Commenti sul discorso di Bertinotti a Livorno
In questi ultimi mesi, l’uscita della rivista Antagonismi dedicata alla Rivoluzione d’Ottobre (a cui abbiamo dedicato ampio spazio su FM 143, a dicembre), e il discorso (21 gennaio 2001) del compagno Fausto Bertinotti per l’ottantesimo anniversario della nascita del Partito Comunista d’Italia, hanno sollevato nel partito il dibattito sullo stalinismo e su quale comunismo rifondare.
"Sradichiamo dal nostro interno ogni residuo di stalinismo" è la parola d’ordine lanciata da Bertinotti a Livorno.
La cosa non dovrebbe stupire, ma da molti militanti è stata accolta come una profonda innovazione – a ragione, perché queste dichiarazioni contrastano nettamente sulla totale assenza, fino ad oggi, di un bilancio dello stalinismo. Il Partito della Rifondazione Comunista esiste, come movimento, da 10 anni e la critica allo stalinismo avrebbe dovuto essere una delle fondamenta del nostro partito; da sempre invece il tema è stato considerato tabù.
Diamo il benvenuto a questo dibattito. A differenza di altri, però, non possiamo accontentarci di una qualsiasi critica allo stalinismo o di una presa di distanza dal passato, per quanto radicale sia. Sono passati oltre 60 anni dai processi di Mosca, 45 anni dal XX congresso del PCUS e la cosiddetta "destalinizzazione" che espose agli occhi del mondo i crimini di Stalin e 10 anni sono trascorsi dal crollo dell’Urss e dalla restaurazione capitalista all’Est. Il disastro di quello che viene impropriamente definito "socialismo realizzato" è stato utilizzato dalla classe dominante, nella campagna di propaganda più martellante della storia, per dimostrare che il capitalismo fosse l’unico sistema possibile. Riteniamo che per questi motivi la comprensione di ciò che è stato lo stalinismo sia vitale per costruire una forza veramente comunista.
Partiamo quindi dalle considerazioni del compagno Bertinotti, per entrare più a fondo sul tema.
Bertinotti si chiede: "Perché nel novecento le società postrivoluzionarie anziché produrre libertà hanno prodotto oppressione?".
Il "fallimento" del comunismo
novecentesco?
Filo conduttore del ragionamento è il fallimento del comunismo nel ‘900. Il compagno Bertinotti pone la questione in termini ambigui. Quando si parla di concetti come libertà ed oppressione, non lo si può fare in modo avulso dal contesto di una società e dalla lotta di classe.
L’Ottobre ha posto per la prima volta il potere nelle mani della classe operaia. La liberazione rivoluzionaria, però, è prima politica che sociale. Non cessano di esistere per miracolo, nè possono essere abolite per decreto da una rivoluzione, le condizioni materiali della divisione in classi di una società. La divisione del lavoro, il livello delle forze produttive e della produttività del lavoro umano (a maggior ragione in un paese arretrato come la Russia del 1917), il livello dell’istruzione, le forme di distribuzione delle merci e del reddito, ecc., sono tutti fattori che rendono impossibile una "liberazione" immediata delle masse dalle condizioni materiali di vita che sono state ereditate.
La conquista del potere politico è il principale risultato di una rivoluzione proletaria, ma non bisogna confonderla con l’automatica emancipazione sociale delle masse sfruttate. La liberazione politica delle masse lavoratrici è la premessa necessaria di quella sociale, ma per conseguire l’emancipazione sociale è necessario elevare le condizioni di vita materiali delle masse. Questo compito gigantesco è assolto dal regime rivoluzionario, la dittatura del proletariato.
Ogni azione volta a trasformare i rapporti materiali si scontra contro la resistenza di forze sociali dagli interessi contrastanti, spesso divergenti. Il mezzo con cui viene piegata questa resistenza è l’organo di coercizione, lo Stato. L’ascesa della burocrazia stalinista tolse dalle mani del proletariato il controllo sullo Stato; essa si servì del terrore statale, con l’unico fine di preservare i propri privilegi, rivolgendo le armi dello Stato ora contro le classi possidenti ora contro le masse operaie e contadine.
Com’è potuto avvenire tutto ciò? Quali forze hanno permesso che l’enorme rivolgimento innescato dalla Rivoluzione d’ottobre sia stato fiaccato e sconfitto? Com’è avvenuto che il potere conquistato dalla classe operaia sia passato nelle mani di una burocrazia parassitaria che, per mantenere la propria supremazia e conseguire enormi privilegi, non ha esitato a ricorrere all’oppressione più brutale nei confronti della stessa classe operaia, schiacciandone ogni tentativo d’opposizione?
