---
Care compagne, cari compagni
In primo luogo mi preme sottolineare che la relazione che mi appresto a fare è il frutto di un’elaborazione politica che negli ultimi mesi è stata fatta dall’esecutivo e dal coordinamento nazionale della nostra area.
A differenza di quanto troppo spesso è avvenuto nel partito la nostra area non è composta da dirigenti e “diretti”, ma aspira ad essere un grande intellettuale collettivo. Non ci interessano le trovate geniali dell’ultima ora di un leader che si mette al di sopra della propria organizzazione. Il nostro metodo di lavoro è completamente diverso e punta a rafforzare il collettivo subordinando a esso le singole individualità.
1) Chianciano si è svolta in un deserto sociale. La sua ipotesi che poteva apparire ad alcuni velleitaria oggi trova importanti conferme nei movimenti di massa.
Quando a Chianciano Rifondazione comunista è uscita dal proprio congresso sancendo a prezzo di una profonda divisione la “svolta a sinistra”, sono stati in tanti a pensare che si trattava di qualcosa di completamente staccato dal mondo reale, da uno scenario politico che andava sempre più a destra e da un partito a pezzi dentro una sinistra anch’essa a pezzi. Lo dissero molti dei nostri nemici, ma il dubbio esisteva anche tra chi quella svolta l’ha sostenuta.
I fatti di queste settimane ci dicono che no: non si è trattato di un’allucinazione estiva, la svolta a sinistra può vivere dentro un movimento di massa che ha preso il centro della scena. Rifondazione comunista ha davanti un’opportunità storica per riconquistarsi un futuro che pareva ormai negato e inaccessibile. L’analisi, le parole d’ordine, la strategia con le quali affrontiamo questo nuovo quadro assumono pertanto un’importanza vitale.
La partecipazione del partito al governo Prodi ha rappresentato una tragedia per le lavoratrici e i lavoratori in questo paese.
Non si può dire che non l’avessimo detto in tutte le salse fin dal congresso di Venezia.
Il partito ha pagato un prezzo salatissimo nel suo rapporto con i lavoratori, già fortemente indebolito da un decennio di “innovazione” bertinottiana.
Il disastro del 13 e 14 aprile ha materializzato questa rottura che si era già prodotta sul piano sociale.
Tutti gli studi sui flussi elettorali (come quella di Carra presentata al convegno di Brescia) mostrano come ci sia stata un travaso consistenti di voti operai da Rifondazione verso l’astensione.
La questione del welfare e l’atteggiamento che in quel frangente ha assunto il partito ha rappresentato il punto di svolta decisivo in questa frattura. Oggi la proposta di Bertinotti di “riorganizzazione” della sinistra si ammanta di un profilo anticapitalista e si richiama alle esperienze politiche dell’America Latina, i cui protagonisti secondo Bertinotti non sono partiti denominati comunisti. Ci permettiamo di ricordare che i partiti comunisti in America Latina (con la parziale eccezione del Cile) non è da oggi che giocano un ruolo marginale nei movimenti rivoluzionari latinoamericani (che dire dell’esperienza sandinista o del fatto che a Cuba la rivoluzione è stata guidata dal movimento di Castro e non dal Pc cubano, che aveva due ministri nel governo di Batista o dei gravi errori del Pca che hanno determinato l’affermazione del peronismo in Argentina negli anni ’40) e che questa situazione si deve alle responsabilità storiche dello stalinismo che durante la seconda guerra mondiale ha sostenuto in varie forme l’imperialismo Usa e le sue articolazioni politiche a livello locale perché alleati dell’Unione Sovietica.
A questa mistificazione si somma l’ulteriore paradosso di avanzare una proposta che pur riproponendo fino alla nausea i concetti di “efficacia” e “massa critica” è espressa precisamente da gruppi dirigenti che si sono distinti per essere stati la quintessenza dell’inefficacia e per aver ridotto la “massa critica” della sinistra al livello odierno. E chi oggi parla di una sinistra unita d’opposizione rammentiamo non solo il documento dell’Assemblea di Roma dell’8 dicembre del 2007 (che parlava di sinistra di governo) ma anche le obiezioni che avanza Fava alla proposta di coordinamento delle opposizioni di sinistra che parte proprio dall’obiettivo di stabilire un rapporto privilegiato con il Pd. D’altra parte la linea che più volte è stata manifestata dai compagni della minoranza vendoliana va proprio nella direzione di un rapporto privilegiato con il partito di Veltroni che non a caso in più occasioni è entrato a piedi uniti nel dibattito interno in Rifondazione. Questa linea di subalternità non può che condurre Rifondazione e la sinistra a trasformarsi in una dependance del Pd.
Quindi è un’assioma consolidato per noi che il primo obiettivo nella battaglia politica per la svolta a sinistra è sconfiggere la linea di Vendola.
Il problema è come farlo.
A quattro mesi dal congresso di Chianciano il Prc rimane un partito in mezzo al guado. La nuova maggioranza sconta tutt’ora una evidente difficoltà ad esprimere una elaborazione compiuta sia sul terreno politico-programmatico che su quello dell’intervento. Rischia di prevalere una linea minimalista, una ricerca della linea di minore resistenza che non può trarre il partito fuori dalle secche. Prevalgono l’incertezza, la reticenza, l’ambiguità…
Dobbiamo esserne coscienti, la battaglia che abbiamo aperto a Chianciano può risultare vittoriosa solo se partiamo dai dati di fatto reali, e non dai nostri desideri. La nostra area, ricordiamolo sempre, è entrata in questa maggioranza in base ad una precisa prospettiva politica, quella della svolta a sinistra. In nessun caso la collocazione può oscurare la prospettiva.
2) Il documento a confronto con la realtà – partito virtuale/partito reale
Nel documento di Chianciano si diceva: “Il rilancio del Prc parte dalla ripresa dell’iniziativa sociale e politica. La promozione di lotte, la costruzione di vertenze, la ricostruzione dei legami sociali a partire da forme di mutualità… Così come sono elementi necessari per valutare l’efficacia della nostra presenza nelle istituzioni e per ribadire la nostra alterità e intransigente opposizione rispetto alle degenerazioni della politica.”. Intransigente si diceva. Alla prima votazione importante che sono state le regionali in Abruzzo ci siamo caratterizzati invece per aver fatto un’alleanza elettorale con il Pd e Idv. Non solo l’accordo è stato stretto senza una reale base programmatica ma quello che è più impressionante è che alla fine nelle liste ci sono due indagati per corruzione nello scandalo sanità. La spiegazione che ci è stata offerta da Paolo Ferrero in direzione nazionale è che avendoli accettati Di Pietro (un’autorità indiscussa nella lotta alla corruzione!) non potevamo fare diversamente anche noi. Una posizione che più subalterna verso Idv non poteva essere. Hanno avuto buon gioco i compagni della 2 nel criticare il segretario, senza che questo li abbia ovviamente trattenuti dal sostenere l’accordo a livello regionale.
