso che nel testo dell’accordo oltre ai peggioramenti su ritmi di lavoro, pause e turnistica vi sia un attacco frontale a due dei diritti fondamentali dei lavoratori del nostro paese : contratto nazionale di lavoro e diritto di sciopero.
Questi due punti sono quelli che, nel quadro di un accordo complessivamente negativo, hanno un valore generale perché cancellano lo strumento che garantisce la parità di trattamento tra i lavoratori attraverso il contratto nazionale e il diritto di fare pesare il proprio ruolo nella produzione difendendo i propri diritti attraverso lo strumento dello sciopero.
Due diritti dei lavoratori ma anche due diritti democratici che parlano di tutele complessive e diritto di una forma di dissenso ed organizzazione del conflitto sancita anche dalla nostra Costituzione.
Dalla necessità di sconfiggere Berlusconi, che ovviamente in linea di principio non mettiamo assolutamente in dubbio, i dirigenti di Rifondazione Comunista e della Federazione della Sinistra (Fds) fanno conseguire la necessità di unire tutte le forze del centrosinistra costruendo un “fronte democratico” per difendere la democrazia dal tiranno. Ma di quale democrazia parliamo? Sicuramente della democrazia che garantisca la libertà di impresa contro il monopolio dell’informazione da parte di Berlusconi e magari anche di fare una legge elettorale capace di non concentrare in poche segreterie di partito la nomina dei parlamentari.
La questione però cambia quando i “principi democratici” riguardano il diritto dei lavoratori ad avere più strumenti di tutela collettiva o a potersi organizzare attraverso il conflitto di classe per fermare l’offensiva padronale, come dimostra il sostegno del Pd e dell’Idv all’accordo proposto da Marchionne .
Su questo i liberali come Di Pietro e di democratici come Bersani e Damiano, ospitati in copiose interviste dalla pagine di Repubblica, non hanno dubbi. L’unica democrazia che riconoscono è quella d’impresa che afferma che le vite dei lavoratori, così come i loro salari si devono piegare all’inviolabile primato del profitto. Se diritti “democratici” come il contratto e lo sciopero sono piombo nella ali della competitività si possono mettere in discussione con tanti saluti a quella Costituzione spesso strumentalmente usata per mettere padroni e operai sulla stessa barca.
Ma se per l’Idv e per il Pd la tanto sbandierata battaglia “democratica” contro Berlusconi si ferma ai cancelli della fabbrica di Marchionne quello che colpisce è come Ferrero, Diliberto e Grassi possano pensare di scindere la battaglia democratica da quella dei diritti dei lavoratori.
Infatti l’idea di fermare la destra senza combattere il contenuto di classe che ne caratterizza l’azione politica trasforma l’antagonismo a Berlusconi nella critica liberale, quindi più confindustriale dello stesso cavaliere, o nella semplice politica delle buone intenzioni. La stessa che ha portato il Prc alle scorse regionali nel Lazio a sostenere la Bonino per fermare la destra per poi scoprire oggi che i radicali potrebbero essere disponibili a votare la fiducia al governo Berlusconi il 14 dicembre, ma si sa la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.