Questo numero di FalceMartello era già quasi ultimato quando è cominciato il massacro a Timor. Inseriamo queste brevi note, con l’impegno a pubblicare materiale più approfondito nei prossimi giorni.
Ancora una volta, ripetendo un copione già visto in Bosnia, Kosovo, Somalia, ecc., si alza sempre più forte il coro dei "paesi civili" di fronte ai massacri perpetrati dalle milizie e dall’esercito indonesiano a Timor Est. Tutti, dal Vaticano all’Onu, da Clinton a D’Alema, lanciano una gara per nascondere che sono i veri responsabili della strage. "Musulmani, anzi intergralisti islamici, contro cattolici", è la spiegazione che la chiesa suggerisce tra le righe. "Scontri incomprensibili di popoli esotici e semibarbari" rispondono i commentatori su stampa e Tv. Ma la realtà è ben diversa.
Nel 1975 Timor est venne occupata dall’esercito di Suharto, che dieci anni prima aveva conquistato il potere con un colpo di Stato massacrando 500mila persone, in gran parte sostenitori del Partito comunista.
All’epoca l’occupazione di Timor est venne vista positivamente dagli Usa per diversi motivi. Il Portogallo, che in precedenza aveva colonizzato Timor, era in piena crisi rivoluzionaria e non poteva garantire un controllo sicuro. Inoltre si temeva che il Fronte di liberazione (Fretilin), che allora adottava una terminologia socialista, potesse prendere il potere e creare una piccola Cuba nella regione.
Così l’Onu e tutti i paesi imperialisti si girarono da un’altra parte mentre 200mila timoresi, su una popolazione di circa un milione, venivano massacrati.
L’unico paese a riconoscere ufficialmente l’occupazione fu l’Australia, che concluse nel 1991 un accordo con l’Indonesia per spartirsi il braccio di mare che separa i due paesi, ricco di petrolio e gas naturale. Tra le compagnie impegnate nelle concessioni figurano Mobil, Bhp, Shell, Boral energy, Marathon e Enterprise. Da parte indonesiana, l’esercito e la famiglia di Suharto erano direttamente coinvolti nello sfruttamento economico della zona (non solo petrolio, ma anche pesca delle perle e legname).
Questo stato di cose, così conveniente per l’imperialismo, è stato rimesso in discussione con la caduta di Suharto nel 1997. Il nuovo regime di Habibie è debole, e l’Indonesia, un arcipelago di 13mila isole dove si parlano 365 lingue diverse, potrebbe avviarsi alla frantumazione. Ancora una volta si pone per l’imperialismo il problema di come controllare Timor e l’intera regione.
In questo contesto l’Onu ha svolto la parte dell’apprendista stregone, sponsorizzando il referendum per l’indipendenza senza preoccuparsi dalle conseguenze.
Altrettanto disastroso il ruolo dei dirigenti del Fretilin, che negli ultimi anni hanno abbandonato la loro retorica "marxista" in favore del libero mercato. Pochi mesi fa il suo dirigente Xanana Gusmao ha criticato i giovani combattenti indipendentisti per aver organizzato una risposta armata alle milizie filoindonesiane e consigliava di stare fermi e fidarsi della comunità internazionale.
Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi in questi giorni: un massacro su larga scala, che in nessun modo si può attribuire a una vendetta spontanea e disorganizzata dei filoindonesiani, ma che costituisce chiaramente la messa in atto di un piano elaborato da tempo: prima i massacri, poi lo stato d’emergenza e l’intervento dell’esercito "per ristabilire l’ordine".
Di fronte a ciò una parte dei paesi imperialisti sta cambiando tattica, e un intervento armato dell’Onu comincia ad apparire un’ipotesi realistica. Non sorprende che a proporsi siano stati in primo luogo il Portogallo (di cui Timor è stata colonia per secoli) e l’Australia, cioè il paese con i maggiori interessi economici nella zona. L’obiettivo fin troppo palese è di arrivare a una nuova e più conveniente spartizione dell’isola e a un controllo diretto non solo economico ma anche militare.
I fatti di Timor confermano una volta di più le tragiche lezioni della Bosnia, del Kosovo, della Somalia… I popoli oppressi che mettono il loro futuro nelle mani dell’Onu e dell’imperialismo troveranno solo una nuova oppressione. Il futuro del popolo timorese, ingannato e abbandonato, può cambiare solo se la lotta per l’autodeterminazione confluirà nel movimento più generale della rivoluzione indonesiana, che con il movimento del 1997 che ha rovesciato Suharto, ha dimostrato il suo enorme potenziale.