Tra rivoluzione e restaurazione
Si avvicina il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, quel 9 novembre 1989 oggi celebrato da destra a… Sinistra e Libertà (ricordiamo la polemica sulla tessera dei Giovani comunisti voluta dai compagni che successivamente uscirono da Rifondazione, che immagine copiata tra l’altro dalla tessera dei loro attuali compagni di viaggio socialisti) come un evento di liberazione e di pace, vedendo quest’evento non come il fallimento dello stalinismo e di un sistema burocratico, ma come la sconfitta delle idee di emancipazione e di uguaglianza, insomma, del comunismo.
Una visione che non tiene conto di ciò che ha rappresentato il 1989, le potenzialità e le posizioni espresse anche da una parte significativa dei movimenti, come i casi di Berlino Est e di piazza Tien-an-men dimostrano: analizzare ciò che è successo realmente in quei giorni, e trarne delle lezioni è il nostro compito come militanti comunisti.
Lo stalinismo reale della Ddr
Nel 1989 la Ddr era uno dei paesi più stalinisti del Patto di Varsavia, con atti come l’approvazione unanime da parte della Volkskammer di una mozione di appoggio alla repressione di piazza Tien-an-men, le critiche verso Gorbaciov e l’auspicio affinchè “l’Urss tornasse in sé” (parole di Erich Honecker, allora ancora segretario del Comitato Centrale della Sed, il Partito Socialista Unito della Ddr), ovvero di un’affermazione dell’ala dura della burocrazia di Mosca.
Un sistema oppressivo e in decadenza, come dimostrato dalla “crisi del caffè” già alla fine dagli anni ’70, quando il Politburo tedesco fu costretto a ritirare dal commercio vari marchi di moka per sostituirli con miscele più economiche, e che non riuscì più a garantire, da quel periodo, uno sviluppo adeguato delle forze produttive, come pure fino a quel tempo era riuscito a fare (ad esempio, la Ddr era all’avanguardia nello sviluppo di microchip).
Il cosiddetto “socialismo dei consumi”, lanciato agli inizi degli anni ’70 con l’intenzione di sviluppare il tenore di vita della classe operaia, se da un lato riuscì a garantire prezzi bloccati e estremamente bassi per i beni di consumo e le abitazioni (lo Stato si assumeva l’80% delle spese in questi settori), dall’altro andò incontro a forti difficoltà nella produzione, finendo per dover importare gran parte delle tecnologie e dei beni.
Vanno ricordate le conquiste sociali prodotte dalla pianificazione economica, come l’alta presenza di donne nel mondo del lavoro (il 90 per cento!) con salari pari a quelli maschili, un anno di maternità a salario pieno, una rete di asili, mense e scuole senza precedenti, un livello d’istruzione (soprattutto in campo scientifico) che rendevano di fatto la Ddr uno dei paesi-leader nello sviluppo della cultura e delle istituzioni scolastiche. La casa era di proprietà statale, si pagava un affitto minimo ed era un diritto di ogni studente e lavoratore, con la possibilità quindi di potersi costruire un avvenire già al compimento della maggiore età.
La stagnazione economica che colpì però la Germania Orientale dalla metà degli anni ‘80 era la conseguenza diretta, come negli altri paesi del blocco sovietico, della mancanza di una democrazia operaia e realmente socialista e della presenza di una burocrazia sempre più oppressiva; vero e proprio freno per la società e la classe operaia. Burocrazie, che nel caso dell’Europa Orientale, erano più “realiste del re”, nel timore di un nuovo 1956, una rivoluzione politica sul modello di quella ungherese. Erich Honecker sostenne nell’ottobre 1989, poco prima del quarantesimo anniversario della Ddr, che dall’esperienza di Pechino si dovevano trarre utili lezioni su come schiacciare i “controrivoluzionari”.
Berlino 1953 e il muro: da che parte era la rivoluzione?
