Con l’approvazione al Senato del disegno di legge 1167-B, il Governo consente al padronato italiano di compiere un salto di qualità nello smantellamento dei diritti dei lavoratori: più che una controriforma, è una vera e propria controrivoluzione.
L’attacco questa volta prende le forme di un lunghissimo testo che, tanto per confondere le idee, comprende un’accozzaglia disorganizzata delle più disparate materie. È ovvio, però, che il cuore del disegno è costituito dalle norme in tema di lavoro.
Molta enfasi è stata data, sulla stampa di sinistra e su internet, all’ennesimo tentativo di cancellare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, questa volta non con una abolizione diretta ma con un sistema di regole che tendono ad aggirare ed eludere la tutela. Si tratta di un fatto gravissimo che, per fortuna, ha suscitato l’indignazione e la protesta di centinaia di migliaia di persone in pochissimi giorni. Tuttavia, come si vedrà, quella all’art. 18 non è l’unica, e forse neppure la più pericolosa delle minacce contenute nel testo di legge.
Contratti certificati e clausole compromissorie: il delitto perfetto
Si comincia con un richiamo alla magistratura, a cui si comanda di non impicciarsi del merito delle scelte imprenditoriali in tema di “instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso”, limitandosi a un controllo puramente formale. Insomma, in tutte le vicende che interessano un rapporto di lavoro, dalla sua nascita alla sua cessazione, il datore di lavoro è… padrone.
Ma è solo un piccolo antipasto. Il padronato punta al bersaglio grosso: eliminare del tutto, o almeno ridurre, la possibilità stessa dei lavoratori di rivolgersi a un Tribunale per ottenere giustizia. Per questo motivo viene potenziato e incentivato lo strumento, già peraltro previsto dalla “legge Biagi”, della “certificazione” del contratto.
In pratica, si consente alle parti (cioè al datore di lavoro, che è l’unico ad avervi interesse – e che interesse!) di inserire nel contratto individuale, al momento dell’assunzione, una “clausola compromissoria” in base alla quale ogni eventuale controversia inerente il rapporto di lavoro verrà giudicata e decisa da arbitri privati invece che da un giudice.
Nelle intenzioni, questa clausola è vincolante per il lavoratore, che quindi non potrà più rivolgersi a un giudice, se viene pattuita tramite la procedura di certificazione di fronte alla Direzione Provinciale del Lavoro (cioè la sede territoriale del Ministero del Lavoro).
La differenza, a tutto svantaggio dei lavoratori, è colossale: innanzitutto, l’arbitrato è costoso e le spese dovranno essere anticipate per metà da ciascuna delle parti. Ne seguirà che in molti casi il lavoratore rinunzierà preventivamente a far valere i propri diritti, non potendosi permettere di pagare o quantomeno non volendo rischiare di perdere del denaro in caso di mancato successo. Il giudizio ordinario in Tribunale, al contrario, è gratuito e spesso, per prassi, il lavoratore che perde la causa non viene condannato a pagare le spese legali del datore di lavoro.
Inoltre, in caso di pronuncia sfavorevole sono estremamente ridotte le possibilità di impugnazione: la tutela del lavoratore viene anche per questo verso fortemente indebolita.
Infine gli arbitri potranno anche decidere “secondo equità”, e quindi senza necessità di seguire se non “i principi generali dell’ordinamento”: anche quando daranno ragione al lavoratore, dunque, potranno scegliere di attenuare le sanzioni in deroga alle norme di legge. Vero è che la richiesta di decidere secondo equità dovrà essere fatta da entrambe le parti, ma è evidente che il più delle volte la parte debole, il lavoratore, sarà disposto a firmare qualsiasi clausola pur di ottenere il posto di lavoro.
Tra le pieghe di questo complicato meccanismo si nasconde l’attacco all’art. 18. Gli arbitri chiamati a decidere su un licenziamento intimato da un’azienda con più di 15 dipendenti, infatti, potranno decidere, secondo “equità”(!), di non condannare il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore licenziato illegittimamente, ma soltanto a pagare un risarcimento più o meno modesto.
Sempre più precari
Ma, come si diceva, l’art. 18, e quindi la tutela dei lavoratori a tempo indeterminato, non è l’unico bersaglio del Governo: il padronato non ha perso occasione per colpire gravemente anche i precari.
Vengono infatti introdotte tutta una serie di rigide scadenze (previste anche per l’impugnazione dei licenziamenti) per chiunque voglia far valere in giudizio l’illegittimità di contratti a termine, interinali (in somministrazione) e a progetto fasulli. Lo stesso vale nei casi di trasferimento di azienda e di appalti illegittimi.