Nel documento di Chianciano si diceva anche: “in vista delle prossime elezioni amministrative, anche alla luce dell’importanza assunta dai governi locali nel dispiegarsi di politiche di sussidarietà, privatizzazione e securitarie, è necessario verificare se gli accordi di governo siano coerenti con gli obiettivi generali che il partito si pone in questa fase”.
Ora vediamo la realtà:
A Milano dopo due anni in cui si è andati a colpi di penultimatum (persino il Manifesto ci ha ridicolizzato), la maggioranza del Prc locale (monocolore mozione 1), con il sostegno critico della 2, ma neanche tanto, decide che il presidente della provincia Penati non si tocca e che di uscire da quella maggioranza non se ne parla. Neanche il Pdci ha potuto tanto e infatti è uscito dalla maggioranza.
A Bologna la federazione del Prc nel giro di un mese passa da una rottura improvvisata nella Provincia alla ricerca dell’accordo col Pd per il Comune e mette sotto stretta osservazione il segretario Loreti colpevole di “avventurismo”. In questa linea di accordo a prescindere con il Pd il ruolo di protagonisti lo hanno giocato i compagni dell’area Grassi e quelli dell’area Pegolo-Masella, mentre Ferrero stava a guardare. A Viterbo i ferreriani si starebbero addirittura operando per stringere un accordo con l’Udc.
In Campania i compagni dell’area Ferrero, nonostante le numerose dichiarazioni del segretario nazionale (ultimamente sempre meno, per la verità) tese a uscire dalla giunta Bassolino, non hanno contrastato la posizione dell’area Vendola di mantenersi all’interno della maggioranza.
La mozione 1 decide così, al congresso regionale campano, di rompere la maggioranza di Chianciano non facendo alcuna battaglia aperta per il rilancio del partito e la sua collocazione fuori dal governo regionale più screditato d’Italia.
Ciò accade perché una parte del gruppo dirigente della mozione 1 è parte integrante del gruppo dirigente che ha gestito il partito regionale in questi anni, annoverando tra le sue file non solo esponenti della segreteria uscente ma soprattutto il capogruppo alla regione.
Abbiamo riportato volutamente alcuni casi importanti che sono tutti riconducibili non solo all’azione della minoranza bertinottiana, ma a tre delle quattro aree di maggioranza (esclusa la nostra). Ma la lista potrebbe continuare a lungo…
Tutto questo per noi costituisce una tendenza: la tendenza restauratrice che dobbiamo battere se vogliamo fare che Rifondazione comunista possa fare ciò che deve: contribuire al movimento e al tempo stesso attingere da esso quella forza e quella radicalità senza le quali tutto il resto sono solo chiacchiere.
Questa battaglia andrà condotta senza esitazioni ma anche senza approcci unilaterali e settari. Declamare la rottura con il Pd non basta. L’obiettivo è portare in questa battaglia tutti quei compagni che seppure non sono arrivati ancora alle nostre conclusioni sono stanchi della logica istituzionalista che in questi anni ha rischiato di ammazzare il partito. Considero da questo punto di vista un modello la gestione delle verifiche con il centrosinistra che i compagni della nostra area hanno condotto o stanno conducendo a Modena, dove esprimiamo il segretario cittadino e dove non ci limitiamo ad applicare la nostra posizione generale ma sviluppiamo una campagna di massa rivolta ai lavoratori e ai cittadini per fare sì che la verifica non sia un puro atto burocratico ma il risultato di una mobilitazione reale e trasparente contro le politiche liberiste e privatizzatrici portate avanti dal Pd.
Purtroppo nella maggior parte dei casi, mi duole dirlo ma è la realtà, le verifiche portate avanti dai gruppi dirigenti sono pura finzione burocratica.
3) Il radicamento sociale del partito – il nostro lavoro
Il punto decisivo che qualificherà, nel bene o nel male, questa maggioranza sarà la sua capacità di inserire pienamente il Prc nel conflitto sociale che si riaffaccia nel nostro paese. Anche qui dobbiamo guardare in faccia la realtà: partiamo da molto in basso, non solo la credibilità politica del partito, ma anche la nostra capacità di impostare un intervento sistematico nel mondo del lavoro e nella lotta di classe in tutte le sue manifestazioni è drammaticamente indebolita. E su questo terreno non ci sono scorciatoie, non si conquista il consenso operaio con i comunicati stampa o con le uscite estemporanee, che oltretutto hanno un carattere giornalistico e superficiale e non puntano ad orientare i nostri militanti.
Il primo obiettivo deve essere quello di motivare i compagni e le compagne, far sentire loro che esiste un gruppo dirigente che può dare loro strumenti di intervento e proposte capaci di interloquire con i lavoratori, costruire i necessari canali all’interno e all’esterno del partito che permettano di passare dalle parole ai fatti.
Qui si inserisce anche la nostra responsabilità specifica, posto che abbiamo accettato di buon grado di farci carico di un’area di lavoro tutta da costruire quella del radicamento sociale del partito e, all’interno di questa, del dipartimento che si occuperà specificamente di organizzare la presenza del partito nei luoghi di lavoro. Siamo quindi messi alla prova su un terreno decisivo.
Su questo terreno di lavoro è necessario fare un primo bilancio.
Siamo stati tra i principali animatori, sostenitori e organizzatori, in accordo e coordinamento con l’area lavoro e welfare del partito della campagna verso lo sciopero generale del 12 dicembre.
Il partito, e questo di per se è un evento straordinario se si guarda alla realtà degli ultimi anni si è presentato davanti a centinaia di posti di lavoro in tutta Italia. Dicevo che siamo stati tra i principali animatori perché basta guardare i paginoni pubblicati da Liberazione sulla campagna per rendersi conto come i più attivi di gran lunga in questa campagna sono stati i compagni e i responsabili lavoro che appartengono alla nostra area.
Ma la questione non è mobilitare i “nostri” che per altro si sono sempre mobilitati ma è generare una dinamica virtuosa che faccia emergere e pesare nelle decisioni politiche i settori più proletari e combattivi del nostro partito, che dia voce a quei compagni che sono stati ammutoliti ed emarginati e che aldilà delle appartenenze di componente rappresentano il capitale più grande di cui dispone questo partito.
Il lavoro che è stato macinato seppure in un lasso limitato di tempo è stato molto:
- si sta riaprendo un dibattito sulla siderurgia e un lavoro proficuo (assieme a compagni molto bravi particolarmente dell’area Ferrero) per organizzare un coordinamento nazionale siderurgia e un’assemblea nella città di Taranto e definire la posizione del partito sul tema delle emissioni inquinanti. Un tema di scottante attualità che riguarda non solo Taranto ma anche gli impianti di Servola e Piombino dove è indispensabile evitare che si apra una contraddizione tra lavoratori e cittadinanza.
In un clima di entusiasmo si è fatta una riunione a Piombino nella quale si è deciso di formare il circolo dell’acciaieria e dell’industria del Prc di Piombino. Alla riunione era presente anche lo storico segretario della sezione industria del Pci (1.200 iscritti) che era sinceramente commosso.
