E' stata pubblicata l'inchiesta "
Voci e volti del welfare invisibile",
ricerca condotta da Rifondazione Comunista, CNCA, Fish e Libera tra
2789 operatori sociali, educatori, assistenti sociali, pedagogisti.
L'85% del campione preso in considerazione lavora in cooperative o associazioni private, il 12% nella Pubblica Amministrazione o nella sanità.
Secondo le ultime stime ISFOL i servizi legati al welfare e all'assistenza impiegano circa 700.000 operatori nei servizi territoriali, che salgono a due milioni includendo badanti e altre figure analoghe.
Il 44% del campione ha meno di 36 anni, è fortemente motivato e sceglie di investire in un lavoro in cui vede una possibilità per cambiare alcuni degli aspetti più ingiusti della società.
Il 32% tra i lavoratori del privato sociale ha meno di 5 anni di anzianità nel settore, contro appena il 6% tra i dipendenti pubblici.
Questo dato ci da un'idea della crescita vertiginosa conosciuta dal Terzo settore negli ultimi anni, e dobbiamo leggerlo non solo come un ampliamento della sfera dei servizi, ma sopratutto come una crescita esponenziale delle esternalizzazioni e del passaggio di mansioni da dipendenti degli enti a lavoratori di coopertative.
Queste informazioni vanno incrociate con quelle relative alla disparità di diritti e retribuzioni: il 74% dei lavoratori pubblici percepisce almeno 1200 euro (che non è certo una grande cifra), mentre l'84% degli operatori del Terzo settore guadagna una somma tra 500 e 1200 euro.
L'80% dei lavoratori del privato sociale non raggiunge i 1200 euro lavorando full-time, cioè 38 ore alla settimana.
Le ragioni elencate nell'inchiesta sono molteplici e tutte vere: sistematica contrazione della spesa sociale da parte di Comuni e Aziende sanitarie, precarizzazione, bandi al ribasso, pagamenti in ritardo.
Manca quella che ha l'impatto più immediato sui lavoratori, ossia una serie di contratti nazionali che tutti hanno accettato e firmato (sindacati, datori di lavoro, enti pubblici) e che sono la "presa d'atto" dei tagli alla spesa sociale e che hanno giustificato l'aumento della precarietà, salari deboli e un quadro di diritti molto lontano da quello già carente del pubblico. Una situazione che non può che incentivare esternalizzazioni e politiche di dumping.
Come vedremo, i datori di lavoro hanno condiviso nei fatti, anche se non a parole, questa strategia, come è successo con l'ultimo ccnl delle cooperative sociali, rinnovato con tre anni di ritardo.
Il 69% degli intervistati afferma che i diritti dei lavoratori non sono mai rispettati o lo sono solo in alcune realtà.
La responsabilità di questa situazione è attribuita per il 36% alle istituzioni, per il 17% alle cooperative e per il 39% ad entrambi. Abbiamo degli operatori che sanno individuare bene i responsabili della loro situazione lavorativa anche se, come vedremo più avanti, il questionario non aiuta a capire come ci si dovrebbe battere per invertire il contesto.
Le informazioni che possediamo ci permettono di inquadrare la situazione nei vari territori. Se prendiamo per esempio l'Italia centrale, dove 3 regioni su 4 sono storicamente e da lungo periodo amministrate dal centro- sinistra, scopriamo che la fascia dei lavoratori con una retribuzione tra gli 800 e i 1000 euro passa dal 23% (dato nazionale) al 34%.
Siamo di fronte a un livellamento verso il basso delle retribuzioni, mentre il 61% degli intervistati esprime poca o nessuna soddisfazione per la propria condizione contrattuale, contro il 49% registrato nel settentrione.
Sempre il 61% dei lavoratori afferma di essere poco o per nulla coinvolto nell'associazione o nella cooperativa di cui fa parte, contro il 53% registrato a livello nazionale.
Questi dati possono essere spiegati dalle dinamiche di sviluppo del Terzo settore in un'insieme di regioni dove i servizi alla persona hanno conosciuto una crescita esplosiva a partire dagli anni '90, seguendo poi le forme di sussidiarietà codificate dalla legge 328/2000.
Si può dire che il welfare di queste regioni -almeno in buona parte- nasce direttamente gestito dal privato, una situazione diversa da quella dell'Italia del nord, dove esiste un'esperienza di servizi sociali progressivamente lievitati ed esternalizzati.