"Colpe, responsabilità ed errori"
Purtroppo la spiegazione della degenerazione stalinista fornita da Bertinotti non si spinge oltre i confini di un mero relativismo soggettivista secondo cui sarebbero da individuare "colpe", "responsabilità" ed "errori". "Si può ragionare – spiega Bertinotti - attorno al fatto se il comunismo fosse immaturo o se fosse caduto per colpa di errori. Ritengo che ci sia l’una e l’altra componente". Comunismo "immaturo" ed errori. Queste sarebbero le basi della degenerazione stalinista? A 84 anni di distanza dalla Rivoluzione, quest’argomento di Bertinotti confermerebbe le ragioni dei menscevichi e di Kerenskij che sostenevano che la rivoluzione avrebbe dovuto arrestarsi alla fase democratico-borghese perché le condizioni non sarebbero state "mature". Ma, a differenza dei menscevichi i bolscevichi avevano come orizzonte la crisi rivoluzionaria che si apriva per il capitalismo a livello mondiale. "La catena del capitalismo si è spezzata nell’anello più debole" commentò Lenin. La rivoluzione russa era concepita solo come il primo passo della rivoluzione mondiale. Se i bolscevichi non avessero portato fino in fondo la rivoluzione, la politica del governo provvisorio di Kerenskij avrebbe consegnato alla reazione le masse lavoratrici e contadine fiaccate dalla guerra e demoralizzate dall’incapacità dei propri dirigenti di conquistare il potere, esattamente come avvenne in Italia, pochi anni dopo, con l’ascesa del fascismo.
La responsabilità degli "errori" secondo Bertinotti ricadrebbero su tutto il movimento comunista: "Le colpe infatti non ricadono solo sull’Urss. La scelta del socialismo in un solo paese non ricade solo su Stalin. Essa era anche la risultante della convinzione nel movimento comunista internazionale che un’epoca si era chiusa, e che quindi si dovesse pensare alle vie nazionali al socialismo. Allo stesso modo la concezione autoritaria non si è manifestata solo ad Est, ma in tutto il movimento operaio, nel quale prevalse una concezione etica per cui la risposta della fedeltà al partito prevaleva su qualunque altra". A condizionare il movimento operaio, rendendolo ostaggio dello stalinismo, non furono quindi la demoralizzazione per l’avvento del fascismo e del nazismo o la pressione della cappa del terrore stalinista, ma una "concezione etica" di malriposta fedeltà nel partito. Una tale spiegazione apre il campo ad ogni sorta d’approccio idealistico sulla natura egoistica, competitiva, conformista, ecc., dell’animo umano.
In quest’analisi manca del tutto qualsiasi accenno ai nodi fondamentali della degenerazione dello Stato operaio già individuati dallo stesso Lenin negli ultimi anni di vita e poi sviluppati da Trotskij: il bassissimo livello delle forze produttive (e la conseguente prevalenza numerica schiacciante della classe contadina e piccolo-borghese sul proletariato), la fame, l’analfabetismo, l’accerchiamento capitalista, ma soprattutto l’isolamento della Repubblica dei Soviet per la sconfitta delle rivoluzioni europee (Ungheria, Italia, Germania). La demoralizzazione della classe operaia costituì il terreno più fertile per la crescita e la progressiva definizione di una burocrazia che, usurpando il potere ai lavoratori, acquisì progressivamente una coscienza di sé come casta sociale. La rinuncia alla rivoluzione mondiale e il sostegno alla teoria del socialismo in un solo paese, rappresentano allo stesso tempo una rottura con il metodo e la politica di Lenin e dei bolscevichi ed il debutto della casta burocratica sovietica.
Come se non bastasse, in molti passaggi del suo intervento Bertinotti chiama ad una corresponsabilità collettiva dei comunisti: "L’esperienza dell’Unione sovietica fa parte della nostra storia, non ce ne possiamo liberare. Ragioniamo sul cuore di questa esperienza: lo stalinismo. Non mi riferisco qui al culto della personalità, ma ad un intero sistema. Lo faccio proprio perché le code di quel sistema vivono ancora dentro di noi e impediscono la ricerca e l’attualizzazione di un’idea comunista…" ed ancora: "Questa vicenda non può essere messa tra parentesi: parla di noi".
Trotskij è il grande Innominato. Possibile che in tutto il discorso fatto a Livorno il compagno Bertinotti non ritenga di dover nominare il principale esponente dell’opposizione allo stalinismo? Un simile silenzio non può essere casuale.
Così, con poche frasi, Bertinotti riesce a gettare nello stesso sacco Stalin e Trotskij, i rivoluzionari che rimasero fedeli al bolscevismo e alla rivoluzione d’Ottobre e i loro carnefici. Davvero un bel risultato! D’altra parte, Bertinotti condanna aspramente il ruolo autoritario dello stalinismo all’interno del movimento operaio, ma si guarda bene dal contestare le posizioni politiche di Stalin e dei suoi successori, a partire da Togliatti.
Lo stalinismo ebbe un ruolo decisivo nel far penetrare concezioni e metodi di collaborazione di classe all’interno dei partiti comunisti. Nei paesi europei, con la concezione dei "Fronti popolari", alleanze con i cosiddetti partiti della borghesia democratica; nei paesi coloniali o semicoloniali, con la teoria cosiddetta delle "due fasi" (prima la lotta "nazionale" per l’indipendenza dall’imperialismo, poi, in un futuro indistinto, la lotta per l’abbattimento del capitalismo).