I “controrivoluzionari” a cui si riferiva il segretario della Sed erano in realtà già stati schiacciati 36 anni prima, quando i dirigenti tedesco-orientali inviarono i carri armati sovietici a reprimere nel sangue la rivolta degli operai edili scoppiata il 17 giugno del 1953, che arrivò a bloccare l’intero paese con oltre 600 fabbriche e mezzo milione di lavoratori in sciopero. Quei lavoratori, calunniati dalla stampa delle burocrazie staliniste a est e ovest della Cortina di Ferro come “fascisti”, rivendicavano la riduzione della giornata lavorativa, prezzi calmierati, e la formazione di “un governo provvisorio composto da operai rivoluzionari”, come telegrafato dal comitato di sciopero di Bitterfeld al Comitato centrale della Sed.
La morte di Stalin non aveva cambiato (come sperimenteranno da lì a poco anche le masse ungheresi) la particolare concezione di “socialismo” della burocrazia: la repressione per chi rivendicava la democrazia operaia, i privilegi per chi la affossava.
Eppure la nascita della Ddr aveva rappresentato una speranza per centinaia di migliaia di lavoratori e di perseguitati politici all’indomani della sconfitta nazista e dell’arrivo in Germania dell’Armata Rossa: alla fuga dei gerarchi hitleriani, dei padroni impauriti dal “pericolo rosso” e dal risveglio popolare, fece seguito un afflusso di non pochi tedeschi intenzionati a “costruire il socialismo”, tra cui intellettuali come Bertolt Brecht, che vedevano nella Ddr l’unico strumento affinchè non si ripetesse la barbarie della guerra e dello sterminio etnico. Un entusiasmo che però nel corso degli anni sarebbe stato duramente colpito dalla repressione della Stasi, dal clima di conformismo ideologico e di progressiva e continua burocratizzazione di ogni aspetto della vita quotidiana. In Germania Est, così come negli altri paesi del Patto di Varsavia, non erano andati al potere i consigli operai e le masse, ma regimi a immagine e somiglianza della burocrazia staliniana vittoriosa: non c’era stato un ottobre 1917 o una riedizione della rivoluzione tedesca del 1919 a Berlino, ma l’ascesa di un vertice formato e diretto da Mosca, fedele a Stalin e alla sua politica.
La costruzione del muro nel 1961, definito dalla propaganda della Sed come il “Vallo di difesa antifascista”, divise Berlino in due nel tentativo a fermare le emigrazioni verso ovest, ormai arrivate a contare i tre milioni e mezzo. Yuri Andropov, allora responsabile delle relazioni con i partiti comunisti del blocco sovietico, scrisse in una lettera del 28 agosto 1958 indirizzata al CC del Pcus di come il 50 per cento delle defezioni a ovest fosse costituito da quadri tecnici e intellettuali. La stessa Sed, sulla propria stampa, denunciava implicitamente la fuga verso ovest descrivendola come “un atto di immoralità depravata”.
Per far capire la differenza tra un regime di autentica democrazia proletaria e ciò che era il cosiddetto “socialismo reale”, si consideri che uno dei primi atti dei bolscevichi all’indomani della rivoluzione d’Ottobre fu l’abolizione dei passaporti interni, per permettere la libera circolazione e impedire il controllo coercitivo sulla popolazione, tipico dello zarismo: non a caso, nel 1932 fu Stalin a reintrodurre il sistema dei passaporti, per controllare le migrazioni verso le città causate della collettivizzazione forzata dell’agricoltura, e a rafforzare gli apparati repressivi attraverso la registrazione obbligatoria nelle zone di residenza. Un sistema simile fu poi esteso negli stati dell’Europa Orientale e di cui il muro fu l’espressione in cemento armato.
L’economia pianificata senza democrazia operaia è come un corpo umano senza ossigeno, amava ripetere Trotskij nelle sue analisi sulla degenerazione in Urss: questa frase può spiegare anche perché, dopo i progressi realizzati dalla Ddr in alcuni settori, dalla metà degli anni ’80 la crescita del debito estero e il venir meno del sostegno economico di Mosca portarono il sistema allo stallo.
“Noi siamo il popolo!” La rivoluzione deragliata
Il 1989 rappresenta per lo stalinismo l’anno dell’inizio della fine: da Varsavia a Pechino, da Vorkuta a Bucarest proteste di massa scuotono fin nelle fondamenta le burocrazie, che vedono il pericolo potenziale espresso dalle masse con gli avvenimenti di Tien-an-men, dove, nonostante le rappresentazioni di comodo, gli studenti e i lavoratori nella piazza cantavano quel noto “inno capitalista” che è l’Internazionale.