A Taranto il nucleo aziendale dell’Ilva è molto attivo e c’è una nuova generazione di giovani operai iscritti al Prc che si pone il problema, pur tra mille difficoltà di ricostruire il partito in fabbrica. 2.000 Notiziari del nucleo aziendale sono stati distribuiti all’Ilva in quella che è ormai la più grande concentrazione operaia d’Europa, oltre che la più grande produttrice di diossina e materiali cancerogeni.
Sul Lavoratore (organo della federazione di Trieste) è stato aperto un dibattito (con posizioni diverse che esistono non da oggi) rispetto al futuro della Ferriera all’interno del quale sono stati coinvolti sia il sottoscritto che il compagno Bellotti.
Sul terreno dei Porti stiamo coordinando un intervento che coinvolge compagni che in passato erano iscritti al circolo del Porto di Genova (un circolo che aveva 120 iscritti e che è entrato in crisi ed ha chiuso durante l’esperienza del governo Prodi) oltre ai responsabili lavoro di Genova (Veruggio) e Trieste (Hlacia) con l’obiettivo di fronteggiare un attacco che si sta preparando da parte del governo contro le Compagnie portuali e di conseguenza contro i lavoratori che vedono un progressivo peggioramento delle loro condizioni. All’interno di questo c’è anche l’obiettivo di ricostituire il circolo del Porto a Genova e magari anche in altre realtà. Un obbiettivo simile abbiamo la Fincantieri dove il partito deve ancora riprendersi dall’operazione del vecchio responsabile Maurizio Zipponi che aveva l’obiettivo di quotarla in borsa. Chissà cosa ne sarebbe oggi se questa operazione fosse riuscita. Ma certo, per Zipponi la crisi economica non esiste, si tratta di semplice riorganizzazione del capitale…
A questo si aggiungono una serie di iniziative che abbiamo messo in campo per ricostituire il coordinamento nazionale del gruppo Fiat a partire dal fatto che siamo riusciti ad avvicinare compagni da realtà in cui il partito era scarsamente presente o perché non c’era mai stato o perché il suo rapporto con i lavoratori si era talmente logorato da mettere in crisi l’esistenza della sua presenza organizzata (Pomigliano, NewHolland di Modena, ecc.).
Vari circoli aziendali del partito si stanno riattivando sotto la spinta della svolta impressa a Chanciano e lo dimostrano le eccellenti e riuscitissime iniziative organizzate in questi mesi dai circoli Trasporti e Poste di Milano in solidarietà con De Angelis e sul tema della sicurezza sui posti di lavoro, dai circoli aziendali della federazione di Bologna per organizzare la campagna per lo sciopero generale, per arrivare alla bellissima iniziativa organizzata dai circoli cittadino e aziendali di Modena sul tema della crisi e la piattaforma del partito.
Come sono importanti le riunioni dei circoli aziendali che si sono tenute a Napoli e Palermo. Riunioni a cui ho partecipato personalmente (tranne a quella di Palermo) e nelle quali ho visto un clima per certi aspetti elettrizzante, che mostra quali sono le potenzialità del partito per ricostruire il proprio radicamento sociale e per intervenire nel movimento di massa in campo in questo momento.
Questo è il partito in cui crediamo e che opponiamo al partito dei cacicchi delle istituzioni e dei carrieristi. I due partiti sono incompatibili e la nostra lotta per la svolta a sinistra deve trovare il suo cardine in questi settori del partito che per tornare al documento di Chianciano credono seriamente “al rilancio del Prc a partire dalla ripresa dell’iniziativa sociale e politica, la promozione di lotte e il rilancio di vertenze”.
I due partiti come si diceva sono incompatibili e questa contraddizione non riguarda solo noi e la minoranza vendoliana ma attraversa la stessa maggioranza di Chianciano a cui aderiscono assessori e funzionari sindacali che con le loro scelte contribuiscono a produrre un arretramento delle già difficili condizioni di vita dei lavoratori.
Saremo impegnati nelle prossime settimane in una campagna contro un licenziamento politico di un compagno di Rifondazione delegato dell’Hera, la multiutilities dell’energia emiliana. Questo compagno è stato licenziato con un pretesto da un’azienda all’interno del cui consiglio d’amministrazione c’è un compagno nominato da Rifondazione Comunista a cui poniamo una domanda molto semplice: “Ma tu da che parte stai? Non sarebbe forse il caso che ti dimettessi unendoti alla lotta che i compagni stanno portando avanti per reintegrare un compagno che è stato sbattuto in mezzo alla strada?”.
In questa lotta non dobbiamo guardare in faccia a nessuno e non ci sono accordi di maggioranza che tengono, lo sappia Ferrero e lo sappiano tutti gli altri. La “mozione operaia” rispetta un solo tipo di accordo: quello che ha contratto con la propria classe di riferimento di cui siamo “puro e semplice strumento” e con la quale aderiamo in tutto e per tutto, a partire dallo stile di vita e dai salari, anche quando occupiamo posizioni da funzionari di partito o sindacale.
Da questo punto di vista apprezziamo l’abbassamento dei salari dell’apparato che è stato deciso dall’ultima direzione nazionale ma ribadiamo quanto abbiamo detto al congresso con la presentazione di un ordine del giorno allo statuto che è stato respinto: salario operaio per i compagni che occupano posizioni di apparato e istituzionali di ogni ordine e grado
Si sappia che su questo terreno siamo conseguenti e che a partire dal compagno Bellotti, che percepisce il salario che il partito attribuisce ai compagni della segreteria nazionale (2.200 euro) l’eccedenza rispetto a un quinto livello metalmeccanico (e in realtà più di quello) viene versata al movimento. Non facciamo demagogia come ci ha accusato qualcuno. Per noi è questa la normalità in un partito che aspira a rappresentare gli interessi dei lavoratori e che proprio per questo si definisce comunista.
4) La piattaforma programmatica di fronte alla crisi
Sulle caratteristiche della crisi economica ci sarà un dibattito domani nel quale interverrà Claudio. Ma le dimensioni della crisi è evidente a tutti che sono impressionanti. Il partito deve attrezzarsi e non può pensare di cavarsela con quattro parole d’ordine trite e ritrite come la vecchia proposta della tassazione delle rendite che è stata inserita nel volantino nazionale del 12 dicembre.
Le vecchie proposte dal carattere “redistributivo” di tipo neokeynesiano se hanno mostrato la loro inefficacia in un contesto normale figuriamoci ora che utilità possono avere.
Grida vendetta al cielo il fatto che mentre la destra si attrezza a rispondere alla crisi sul suo terreno fatto di populismo, xenofobia, omofobia e guerra fra poveri, non esista ancora una seria piattaforma programmatica di Rifondazione comunista capace di parlare al movimento in campo e di cogliere la sua radicalità, sintetizzata dalla parola d’ordine “non pagheremo la vostra crisi”.
Il nostro partito deve essere identificato come il partito del pubblico, delle nazionalizzazioni, del controllo dal basso, da parte dei lavoratori organizzati e degli strati popolari di quelle risorse che ieri, nella fase del liberismo trionfante, venivano massicciamente spostate dal basso verso l’alto e oggi vengono nuovamente dirottate dallo Stato a beneficio di coloro che sono i primi responsabili della crisi.