Motivazione e sfruttamento: come funziona il privato sociale.
La motivazione ha un peso significativo nella scelta di chi decide di fare un lavoro che pone direttamente a contatto con quelle fasce di popolazione che il sistema respinge nel rango dell'anormalità.
E' impossibile descrivere la casistica dei marginali, ma in una società che per accettare richiede capacità di adattamento, aspetto fisico e produttività, i più fragili vengono messi ai margini e marchiati a vita. Chi si occupa di disabilità, devianza, anziani, dipendenze o disturbi psichiatrici è cosciente di avere a che fare con le vittime di un sistema ingiusto. Spesso il lavoro dell'operatore sociale è quello di chi - non trovando risposte nella politica- cerca di cambiare la società cercando di guarirne le ferite più evidenti.
Nel corso degli anni '70 la lotta di classe e la volontà di cambiamento di giovani e lavoratori ha portato a mettere in discussione le forme repressive, privatistiche e clientelari con cui fino ad allora era stata gestita l'assistenza sociale.I rapporti di forza nella società portarono a riforme come la nascita del Servizio sanitario nazionale (1978) o la legge 180/78, la cosiddetta Legge Basaglia, che impose la chiusura dei manicomi.
Lo stato borghese non poteva fare altro che accettare queste leggi. Ha fatto però di tutto per lasciarle sulla carta, boicottandole dall'interno e rimangiandosele gradualmente. Una parte della storia del Terzo settore nasce qui.
Migliaia di giovani provenienti dal mondo cattolico hanno toccato con mano l'impermeabilità dello stato al cambiamento, mentre altri sono rimasti delusi dai partiti di sinistra, incapaci di mettere in discussione il sistema.
Tante cooperative nascono dalla volontà di attuare dal basso cambiamenti che le istituzioni non vogliono praticare, rivolgendosi alle forme di marginalità prodotte dalla chiusura dei manicomi o dalla tossicodipendenza.
Ma il clima sociale cambia e le associazioni non possono rimanere sul mercato e fornire servizi senza essere coinvolte nelle dinamiche del sistema che gradualmente trasformano il DNA del Terzo settore. Le cooperative, da strumenti di analisi e di contestazione della società si trasformano nel loro contrario, diventano imprese come tutte le altre. Anzi, peggiori delle altre, perchè ammantano la loro natura con la demagogia sociale.
Nel corso degli anni '90 i dirigenti più intelligenti del Terzo settore hanno capito che la cooperazione sociale può diventare la gallina dalle uova d'oro che permetterà agli enti locali di risparmiare sui servizi sociali senza rinunciare ad alti standard qualitativi basati sulla buona fede e sul volontarismo degli operatori.Se parliamo di "welfare sommerso" non possiamo prescindere da questa storia.
Secondo l'inchiesta, il 45% dei lavoratori ha scelto questo lavoro perchè stimolante, il 26% perchè rappresenta una spinta ideale al cambiamento sociale e politico, nonostante la condizione sul terreno salariale e dei diritti sia evidentemente sfavorevole.
Nell'analisi che emerge dalle risposte date si suggerisce l'idea che gli operatori che non si sentono partecipi della loro realtà lavorativa siano quelli non soci delle proprie strutture. Qui arriviamo al primo dei tanti equivoci in cui si cade quando si parla di Terzo settore.
In una parte significativa delle cooperative l'associazione non è facoltativa. E' obbligatoria.
Questo vuol dire che per lavorare in una impresa bisogna pagare una quota, e significa che in qualunque momento l'impresa potrà ricapitalizzare richiedendo un aumento del contributo ai soci.
Qualcuno potrà obiettare che in una cooperativa il voto dei soci su ogni decisione è obbligatorio, a partire dall'approvazione del bilancio.
Innanzitutto è doveroso ricordare che una cosa è il controllo quotidiano sull'operato dei dirigenti, altro è il voto una volta all'anno su un bilancio e su voci di cui non si conosce neppure l'esistenza, di fronte a dirigenti da cui dipende il tuo posto di lavoro, in un contesto in cui la legge 30 ha reso l'articolo 18 non applicabile ai soci lavoratori.
In secondo luogo, il "controllo dal basso" è un metodo che non può funzionare a lungo se non viene messo in discussione il sistema delle tariffe e degli appalti che ha trasformato la parte più significativa del terzo settore in un intermediario di manodopera a favore degli enti locali.