Ecco quindi che alla scadenza di un contratto il lavoratore precario dovrà scegliere se fare causa all’azienda in tempi brevissimi, bruciandosi così ogni speranza di rinnovo, o sperare nel rinnovo rinunciando così per sempre alla possibilità di fare causa. È facile prevedere che questa novità sarà utilizzata dalle imprese come un ulteriore strumento di ricatto e di oppressione.
Dulcis in fundo, viene introdotto per la prima volta un tetto massimo (fino a un anno di salario) al risarcimento che potrà essere ottenuto dal lavoratore nel caso in cui il contratto precario dovesse essere giudicato illegittimo.
Tanto per non farsi mancare niente, le nuove regole, una volta entrate in vigore, si applicheranno anche ai contratti in corso di esecuzione e perfino – quelle in tema di risarcimento – alle cause già pendenti, col risultato che anche chi avesse ottenuto, dopo la sentenza di primo grado o di appello, un risarcimento superiore a un anno di stipendio sarà condannato a restituire la differenza.
La vendetta di Atesia
Dopo le numerose leggi ad personam, il Governo inaugura anche la legge – ci si perdoni il neo-latinismo – ad aziendam.
Non c’è altro modo per interpretare la norma che chiude l’intero disegno di legge e che appare ritagliata su misura per la controversia che oppone una cinquantina di lavoratori alla famigerata Atesia (oggi ribattezzata Almaviva).
Un po’ di storia (che per fortuna conosciamo meglio del latino): nell’estate 2006 Atesia, allora il call-center più grande d’Europa con oltre 3.500 operatori, tutti co.co.pro., venne condannata ad assumere con contratto a tempo indeterminato tutti i lavoratori e a versare tutte le differenze retributive e contributive, oltre che a pagare una maxi multa per le numerose irregolarità. Con la (colpevole) complicità dei sindacati, venne raggiunto un accordo in base al quale gli addetti sarebbero stati assunti a tempo indeterminato con contratti part-time, orari flessibili e uno stipendio da fame, a condizione che rinunziassero a ogni diritto sul pregresso.
Circa 50 lavoratori decisero di rifiutare l’assunzione a quelle condizioni e di rivolgersi al tribunale per ottenere tutti i diritti che spettavano loro. La sentenza, favorevole, di primo grado è stata confermata in appello, e adesso pende il giudizio in Cassazione.
Ebbene, l’art. 50 del ddl 1.167 prevede che, nel caso in cui un contratto a progetto sia dichiarato illegittimo, il datore di lavoro che abbia offerto in passato l’assunzione, a qualsiasi condizione, è tenuto soltanto a pagare un risarcimento tra 2,5 e 6 mensilità di retribuzione, e non più a reintegrare i lavoratori. La norma si applica anche ai giudizi in corso, compreso ovviamente (e principalmente) quello dei lavoratori ex-Atesia, che vedranno così cancellate di colpo le fatiche e i diritti ottenuti in tre anni di lotte.
In questi giorni si susseguono una serie di interventi critici sul ddl 1.167, specialmente dagli addetti ai lavori. Da più parti (anche il professor Alleva dalle colonne di Liberazione) si invoca un referendum che abolisca alla radice l’istituto della certificazione, e si invita a chiedere l’intervento della Corte Costituzionale in sede di prima applicazione delle nuove norme. Il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero e la responsabile lavoro Roberta Fantozzi hanno addirittura condotto uno sciopero della fame.
Ora, per quanto le norme siano certamente incostituzionali, altrettanto sicuramente non può essere un referendum, o l’intervento della Corte Costituzionale, né tantomeno uno sciopero della fame la via maestra da seguire per bloccare questa controriforma. Si tratta di armi quantomeno spuntate di fronte a un padronato che ha lanciato un’offensiva senza precedenti: come affrontare un carro armato con un bastone.
Non è sufficiente neppure qualche
comunicato stampa o dichiarare in fretta e furia che lo sciopero già proclamato
di 4 ore del 12 marzo lanciato dalla Cgil è “anche” per l’articolo 18. La Cgil
è tuttavia l’unico sindacato, oltre alle sigle di base, a criticare nettamente
la riforma:
Cisl e Uil (e Ugl) hanno dato invece un giudizio tendenzialmente favorevole,
forse anche in vista delle laute “mance” che otterranno all’interno dei collegi
arbitrali.
L’unico modo per bloccare questa offensiva è attraverso il conflitto a tutto campo, organizzando una risposta all’altezza della situazione e mobilitando tutta la classe lavoratrice di questo paese.
* Avvocato del lavoro