Il tema della nazionalizzazione delle principali leve dell’economia (sistema bancario, settori strategici dell’industria, delle comunicazioni, della grande distribuzione, del patrimonio immobiliare) diventa rapidamente comprensibile a milioni di persone. L’estendersi della crisi dalla finanza all’economia reale renderà questo punto ancora più comprensibile e urgente di fronte al dilagare di licenziamenti, crisi, chiusure aziendali. Non è un caso che nei diversi incontri che abbiamo tenuto in queste settimane con i compagni operai del partito questo sia stato un tema ricorrente. L’ho sentito dire dai compagni dell’Ilva, è la stessa realtà che è emersa nel corso della vertenza Alitalia sintetizzata nella parola d’ordine: “meglio falliti che in mano a ‘sti banditi”. E non è un caso che si sia scatenata una campagna mediatica da parte dei media del grande capitale contro questi “lavoratori parassiti”che vogliono tornare alle partecipazioni statali.
Si parla di un passaggio dal liberismo al keynesismo. Ma prima di ogni altra cosa la classe dominante si propone di salvare le istituzioni economiche e finanziarie del capitalismo mondiale a spese delle classi subalterne. Non c’è traccia di investimenti pubblici tesi ad espandere il consumo, né di interventi a sostegno di occupazione e salari. Stanno facendo profitti anche dalla crisi così come è stato nel boom.
È incredibile che sia stato il capitalismo finanziario che di fronte alla crisi ha preso a parlare per primo di nazionalizzazioni, mentre la sinistra, a partire dal nostro partito balbetta ancora su questo argomento. Il compagno Ferrero, dopo una riunione della segreteria nazionale, nella quale era stato fortemente sollecitato, ha parlato in un’intervista su Liberazione di nazionalizzazione delle banche ma poi la cosa è stata sostanzialmente abbandonata, come è stata abbandonata la discussione iniziata in direzione nazionale con gli economisti di sinistra per comprendere la natura della crisi e le sue conseguenze.
Ma nazionalizzazione per la borghesia significa semplicemente socializzazione delle perdite e salvataggio delle banche. Si renda ad esempio la nazionalizzazione delle banche inglesi o del colosso Fortis in Belgio, ma anche l’intervento in corso negli Stati Uniti. Si tratta nella sostanza di un afflusso di capitali pubblici nelle banche senza che questo implichi la partecipazione dello Stato ai consigli di amministrazione, né un reale controllo che possa essere esercitato.
È da questo punto di vista che la questione del controllo pubblico assume un’importanza decisiva, forse fin qui troppo poco esplorata, nella nostra discussione.
Non basta proporre la nazionalizzazione delle banche e del sistema finanziario, ma è necessario porsi il problema dell’utilizzo delle risorse per una politica economica completamente differente.
Si pone in definitiva il problema di chi produce, come produce e per cosa produce, di un modello di società sottratto dalle grinfie del profitto privato e messo a disposizione del bisogno complessivo dei lavoratori e della società nel suo insieme.
Si pone la necessità di individuare strumenti di controllo democratico e partecipato che non possono che avere un carattere extra-statuale. Il terreno non può essere individuato se non nel vivo del conflitto sociale, che nelle punte più alte, si traduce spesso e volentieri in esperienze consiliari che ricalcano, pur nella loro modernità, le esperienze più avanzate delle passate fasi rivoluzionarie.
Il movimento delle fabbriche occupate in America Latina deve diventare oggetto di studio e di approfondimento anche in Italia. La crisi è catastrofica e produrrà chiusure di impianti.
Il tema del controllo operaio e popolare è la vera lezione che ci arriva dall’America Latina, aldilà delle nostre polemicucce locali e piuttosto provinciali. Esperienze che si pongono oggettivamente sul terreno dell’alternativa di sistema e che allo stesso tempo agiscono nella inevitabile dialettica che si produce nelle articolazioni della vecchia società capitalistica determinando quel dualismo di potere che ha caratterizzato ogni fase rivoluzionaria.
Tuttavia ciò pone solamente il problema, che va risolto anche da un punto di vista soggettivo, ossia con lo sviluppo di un programma e di una strategia che sappiano dare forma compiuta e cosciente a questa necessità radicata nella situazione sociale, nella crisi, e che indubbiamente troverà anche espressione nel conflitto di classe. Mi diceva una nostra funzionaria sindacale alla riunione di Bologna che di fronte a una crisi di questa portata sono stati annullati quei pochi strumenti sindacali che avevano a disposizione. C’è bisogno della politica.
Solo sulla base di questo punto è possibile dare un senso a quelle rivendicazioni difensive pure urgentissime e necessarie (ammortizzatori sociali, salario ai disoccupati, controllo dei prezzi, salvaguardia dei servizi pubblici, del risparmio delle classi popolari, delle pensioni, difesa dei diritti democratici…).
Il nodo più critico sul quale lavorare riguarda precisamente il nesso fra le rivendicazioni difensive, immediate, si potrebbe dire di sopravvivenza, e la prospettiva che dobbiamo saper far vivere nei conflitti già oggi in campo e in quelli che inevitabilmente si apriranno come conseguenza della crisi economica. La questione del programma di transizione diventa centrale. In assenza di tale prospettiva generale qualsiasi rivendicazione, anche la più avanzata, può essere piegata alle compatibilità esistenti e resa sterile.
L’obiettivo di un’uscita a sinistra della crisi e del recupero a sinistra del lavoro dipendente in tutte le sue forme non può che partire da qui e non certo dalla rivendicazione della svolta culturale e antropologica e delle stridule grida sulla “crisi di civiltà” totalmente inefficaci nel contrastare la reazione populista, xenofoba e securitaria.
I padroni stanno lasciando a casa senza colpo ferire centinaia di migliaia di precari, 400mila secondo le ultime cifre. Una prima rivendicazione immediata deve essere l’estensione dell’accesso alla cassa integrazione per tutti i lavoratori, quale che sia il settore in cui lavorano, la dimensione dell’impresa e il tipo di contratto che hanno. Un interinale o un contratto a termine che viene lasciato a casa ha diritto quanto un lavoratore a tempo indeterminato a un reddito che gli permetta di sopravvivere. Le aziende, che negli anni della crescita si sono riempite le tasche di profitti mentre i salari restavano al palo, devono contribuire pesantemente a finanziare gli ammortizzatori sociali, portando l’indennità della Cig al 100 per cento dell’ultimo salario. E i soldi che alcuni enti locali stanno mettendo a disposizione (la giunta Vendola ha parlato di 350 milioni di euro) devono andare ai salari e non alle imprese.
Non è esagerato ipotizzare che tra industria, servizi e tagli al settore pubblico, Un milione di posti di lavoro possano essere a rischio nei prossimi due o tre anni.