Infine, se è vero che il margine di profitto in molti casi è minimo, ad essere decisivo nelle politiche del privato sociale non è solo il classico utile capitalistico a favore del dirigente della cooperativa ma anche il suo progressivo inserimento nelle logiche di potere locale e nelle cordate politiche.
Lavoratori come tutti gli altri?
L'altro aspetto sconcertante è l'approccio completamente asindacale e aconflittuale alle vicende dei lavoratori del privato sociale.
Negli interventi allegati all'inchiesta si suggerisce che un'alleanza operatori- cooperative- enti locali possa invertire la logica di tagli ed esternalizzazioni che ha contraddistinto le politiche del welfare dell'ultimo ventennio.
L'azione conflittuale dei lavoratori nei confronti del loro datore di lavoro non è mai presa in considerazione, tanto nelle domande del questionario quanto nell'analisi.
Queste posizioni non possono che generare confusione fra i lavoratori e far pensare ai più avanzati (tra cui molti delegati sindacali) che in qualche modo "copriamo" le politiche di un settore padronale.
Va fatta chiarezza su come vanno suddivise le responsabilità delle condizioni dei lavoratori (e quindi anche dei beneficiari dei servizi).
Durante questi vent'anni istituzioni locali, governi, cooperative e direzioni sindacali hanno collaborato nella creazione di un welfare sostenbile, sussidiario, privatistico e vincolato dal patto di stabilità.
L'ultimo rinnovo contrattuale della maggior parte dei lavoratori del settore non solo ha visto un ritardo di 3 anni, ma i sindacati hanno anche accettato un aumento salariale suddiviso in 3 tranches, l'ultima delle quali erogata appena un mese prima della scadenza del contratto stesso. Contro i 3.000 euro che gli sarebbero spettati, ogni lavoratore ha ricevuto un "forfait" di appena 200 euro per mancato rinnovo contrattuale.
Questo è solo un piccolo esempio. Senza grandi voli di fantasia, possiamo immaginare quale utile abbia rappresentato questa cifra per centinaia di cooperative. Molte, grazie a questo ritardo, potranno dire di aver "respirato". Senza timore di esagerare, possiamo dire che hanno pagato tutto i dipendenti, nel solco della migliore tradizione mutualistica. Le centrali cooperative piangono miseria e si lamentano per le condizioni dei propri soci lavoratori. Legacoop è così contrita che è corsa a firmare l'accordo separato.
Il terzo settore è antiliberista ed è la nuova frontiera della democrazia partecipata?
Poche settimane fa l'arresto del direttore della cooperativa sociale Agorà di Arezzo, una delle più importanti dell'Italia centrale, ha gettato un fascio di luce sul concentrato di interessi capitalistici nel privato sociale.
Questa inchiesta ci racconta non solo di appalti pilotati per oltre un milione di euro, ma di mazzette a politici di Pd e Udc in cambio di favori, un sistema che si era esteso fino a toccare dirigenti delle Ausl.
Il terzo settore chiede ai propri dipendenti di alzare la voce nei confronti delle istituzioni? È paradossale, per chi ha i propri dirigenti sparsi tra parlamento ed giunte locali.
Dopo le ultime elezioni l'ex vicepresidente del CNCA (Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza, una delle associazioni che hanno promosso l'inchiesta) è entrata nella giunta regionale dell'Emilia-Romagna come assessore alle politiche sociali. Il mondo del privato sociale ha addentellati politici abbondanti e trasversali, senza i quali non sarebbe diventato un settore così importante dell'economia italiana.
Il capitalismo che ha fagocitato anche le esperienze più avanzate del mutualismo operaio non ha risparmiato le ONLUS, ne ha scardinate la democrazia e la partecipazione. Niente può impedire che il dirigente di una cooperativa si trasformi in un manager come tanti altri. L'essere sociale determina la coscienza e il modo di agire. A contatto con il mercato, per sopravvivere bisogna farne proprie le logiche.
Bisogna essere coscienti che neanche i servizi pubblici così come sono possono garantire un welfare decente e universale. Possiamo e dobbiamo mettere all'ordine del giorno la parità contrattuale, la reinternalizzazione dei servizi, la lotta al Libro Bianco di Sacconi e al suo modello di welfare privatistico ed escludente. Ma prima di fare questo, per coerenza, dobbiamo smettere di mistificare il ruolo padronale e privatizzante del Terzo settore.