Queste concezioni furono alla base delle peggiori sconfitte del movimento operaio internazionale. In Spagna, Francia, Grecia, Italia, Indonesia, Cile, e tanti altri paesi ancora, la classe operaia pagò con dure sconfitte, nella maggior parte dei casi sanguinose, la politica criminale di Stalin e dei suoi successori.
Ma su questo Bertinotti tace, così come tace sull’ultimo e decisivo crimine dello stalinismo, e cioè sulla restaurazione del capitalismo in Urss e nell’Europa dell’est, della quale la burocrazia dominante fu in larga parte agente attivo.
Su queste basi, l’invito di Bertinotti a "sradicare dal nostro interno ogni residuo di stalinismo" non può risultare convincente; è necessario recuperare il filo rosso del bolscevismo, spezzato dalla controrivoluzione stalinista.
Un "ritorno a Marx"?
"Come si esce dalla crisi del movimento comunista del novecento?", conclude Bertinotti, "Propongo una scelta netta: si esce con una rinascita marxiana, cioè tornando a Marx. Non voglio affatto mettere tra parentesi il novecento, ma fare il famoso "balzo della tigre", per mettere la liberazione del lavoro salariato al centro del comunismo".
Una proposta a dire il vero poco originale. Lasciamo in proposito la parola a Trotskij, in Stalinismo e bolscevismo (1937): "Ci sono però altri, meno coerenti ma più numerosi, che dicono: ‘Dobbiamo tornare dal bolscevismo al marxismo’. Come? A quale marxismo? Prima che marxismo diventasse ‘fallimentare’ sotto forma di bolscevismo era già crollato nella forma della Socialdemocrazia. Dunque, forse lo slogan "ritorno al marxismo" vuol dire un salto sopra i periodi della II e III Internazionale… fino alla Prima? Ma questa pure fallì a suo tempo. Così in ultima analisi si tratta di tornare… alle opere complete di Marx ed Engels. Si può compiere questo salto eroico senza uscire dal proprio studio, senza neppure togliersi le pantofole. Ma come passare dai nostri classici (…) ai compiti del nostro tempo tralasciando diversi decenni di lotte teoriche e politiche, fra cui il bolscevismo e la Rivoluzione d’ottobre?"
Il vero nodo del "ritorno a Marx" è la rinuncia da parte di Bertinotti agli insegnamenti dell’Ottobre. In un’intervista al Corriere della Sera Bertinotti ha affermato: "La rivoluzione non è una rivolta e non può essere concepita come conquista del potere statuale. E non può essere fatta in un solo paese. Bisogna tornare all’idea della rivoluzione come processo mondiale e di lungo periodo" (21/10/2000).
Dietro a un radicalismo di facciata ("la rivoluzione mondiale"!) questa semplice affermazione costiuisce in realtà l’esatto opposto: la rinuncia alla rivoluzione, cioè alla rottura rivoluzionaria dell’ordine esistente e alla conquista del potere.
Critica allo stalinismo:
ma in quale direzione?
C’è una logica molto chiara in tutto il percorso proposto da Bertinotti: dalla sconfessione (implicita) della rivoluzione d’Ottobre, alla rinuncia alla rivoluzione in generale; conseguenza ulteriore: se non c’è la prospettiva rivoluzionaria, anche il ruolo del partito viene meno. E non per caso discorsi come quello pronunciato a Livorno costituiscono la copertura ideologica di tutti coloro che nel Prc propongono posizioni di fatto liquidatorie, di scioglimento più o meno rapido del Prc nel magma della presunta "sinistra alternativa". Non sfugge a nessuno come questa polemica sullo stalinismo rifletta direttamente lo scontro politico all’interno della maggioranza del gruppo dirigente del Prc. Un consistente settore di questa indubbiamente continua a difendere idee e concezioni che dallo stalinismo discendono direttamente. Di queste fa parte l’idea di origine strettamente burocratica secondo la quale le divergenze politiche non vanno portate apertamente nel dibattito del partito, ma pubblicamente ci si dichiara sempre "d’accordo con il segretario", salvo poi dire, scrivere e fare l’esatto opposto. Certo la presa di posizione di Bertinotti è in primo luogo il segnale di una battaglia politica all’interno del partito stesso.
Possiamo per questo considerarla una presa di posizione "più a sinistra", o un passo verso una effettiva rifondazione del pensiero comunista? Non ci basta dire "abbasso lo stalinismo!" Vogliamo capire se la critica viene fatta da destra o da sinistra, e nel caso del discorso di Livorno ci pare che l’approdo di questo attacco allo stalinismo sia un rifiuto indiscriminato di tutta l’esperienza della rivoluzione d’Ottobre.
Su questo terreno, come sinistra del Prc, non abbiamo un "male minore da difendere". Dobbiamo invece aprire una battaglia a tutto campo, sul terreno teorico come su quello politico, per la riscoperta delle vere tradizioni rivoluzionarie del comunismo. Il patrimonio teorico del marxismo e del bolscevismo deve essere riscoperto, fatto conoscere, discusso e applicato alla realtà odierna. Questa è l’unica vera rifondazione comunista che può porre il Prc all’altezza dei compiti della nostra epoca. Il dibattito apertosi a Livorno dimostra una volta di più come questo compito sia ineludibile.