L’unica risposta credibile è lottare per un salario sociale di disoccupazione rivolto a tutti, sia lavoratori che perdono il posto di lavoro, sia disoccupati che non lo hanno mai avuto, sia a quei lavoratori sotto occupati che pur lavorando saltuariamente non riescono a raggiungere un reddito sufficiente a vivere, sia agli studenti che escono dalle scuole ed entrano nel mercato del lavoro. Mille euro per vivere, per tutti!
Rivendichiamo la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario; all’Unione europea che pretende la settimana lavorativa di 65 ore dobbiamo opporre una mobilitazione internazionale che metta al centro l’obiettivo delle 35 e poi delle 32 ore settimanali. Se la domanda cala, il lavoro va redistribuito così da impedire che una parte consistente della classe operaia venga trasformata in una massa atomizzata, con redditi da fame che la renderebbero più ricattabile che mai.
Il padronato non esita a usare la crisi come mezzo per dividere i lavoratori su basi etniche, sfruttando il clima di intolleranza e di razzismo che da anni la destra e gran parte dei media alimentano senza sosta nel nostro paese. In molte aziende si verifica, ad esempio, che la cassa integrazione colpisca per primi e in modo selettivo i lavoratori immigrati. Su questo la Lega farà una campagna che può avere una certa presa sui lavoratori, soprattutto nel Nord-est. La Legge Bossi-Fini, che lega il permesso di soggiorno al posto di lavoro, significa che migliaia di lavoratori immigrati potrebbero essere trasformati in clandestini. La proposta della Cgil di sospendere per due anni l’applicazione della legge è giusta ma del tutto insufficiente. Va rivendicata l’abolizione della Bossi-Fini, il permesso di soggiorno per chiunque cerchi lavoro, l’accesso ai diritti sociali e politici, fino al diritto di voto e alla cittadinanza per chi ne fa richiesta. Oggi più che mai non si tratta “solo” di una questione di democrazia e diritti, ma di una questione vitale per impedire che la classe lavoratrice, che è già da tempo fortemente multietnica, venga divisa su linee razziali e gettata in una guerra fra poveri devastante, nella quale gli unici vincitori sarebbero i padroni.
C’è poi la pressione che in questi anni si è andata accumulando sulle spalle delle donne e delle lavoratrici, che sono entrate in massa nel mondo del lavoro (spesso con contratti part-time) e che come dimostra anche l’inchiesta della Fiom oltre a subire la “doppia oppressione” sono sottoposte a un regime di bassi salari e precarietà. Il partito deve avanzare proposte che vanno nella direzione della collettivizzazione del lavoro domestico e della parità salariale. A parità di lavoro, parità di condizioni.
Negli scorsi anni sono stati usati tutti i mezzi per spingere i lavoratori a gettare i loro risparmi nei mercati finanziari e a indebitarsi fino al collo, particolarmente con i mutui casa, ma non solo. È necessario innanzitutto salvaguardare le liquidazioni di quei lavoratori che hanno deciso di versare il Tfr nei fondi pensione. Già nel 2007, infatti, i fondi hanno reso meno del Tfr e peggio ancora andrà quest’anno. I "fondi chiusi" di categoria devono essere chiusi e il montante versato deve tornare all’Inps; deve essere mantenuta la contribuzione aggiuntiva versata dalle imprese.
Deve essere costituito un fondo pubblico che rilevi i mutui a tassi variabili e li converta in mutui a tasso fisso non superiore all’inflazione reale.
Il governo sta studiando le misure di sostegno alle banche in crisi, si parla di 10miliardi di euro. Il governo, sia ben chiaro, si appresta ad aprire i cordoni della borsa, ma non toccherà i sacri diritti della proprietà privata, e su questo il Partito democratico è ancora più intransigente di Tremonti. Si propone infatti che il Tesoro sottoscriva azioni privilegiate (cioè senza diritto di voto) sulle quali vengono restituiti solo interessi ma non il capitale: se non è un assegno in bianco, poco ci manca.
Dobbiamo impedire che anche un solo euro di danaro pubblico venga sperperato per salvare i banchieri. Le banche in crisi devono essere nazionalizzate, garantendo i depositi delle famiglie, e gli indennizzi devono essere dati solo ai piccoli risparmiatori. Per questa via si deve creare un sistema creditizio pubblico, che integrandosi alle Poste (che devono restare pubbliche) possa essere messo al servizio delle necessità delle famiglie, delle piccole imprese, del pubblico.
I lavoratori si salvano se si salva anche il patrimonio produttivo. Nessun ammortizzatore sociale ha senso se poi il declino industriale accelera. La crisi non è solo congiunturale, non si tratta solo di far passare qualche mese e attendere che la ripresa economica rimetta le cose a posto, perché nel frattempo interi settori dell’economia potrebbero essere cancellati o pesantemente ridimensionati. Per questo di fronte alle crisi aziendali e alle chiusure di impianti è necessario rispondere con l’occupazione degli impianti come unica forma di garanzia contro la desertificazione industriale che non solo impoverisce la società, ma disperde i lavoratori e la loro forza sociale e politica. In generale va rivendicata l’apertura della contabilità e il pieno controllo dei lavoratori e delle loro rappresentanze sugli andamenti aziendali: abbiamo diritto di sapere che fine hanno fatto i profitti creati in tutti questi anni, i dividendi e i premi intascati da manager e azionisti. Ci sono casi come la Motorola di torino dove si propone la chiusura dopo che lo stato ha versato alla multinazionale 8 milioni di euro. Una cosa del tutto inaccettabile.
I sindacati devono organizzare un dibattito generale coinvolgendo tutte le categorie, le Rsu, tecnici ed esperti attorno a un piano nazionale di lavori pubblici necessari alla società e di rilancio dell’industria, della ricerca, degli investimenti.
Alla logica del saccheggio ambientale, delle grandi opere (dal Ponte sullo stretto alla Tav, all’Expo 2015) che beneficiano solo il partito del cemento armato (un partito trasversale all’interno del quale militano sia il Pdl che le cooperative del Pd) dobbiamo contrapporre la costruzione di un vero e proprio piano di riorganizzazione dell’economia nazionale sviluppato, controllato e gestito attraverso grandi imprese pubbliche controllate dai lavoratori, dagli utenti, dai consumatori.
In questa prospettiva ci battiamo per la rinazionalizzazione dei settori strategici che sono stati privatizzati, in tutto o in parte, negli ultimi 20 anni con i risultati che abbiamo sotto gli occhi: dalla siderurgia alle municipalizzate, alle telecomunicazioni. Con tali risorse in mano e con un sistema di banche pubbliche sarebbe possibile sviluppare grandi piani di intervento su assi centrali quali: edilizia pubblica, sistema energetico, trasporto pubblico locale e nazionale, servizi pubblici essenziali, telecomunicazioni. Solo per questa via si può cominciare seriamente a parlare di riconversione ecologica delle produzioni, di porre fine alla speculazione edilizia e ambientale, al saccheggio del territorio.
Nonostante la crisi teoricamente dovrebbe abbattere i prezzi, assistiamo al perdurare della speculazione su generi alimentari e di prima necessità..