Il 4 settembre di quell’anno a Lipsia si radunano i primi manifestanti al grido Wir sind das Volk! (Noi siamo il popolo) uno slogan forse ripreso dai versi di Brecht e volto a ricordare a Honecker e ai dirigenti della Sed che non potevano scegliersene un altro, di popolo. Le manifestazioni, convocate puntualmente ogni lunedì, crescono fino a raccogliere oltre 300.000 partecipanti nella sola Lipsia, città che all’epoca contava 500.000 abitanti. Le proteste dilagano in tutta la Ddr, in concomitanza con i 40 anni dalla fondazione della repubblica. Il 7 ottobre a Berlino una grande manifestazione viene repressa, ma causerà la deposizione di Honecker e la sua sostituzione con Egon Krenz, esponente dell’ala “riformista” della Sed. I principali servizi pubblici e le più importanti fabbriche dal 18 ottobre 1989 erano paralizzate dalle manifestazioni, ormai arrivate a coinvolgere la gran parte della popolazione.
Il tentativo “gorbacioviano” della Sed non riuscì a fermare la marea montante delle proteste, con la confusione e la divisione sempre più protagoniste nella politica della burocrazia, come dimostrato dall’annuncio del 9 novembre, quando il responsabile propaganda della Sed, Gunter Schabowski, illustrando le nuove norme per i viaggi verso la Germania Occidentale, disse che erano in vigore da subito (invece originariamente erano previste dal 17 novembre in poi): dopo l’annuncio, centinaia di migliaia di berlinesi si riversarono verso i varchi, cominciando così la demolizione del muro.
La piattaforma politica dei principali movimenti sorti nel 1989 nella Ddr provava, sebbene in modo confuso e astratto, a orientarsi verso un’opzione comunque socialista e non di ritorno al capitalismo: lo slogan “Noi siamo il popolo” (e non, come poi sostenuto, “Noi siamo un popolo”) rifletteva queste aspirazioni. Non era raro leggere nei volantini distribuiti durante le grandi manifestazioni rivendicazioni quali la libertà di stampa, d’assemblea e di parola unite a parole d’ordine come la costituzione di consigli (räte) operai eleggibili e revocabili, il controllo di questi consigli sulla pianificazione economica, la gestione delle fabbriche da parte dei lavoratori e il potenziamento dello stato sociale.
Questo stato d’animo sarà poi sintetizzato dall’inchiesta condotta dal 1991 al 2000 dal Centro per l’Educazione Politica del governo federale tedesco, dove all’affermazione “il socialismo è fondamentalmente una buona idea applicata male”, già nel 1991 il 76% degli intervistati provenienti dai lander dell’Est erano d’accordo (percentuale poi mantenutasi nel tempo).
La sconfitta dell’opzione “socialista” fu dovuta essenzialmente da tre fattori, il primo, la situazione internazionale di crollo completo e tradimento delle idee rivoluzionarie, con la vittoria degli schieramenti pro-capitalistici dalla Polonia all’Ungheria; il secondo, l’azione di propaganda e vero e proprio “acquisto” compiuta dal governo della Germania Federale guidato da Helmut Kohl con un investimento cospicuo in denaro; e terzo (ma non ultimo) la mancanza di un’organizzazione in grado di riuscire a convogliare le migliori posizioni e i migliori elementi di sinistra messi in campo dal movimento e da quella parte consistente della base della Sed disposta a un socialismo veramente democratico.
Il movimento infatti si spaccò in varie strutture, con leader contesi dai principali partiti borghesi dell’Ovest (dai liberali dell’Fdp ai Verdi), senza fornire una chiara prospettiva politica e facendosi così fagocitare dalla parola d’ordine “Un Popolo, Uno Stato”, mentre la direzione della Sed, che nel dicembre 1989 aveva adottato il nome di Pds (Partito del socialismo democratico), preferì consegnare il potere a Kohl piuttosto di vedere una genuina rivoluzione politica.