Lottiamo per un controllo pubblico sui prezzi dei beni di prima necessità; occorre fissare un paniere di beni e di tariffe pubbliche a prezzo calmierato, creando organismi rappresentativi di sindacati, associazioni consumatori, comitati di quartiere ecc. che abbiano poteri di controllo per verificarne l’effettiva applicazione. Con queste proposte ci accingiamo ad intervenire nella discussione che si svilupperà nel partito. Discussione che a oggi non decolla.
5) Il documento dell’ultima direzione nazionale e il nostro atteggiamento
Alla riunione della direzione nazionale del 2 dicembre, che poteva finalmente discutere della situazione politica, dopo una serie di riunioni in cui, con nostro disappunto, nonostante il movimento in campo, si era discusso di tutt’altro (liberazione, regolamento del partito, ecc.) è stato presentato da Ferrero un documento (non discusso in segreteria nazionale) che dire povero è fargli un complimento (che è quello che i compagni hanno visto oggi su Liberazione).
Un documento che schiva come la peste tutti i problemi urgenti e scottanti (prospettive Cgil, natura del movimento scuola, ecc.). Alla fine la votazione è stata 24 per il doc. Ferrero, 19 per la 2 e 4 astenuti (il sottoscritto, Claudio, Veruggio e Franco Russo, quest'ultimo dopo che aveva proposto un emendamento che gli è stato respinto).
Se la direzione fosse stata a ranghi completi la maggioranza sarebbe andata quindi sotto (ricordo che la DN ha 60 componenti, 32 a 28).
Ancora più significativo politicamente è stato il voto su un Odg presentato da Elisabetta Piccolotti sul movimento della scuola. Dopo un dibattito assai confuso su vari emendamenti, il voto è stato il seguente: mozione 2 più area Ferrero: favorevoli.
Essere comunisti: astenuti. Noi, Masella, Mantovani e qualcun altro contrari.
Di fatto una ricostituzione della maggioranza di Venezia, su un documento pessimo.
Come potete capire, la linea di "galleggiamento" (o meglio di impaludamento) fin qui seguita da Ferrero è arrivata a un punto preoccupante. La "maggioranza di Chianciano" ha quindi 10 giorni, da qui al CPN, per dimostrare di avere un motivo di esistere.
Dobbiamo lanciare uno scontro a tutto campo. E fare una battaglia a viso aperto e ancora più visibile di quanto è già stato fin qua per far capire cosa vuol dire qualificare e praticare la svolta a sinistra. Cogliamola fino in fondo e ne usciremo enormemente rafforzati quale che sia l'esito, che comunque non è affatto scontato, soprattutto se sapremo giocarcela fino in fondo come intendiamo fare. Qui non si tratta di aprire una trattativa nelle segrete stanze ma di moltiplicare le iniziative per dare solidità alle nostre proposte, provocando un sussulto nella base militante.
6) Il partito e le elezioni
- Nel congresso regionale pugliese è stato approvato un OdG che propone la presentazione di liste di sinistra alle europee e alle amministrative di Bari e Foggia. Rifondazione per la sinistra ha proposto in Dn il cartello elettorale con le altre forze della sinistra d’alternativa a cui continua a contrapporsi una posizione diversa ma pur sempre speculare, quella dell’Unità comunista che sarebbe meglio definire della (dis)unità
comunista visto che la vecchia mozione 3 che l’ha sostenuta nel congresso si è frantumata nel giro di pochi mesi in almeno 4 aree (Sinistra comunista, Ernesto, Comunisti in movimento e Controcorrente). Nelle prime 3 di queste 4 l’approccio prevalente è quello istituzionalista (come dimostra la vicenda di Bologna).
Il Pdci ha eccellenti militanti operai (si pensi allo stesso De Angelis) ma l’approccio opportunista del suo gruppo dirigente pone il problema di che Unità comunista si sta parlando.
Alla manifestazione dell’11 ottobre a Roma c’era uno spezzone alla cui testa faceva bella mostra di sè uno striscione con lo slogan “Georgia nazista, dalla parte della Russia” dietro il quale marciavano Marco Rizzo e diversi dirigenti dell’Ernesto.
La nostra posizione su questo è conosciuta e non è cambiata, anzi caso mai si è rafforzata alla luce dei recenti sviluppi.
Aborriamo questo tipo di (micro)unità comunista ma siamo aperti al confronto, alla discussione e all’unità nella lotta con tutti quei compagni del Pdci e di altre formazioni comuniste e anticapitaliste che incontriamo nel corso delle mobilitazioni.
Rispetto alle elezioni europee quanto scritto nel documento di Chianciano è chiaro “il congresso dà mandato agli organismi dirigenti affinché alle prossime elezioni europee siano presentati il simbolo e la lista di Rifondazione Comunista-Se”. Punto.
Ferrero ha dichiarato più volte che resta fedele a questo mandato e noi ci batteremo in ogni ambito perché su questo non ci siano tentennamenti di alcun tipo.
Il fatto positivo che alle europee si voti con la vecchia legge ci aiuta ad evitare che determinate “operazioni politiche” si mascherino dietro la scusa degli sbarramenti elettorali. D’altra parte non è un mistero per nessuno (rimando alle posizioni espresse in più occasioni da Diliberto) che dietro la presentazione di una lista bicicletta Prc-Pdci si nasconda l’obiettivo di dare vita a un nuovo partito comunista all’interno del quale gioco-forza (visti i delicati equilibri interni all’attuale maggioranza di Chianciano) finirebbero col prevalere le posizioni di stampo tardo-togliattiano del “partito di lotta e di governo” che in nessun modo rappresentano una risposta alla crisi del bertinottismo. La nostra risposta all’unità comunista e l’unità di classe che può nascere solo dal conflitto e non dall’ennesimo assembramento dei gruppi dirigenti.
Su questo terreno specifico nella maggioranza di Chianciano c’è un’obiettiva convergenza con Ferrero, seppure per ragioni molto diverse, e un conflitto latente aperto con Giannini, Masella ma in ultima analisi anche con Grassi, che non si capisce a cosa si riferisce quando alla riunione della sua area ha parlato di questa aspirazione di Essere Comunisti a guidare il partito, visto che l’area di Grassi è già nella maggioranza ed esprime il segretario di organizzazione.
6) L’atteggiamento verso la minoranza vendoliana
Inoltre con i compagni della maggioranza abbiamo una divergenza sui rapporti da tenere con l’area Vendola. Diversi nella maggioranza di Chianciano parlano di “disarticolare la minoranza” ma il problema è come.
La linea Grassi nelle sue versioni più estreme è quella che è stata espressa in Sicilia nel congresso regionale, dove checché ne dicano i compagni di Essere Comunisti, hanno rotto con la maggioranza per fare un accordo con la 2. E’ apprezzabile la tenuta che in quel frangente hanno avuto i compagni dell’area Ferrero assieme a noi e alla 3 (nonostante le piroette di Guido Benni che guida in regione il 3° documento). Anche in Calabria la 3 ha avuto un atteggiamento molto più che ambiguo.
Ma su scala generale sia Grassi che Ferrero concepiscono la disarticolazione della 2 per via “cooptativa” attraverso la concessione di incarichi nazionali a compagni della 2 che si mostrano più concilianti. Una linea fallimentare che difatto sta limitando le possibilità di intercettare a pieno quel disagio che pure si sta manifestando tra molti compagni della minoranza e che potrebbe essere capitalizzato se solo ci fosse un orientamento rivolto alla base della mozione e non ai suoi dirigenti per queste vie.
La seconda mozione, aldilà del giudizio che si può dare dei dirigenti e facendo la tara ai “cammelli”, agganciati vari, ecc. è anch’essa una mozione che ha una base composta di lavoratori, di tanti compagni validi e onesti, che per le ragioni più diverse hanno votato Vendola ma che non sono affatto persi a un progetto di rilancio del partito.
Il problema è dargli motivi politici per cambiare opinione, dimostrare nel movimento di massa la validità del progetto politico che si è affermato a Chianciano. Se il tentativo è invece quello di “comprare” i loro dirigenti difficilmente questo potrà determinare un cambiamento di atteggiamento nei confronti dell’attuale gruppo dirigente. Ancora meno se la maggioranza, priva di un progetto politico lascia condizionare pesantemente la propria agenda politica da una minoranza di cui si può dire quello che vuole ma che all’interno delle riunioni della direzione si muove compattamente e con strategie ben preparate e molto spesso anche ben eseguite a differenza di quanto avviene per la maggioranza che spesso e volentieri si riduce all’improvvisazione più totale. Alla politica del giorno per giorno e a rinviare i problemi.
Detto questo è del tutto evidente che sul piano politico la seconda mozione è in crisi di prospettiva e non può pensare di vivere di tattica e di operazioni di retroguardia. Lo stop and go, che spesso e volentieri ha caratterizzato anche in passato la politica di Bertinotti, condurrà l’area alla disgregazione politica così come l’inattivismo in cui stanno riducendo i Giovani Comunisti che si limitano a portare avanti operazioni politiciste come quella che riguarda la nuova tessera con l’immagine della caduta del muro di Berlino.
La situazione in cui versa la proposta della costituente di sinistra è stata ben esemplificata dalla frase di Alfonso Gianni “ma dove cazzo andiamo?”. Il progetto della costituente della sinistra è stato affossato dalla realtà dei fatti e non saranno le 15 tesi del lider maximo a resuscitarlo.
Quello che avverrà è che alcuni pezzi usciranno dal partito (come è già successo a Torino e a Firenze) e altri rimarranno senza una prospettiva di lavoro concreta, soprattutto lì dove sono in una posizione di minoranza nel partito. L’operazione della presentazione delle liste di sinistra nelle federazioni del sud (e le poche del nord) dove sono maggioranza non risolverà il problema, ma al limite potrà preservare un pezzo di ceto politico sempre più distaccato dalla propria base che finirà inevitabilmente con entrare in conflitto anche con Sd che è l’unico soggetto che rimane interessato a quel progetto ma che guarda anch’esso con sempre maggiore interesse al Pd. L’atteggiamento reticente di Ferrero nei confronti della base della 2 è particolarmente nocivo in un momento come questo e pregiudica le possibilità di aggregare nuove forze vitali al processo di rilancio della Rifondazione comunista. La prospettiva argentina di cui parla spesso Alfonso Gianni è una prospettiva reale: la nostra area con il proprio intervento politico deve fare di tutto per scongiurare in primo luogo calandosi nei nuovi equilibri che si stanno producendo nel quadro politico e sindacale, a partire dal conflitto che promuove ma che allo stesso tempo attraversa la Cgil.
7) Lo sciopero generale e l’intervento nella Cgil e il sindacalismo di base
L’accanimento dell’attacco contro la Cgil non nasce da considerazioni ideologiche o politiche, ma dalla volontà di estirpare qualsiasi forma di organizzazione autonoma e di resistenza dei lavoratori. L’alternativa è secca: o sparire, assorbita da un modello sindacale aziendalista, di servizio, “complice” dell’impresa, o rischiare l’espulsione dai luoghi di lavoro e da qualsiasi titolarità di rappresentanza dei lavoratori.
Giunge quindi al termine la fallimentare linea concertativa inaugurata nel 1993. Questa situazione deve suscitare una forte riflessione nel nostro partito, poiché pur nella sua drammaticità apre tuttavia un enorme campo di azione e di interlocuzione. Se, contro le apparenze dell’oggi, il gruppo dirigente della Cgil dovesse infine capitolare al nuovo modello contrattuale imposto da Confindustria, Cisl, Uil e Ugl, si aprirebbe indubbiamente una crisi senza precedenti all’interno dell’organizzazione, essendo del tutto evidente che amplissimi settori della confederazione, sia nelle categorie che nei territori, non accetterebbero un simile esito e sarebbero spinti a una forte contrapposizione. Se invece, ed è l’esito per cui ci battiamo, la Cgil si sottrarrà al ricatto, dovrà inevitabilmente porsi il problema di una vera e propria ricostruzione della propria strategia rivendicativa e della propria pratica conflittuale al fine di non essere cancellata dai luoghi di lavoro.
In entrambe le ipotesi l’alternativa è fra essere e non essere. Non è esagerato dire che dalla nostra capacità di interpretare correttamente i nostri compiti su questo terreno decisivo dipende in gran parte la possibilità che Rifondazione comunista conquisti infine quel radicamento operaio che da troppi anni costituisce il grande assente nella nostra iniziativa e nella nostra elaborazione.
Su questo si ridefinisce anche l’evoluzione del sindacalismo di base, come in embrione è già possibile vedere nelle mobilitazioni di questo autunno, che nei loro punti alti tendono a rompere gli schieramenti precedenti e a produrre nuove “coalizioni” di fatto nelle piazze e negli scioperi: uno sviluppo che può generare una feconda moltiplicazione nell’efficacia delle forze anticoncertative nell’insieme del movimento operaio. Salutiamo positivamente l’adesione dei Cobas, Sdl e Cub (nonostante le resistenze di Leonardi) allo sciopero del 12 dicembre.
L’idea che dobbiamo mettere in campo è che lo sciopero generale non può essere, nelle condizioni date, una manifestazione in più. Dobbiamo invece proporre una strategia perché il movimento di massa, studenti e lavoratori, si unisca saldamente e giunga a saturare ogni angolo del paese con un crescendo di iniziative delle quali lo sciopero del 12 non sia il punto di approdo. Il governo e i padroni si assediano non solo con singoli cortei, ma anche e soprattutto ingaggiando un corpo a corpo su tutto il territorio nazionale, diffondendo la conflittualità nei luoghi di lavoro puntando a influenzare e penetrare nella base di consenso popolare che la destra ha avuto e che in parte continua a mantenere.
Ma al di là delle vicende immediate è fondamentale mettere a fuoco un fatto: in questi giorni e settimane si sta formando una nuova generazione politica, una nuova fascia di migliaia e decine di migliaia di attivisti e militanti il cui impegno andrà oltre il movimento stesso. Rifondazione comunista ha un futuro solo e soltanto se saprà entrare in dialogo con questa fascia, se saprà farsi attraversare dalla sua radicalità e se saprà proporre in questo dialogo una forte posizione teorica, politica e anche organizzativa; in altre parole, se dimostrerà di poter essere il partito del conflitto di classe della prossima epoca.