Fino al 9 novembre 1989 l’unificazione non era la prospettiva né la parola d’ordine delle piazze di Berlino, Lipsia e Karl-Marx-Stadt (Chemnitz), ma nemmeno del governo della Germania Federale: Helmut Kohl in una telefonata con Gorbaciov dell’11 ottobre rassicurava sulle sue intenzioni di rispettare il percorso “riformista” della Ddr.
Così, il potenziale rivoluzionario fu deragliato verso un programma di restaurazione sociale che costò non poco al popolo tedesco: privatizzazioni selvagge, licenziamenti di massa, addirittura il ritorno dei vecchi padroni (di cui non pochi nazisti mai pentiti) venuti a reclamare le proprietà nazionalizzate nel 1945!
Lo stalinismo: ieri come tragedia, oggi come farsa
La “libertà” inaugurata dal crollo del muro e poi affermatasi con la dissoluzione dell’Urss, è costata un milione di morti in Europa Orientale, provocati dalla “libertà” di privatizzare tutto il possibile, di vedersi la casa in cui si è vissuti per una vita acquistata e venduta al migliore offerente, di essere costretti a emigrare verso l’Occidente, o a ricevere salari da fame. Questi dati, forniti dalla rivista medica americana Lancet a inizio 2009, sono la registrazione di cosa vuol dire l’orrore del capitalismo reale.
Di fronte a questo, però, non possiamo riproporre una glorificazione o giustificazione delle supposte “meraviglie” dello stalinismo reale, come si comincia a fare, più o meno apertamente, nel dibattito a sinistra in Italia, come si è visto nella polemica sulla tessera dei Giovani comunisti del 2009.
Sappiamo bene che un decennio e più di “innovazioni” bertinottiane ha contribuito a creare una reazione positiva verso lo stalinismo che viene visto da molti giovani come sinonimo di “organizzazione”, “rivoluzione”, “antifascismo”, “militanza”. Non è l’ultima delle responsabilità del vecchio gruppo dirigente del Prc, né la meno grave. Questo sentimento che spesso ha costituito una reazione quasi istintiva alle teorie e soprattutto alle pratiche liquidazioniste del gruppo dirigente bertinottiano, viene oggi cavalcato da dirigenti e intellettuali che, e qui sta il grottesco, mentre celebrano le glorie di ieri, vere o presunte, se ne servono essenzialmente per giustificare politiche ipermoderate per l’oggi: dagli accordi a tutto campo con il Pd, fino alle recentissime aperture ai compagni di Sinistra e Libertà.
Da parte nostra riteniamo più che mai indispensabile che in Rifondazione comunista si riapra una seria discussione su questi temi, una discussione aperta e anche polemica che restituisca a tutti i nostri militanti e soprattutto ai più giovani, la possibilità di conoscere seriamente e a fondo la storia più autentica del movimento operaio e internazionale, uscendo dalle formule di comodo utili solo all’autodifesa di questo o quel gruppo dirigente.
Posizioni che, per rispondere a una critica tipica della borghesia sull’identificazione del comunismo con lo stalinismo, di fatto ne avallano una visione speculare e opposta, cioè del rivendicare qualsiasi cosa fatta da Stalin, dal patto Molotov-Ribbentrop alla “storicizzazione” dei processi di Mosca. Tesi che vedono nella rivoluzione ungherese del 1956, nelle giornate di Barcellona del 1937 e nella Primavera di Praga non mobilitazioni operaie per un socialismo genuino e basato sulla democrazia proletaria, sulle tradizioni migliori della rivoluzione russa e della Comune di Parigi, ma bensì “complotti fascisti e borghesi”.
Tra chi nel 1989 lottava per conservare un potere burocratico marcio e corrotto fin nelle fondamenta e chi ha riportato la barbarie del capitalismo nell’Europa Orientale e nella Germania Orientale, noi pensiamo sia giusto stare con chi voleva una rivoluzione politica, un socialismo basato sui consigli, sull’eleggibilità e la revocabilità dei delegati, sull’uguaglianza e l’internazionalismo, sull’autentico potere dei lavoratori: in poche parole ci schieriamo con le idee del marxismo rivoluzionario, e la democrazia operaia.