8) Il movimento studentesco
Il movimento della scuola e dell’università è indubbiamente il più grande di sempre. Non è mai esistito un movimento capace di coinvolgere simultaneamente studenti, insegnanti, famiglie, personale non docente. Come sempre si fa un gran discutere sulla “apoliticità” o del suo carattere “post-ideologico” del movimento, tutte le organizzazioni politiche, dal Pd ai centri sociali, che vi intervengono stanno bene attente a mascherare la propria appartenenza politica, sperando di conquistare appoggio solleticando la diffidenza verso partiti e organizzazioni della sinistra. Per non parlare dei giornali, specie quelli “progressisti”, che hanno da decenni sviluppato a vera e propria arte la pratica di accarezzare leader e leaderini, di mettere in evidenza gli elementi di confusione e di occultare l’autentica presa di coscienza di massa.
Ancora una volta tutta questa brava gente è destinata a restare delusa. Tutti gli autentici movimenti di massa, specie fra i giovani, hanno visto la presenza di stati d’animo anti-organizzazioni e “antipolitici”, particolarmente nella loro fase incipiente. Anche nel ’68 in una prima fase è stato così. A questa verità elementare se ne accompagna un’altra: il movimento non è concluso ma avanza non solo nella capacità di mobilitazione, ma anche nella propria visione e comprensione politica. Se oggi tutta la sinistra assume lo slogan “non pagheremo la vostra crisi!” che le manifestazioni studentesche hanno diffuso in tutto il paese, significa che forse tanto “antipolitico” questo movimento non è…
Il movimento operaio nelle piazze, la repressione, i fascisti e la crisi economica mondiale plasmano a fondo la coscienza del movimento, sarà sempre più forte la ricerca di idee anticapitaliste, di spiegazioni della crisi e soprattutto di visioni alternative a quella dominante, che è ormai completamente screditata a tutti i livelli della società. La rifondazione comunista si deve porre su questo terreno, il movimento non è solo un’occasione di battaglia politica nel paese, ma sarà anche un terreno di forte dibattito teorico nel quale le idee rivoluzionarie e anticapitaliste possono, devono, conquistare centralità.
Il movimento attuale è anche conseguenza della crisi verticale della sinistra nel nostro paese; questo non significa però che sia apolitico o che non guardi a quanto fanno le organizzazioni politiche: i giovani più attivi misureranno senza il minimo sconto il comportamento di tutti. Il Partito democraticose ne rende conto e lavora per la sussunzione del movimento. Non si capisce perché noi non si debba lavorare invece all’egemonia, per vincere la lotta e non depistarla. Il modello, lo hanno già detto in molti, è il Cpe in Francia.
Quel modello è interessante anche per le modalità di organizzazione che si è dato. La formazione di coordinamenti democratici e rappresentativi con diritto di revocabilità. Un elemento che favorisce la partecipazione e non delega a una minoranza di “superattivisti” che poi decidono sulla testa di tutti come troppe volte è avvenuto nelle cosiddette assemblee permanenti.
La nostra area sostiene ed appoggia la piattaforma di lotta avanzata dai comitati in difesa della scuola pubblica (Csp-Csu) che in questo movimento sono intervenuti efficacemente anche all’assemblea nazionale del 15-16 novembre e si propone di creare una “coalizione di movimento” che a partire dalle forze di cui dispone il partito eserciti un’influenza crescente in grado di favorire un esito positivo della mobilitazione, obiettivo che resta ancora possibile nonostante il ruolo pernicioso giocato sia dal Pd (e le sue articolazioni), che dalle pratiche disobbedienti e ostili al movimento operaio che sono presenti in diversi atenei e centri di studio, che non vengono contrastate (né le une, né le altre) dal gruppo dirigente dei Gc che si limita a “cedere sovranità” (Odg Piccolotti in Direzione nazionale), ma di che sovranità si parla se stiamo praticamente scomparendo? Forse sarebbe il caso una volta tanto di cedere un po’ di sudditanza.
9) Le prospettive per l’area
La crisi economica per la sua vastità e profondità metterà in discussione nei prossimi anni certezze consolidate. Questo apre un terreno nuovo e nuove opportunità. La crescita di consensi e di influenza che stiamo registrando come area negli ultimi mesi è notevole e questo è una ulteriore conferma della correttezza della scelta che abbiamo compiuto a Chianciano. L’aumento dei nostri sostenitori, delle vendite della nostra rivista, la simpatia crescente verso le nostre idee ci collocano sul punto di dare un salto di qualità al nostro lavoro di egemonia nei movimenti e nel partito.
Questa discussione che attraversa il Prc ha uno sviluppo anche su scala europea. Da questo punto di vista ci confortano molto i risultati che sono stati ottenuti anche dai compagni della Riposte nel congresso del Pcf (che hanno ottenuto sul loro documento un pronunciamento favorevole del 15% degli iscritti del partito). Questo è un ulteriore segnale dell’avanzata delle forze del marxismo.
Il contesto è mutato rapidamente e apre possibilità che finora non ci si erano mai presentate. Rimane determinante in questo processo che la tendenza marxista mantenga la propria autonomia politica ma che allo stesso tempo non presti il fianco ad operazioni che seppure indirettamente portino acqua al mulino di chi vuole liquidare il comunismo in Italia.
Ciò non significa mantenersi su una linea di disciplina di maggioranza che ci condurrebbe in poco tempo alla morte politica ma incalzare costantemente la “maggioranza del Prc” su quei terreni che favoriscono il protagonismo dei Settori più combattivi del partito e che più la mettono in relazione con le dinamiche reali del conflitto sociale.
Solo se con la nostra azione sapremo far emergere quella voglia di protagonismo che c’è nella base del Prc facendo saltare le cappe burocratiche, la svolta a sinistra può realizzarsi e il partito ancora virtuale che è stato approvato a Chianciano diventerà un partito reale che può trasformare l’intero quadro politico nel nostro paese.
Perché noi a differenza di altri compagni della maggioranza (soprattutto i grassiani si distinguono in questo), non ripetiamo ad ogni piè sospinto, che la crisi può portare al nazismo e alla guerra come negli anni ’30.
Perché la crisi può avere un altro sbocco, un’uscita a sinistra con l’insorgere di nuovi sconvolgimenti rivoluzionari come per altro è accaduto anche in quegli anni (si pensi alla Francia e alla Spagna).
Oggi come allora la questione decisiva è il ruolo delle forze organizzate della sinistra e del movimento operaio, per aprire la strada al socialismo (non abbiamo paura di usare questa parola) e liberare l’umanità dalle catene di un sistema decadente qual è il capitalismo.
Spetta ai comunisti rimboccarsi le maniche. Al lavoro e alla lotta compagni per rivoltare il partito e con esso l’intera società.
La vecchia talpa scava ancora.
Vedi anche: