“Spalma-debiti” ai padroni del calcio,
“spalma-stipendi” ai lavoratori!
Uno degli argomenti sicuramente più dibattuti nell’ultimo periodo, e su cui tutta la stampa si è spesa con dovizia di particolari, è quello della serie di scandali e crolli finanziari che si è abbattuto sul sistema sportivo in generale e sul calcio in particolare al punto da essere stato oggetto di accese discussioni e divisioni all’interno del governo.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un crescendo di collassi societari, all’emersione di tutto il marciume che per anni si è accumulato attorno allo sport professionistico e non( dal doping, all’influenza degli sponsor, alla violenza negli stadi). Questi aspetti stanno diffondendo un giustificato disgusto fra milioni di appassionati, che però allontano solo relativamente giovani e lavoratori dalla passione per il vero sport. Come marxisti riteniamo che per questi motivi non ci si possa esimere dall’avere un’analisi di classe anche su questo tema e dal dare il proprio contributo alla riflessione di milioni (e miliardi se non limitiamo la platea all’Italia) di onesti appassionati sul perché di questa crisi e su dove va lo sport più complessivamente.
I crolli finanziari
“La borghesia viene spinta a percorrere tutta la superficie terrestre dalla necessità di uno smercio sempre più
largo. Ovunque deve introdursi, ovunque deve impiantarsi, ovunque deve intrecciare relazioni”. Questo scrivevano 150 anni fa Marx ed Engels nel “Manifesto” e quel “ovunque” aveva un significato ben preciso: qualunque campo della cultura, dello sport, della musica, dell’arte in generale, insomma di qualsiasi attività umana tenda a diventare nel capitalismo una fonte di profitti e di strumento di consenso per la classe dominante. Come in qualsiasi altro campo dell’economia, neanche nello sport la borghesia ha fatto uso di una “morale” che non fosse quella del massimo profitto, e per ottenerlo ogni mezzo può essere buono.
Per più di un secolo il calcio è stato per il capitalismo un’arma per distrarre le masse, per incanalare la rabbia di settori del proletariato e della piccola borghesia non nello scontro di classe ma nell’interclassismo dello scontro fra tifoserie, per sostituire i quotidiani politici con quelli sportivi. Il prestigio internazionale di alcuni club o selezioni nazionali faceva da puntello ai regimi della borghesia. Così è stato per l’Argentina negli anni ’70-‘80 , per l’Italia degli anni ’30 o per il Real Madrid sotto il Franchismo. Persino lo strapotere di Coppi-Bartali negli anni ’40-’50 era il simbolo del boom italiano post-guerra.
Già all’epoca l’affluenza negli stadi e la trasmissione per radio delle partite davano spazio e pubblicità agli sponsor. Alcuni imprenditori collegavano la propria immagine a quella vincente della propria squadra. Quando nei paesi capitalistici avanzati la TV è incominciata a diventare uno strumento di comunicazione di massa, le divise sportive hanno incominciato a riempirsi di sponsor, le pubblicità sono lievitate e da ultimo sono sorte come funghi le pay-tv.
Essendo il campionato di calcio una passione di massa, si è creato un giro d’affari attorno queste ultime quale lo sport italiano non ne aveva mai visti. Nel 1980 gli introiti per i diritti televisivi erano pari a due miliardi di vecchie lire, nel 2002 erano schizzati a duemila! Una emittente nelle mani di un magnate come Murdock (Sky) controlla in condizioni di monopolio la serie A garantendo alle squadre una parte rilevante dei loro bilanci.
Dovendo spartirsi il succulento bottino degli introiti televisivi, le squadre hanno accelerato sempre di più le aste per i calciatori più in vista e più di una squadra ha fatto una campagna acquisti eclatante (o l’ha saputa presentare come tale sulla stampa), più possibilità ha di incassare. L’altro elemento per cui competere, ovviamente è il risultato finale. Un buon posizionamento, per non parlare della vittoria, più che gloria garantisce premi e possibilità di accesso a competizioni europee (con conseguenti premi e diritti televisivi). Diventa così un circolo vizioso: le squadre con più tifosi sono quelle che storicamente hanno avuto dei proprietari disponibili ad “investire” (si pensi alla Juventus della famiglia Agnelli) e a far vincere la propria squadra e questo processo fa sì che le stesse squadre abbiano capitali per attirare nuovi campioni.
Il decreto “spalma-debiti”
Una delle leggi del capitalismo è la progressiva concentrazione del capitale e la formazione di monopoli nelle branche dell’economia più sviluppate, con la conseguente polarizzazione fra le imprese: quelle che non reggono la competizione vanno in bancarotta o diventano succursali dei monopoli.
Questo è successo nelle ultime stagioni, quando una serie di società che avevano provato a competere sono affondate come la Fiorentina, nel caso della serie A, come il Cosenza ed altri notevoli casi per le serie minori o si sono trovano sull’orlo del baratro come Roma, Lazio, Parma e tante altre società.
I team indebitati, di fronte all’abisso, hanno chiesto aiuto al governo. Da sempre il capitalismo, posto davanti alle proprie contraddizioni, non ha trovato altro rimedio che perpetuarsi facendo pagare a tutti i lavoratori i propri guasti irrimediabili. Lo Stato borghese sostiene gli imprenditori lasciando loro i profitti e l’amministrazione delle aziende, ma incaricandosi di socializzarne la voragine di debiti e di perdite. Di fatto lo “spalma-debiti”, sotto qualsiasi veste possa passare, è questo.
Pur tentando di commettere questo scippo ai danni della classe lavoratrice, la borghesia non farà che ritardare di poco una nuova crisi del calcio professionistico Sulla base del capitalismo non potremo avere infatti che nuovi indebitamenti causati dalla corsa al profitto e un campionato dominato da 2-3 monopoli, magari con qualche accordo di mercato, e alcune comparse a rotazione, esposte al rischio di fallimenti, alle speculazioni di presidenti senza scrupoli e alla continua rapina di talenti da parte dei club egemoni.
Il calcio in particolare, ma in generale tutto lo sport, per un presidente rampante e senza scrupoli o per uno sponsor, che quasi sempre è una multinazionale, più che un’attività che porta profitti nell’immediato diventa uno strumento per far conoscere la propria immagine nel paese o, in alcuni casi, in tutto il mondo. Un caso su tutti lo dimostra palesemente: la Parmalat, prima che fosse svelato il clamoroso crack economico-finanziario era lo sponsor di ben 8 squadre di calcio che non a caso coincidevano con formazioni più o meno blasonate di paesi dove l’azienda Parmalat aveva forti interessi come il Brasile e l’Argentina. La FIAT stessa è stessa per anni lo sponsor del Boca Junior, squadra molto popolare e con un tifo di massa in Argentina.
Corsa al massacro
L’immagine del giovane calciatore cresciuto nei quartieri proletari e divenuto vincente, ricco e famoso è stata una
immagine inflazionata dalla stampa borghese per convincere milioni di ragazzi che l’unica strada per conquistare decenti condizioni di vita è quella individuale (nella quale naturalmente solo pochissimi privilegiati possono riuscire).
In particolare negli ultimi anni abbiamo assistito a una accelerazione degli investimenti nel calcio. I capitalisti che investono, lo fanno per vincere perché in ultima istanza è questo il modo per avere maggiori profitti. Se in fabbrica e negli uffici per produrre di più e risparmiare sul costo del lavoro, aumentano i ritmi di lavoro e tagliano sulle misure di sicurezza, in palestra e sulle piste d’allenamento usano gli stessi metodi, adattandoli al contesto. Sono migliaia i giovani sportivi che, per poter competere ad alti livelli, fanno uso di steroidi e altre sostanze dopanti.
Se alcuni casi eclatanti di morti sul campo (come quelli di Feher e Foè) hanno portato alla luce questo fenomeno, non dobbiamo dimenticare che dietro le quinte sono centinaia i caduti, a distanza di anni, per infarti e tumori legati all’uso prolungato di sostanze dopanti. La maggior parte sono ciclisti, pugili, velocisti, atleti e calciatori che sfiorano appena il professionismo, che vedono il proprio lavoro come un espediente per poter vivere con l’illusione di raggiungere successo e soldi. Molto spesso la famiglia diventa un luogo di coltura dove crescono e si sviluppano questa esasperazione e questa smania da successo.
I redditi dei giocatori professionisti, del resto, costituiscono una tentazione altrettanto scandalosa. Di recente è uscito il risultato di uno studio della Cgia (un’associazione di artigiani) che rileva le differenze tra il reddito medio di un calciatore di una squadra di calcio e gli stipendi medi di lavoratori dipendenti della stessa regione. Ebbene un lavoratore piemontese deve lavorare 291 anni per poter raggiungere un reddito medio annuo di un giocatore della Juventus (sia chiaro non del più pagato ma reddito medio!!!), un lavoratore lombardo 266 anni per guadagnare quanto un giocatore del Milan e 176 anni in paragone ad un interista (è evidente che più la rosa del club è folta e più la media si abbassa), un lavoratore laziale deve lavorare 184 anni per guadagnare quanto un calciatore della Lazio e 157 anni quanto un giocatore della Roma e così via! I calciatori e gli sportivi sono allo stesso tempo grandi protagonisti e vittime di questo circolo virtuoso.
Negli ultimi anni i vari opinionisti sportivi e non solo hanno speso tonnellate di inchiostro su uno “sport che non è più quello di una volta”, ci hanno offerto melanconiche tirate sulla epopea gloriosa del calcio della metà del secolo scorso, ma nessuno di loro ha capito che la crisi del calcio e dello sport, l’utilizzo di sostanze dopanti e la conseguente crisi esistenziale di vecchi campioni dello sport caduti al rango di normali sportivi, come il caso di Pantani dimostra, è il logico prodotto del capitalismo.
Si scrive calcio e si legge caos
In una fase di polarizzazione sociale e di crisi di questa società molte contraddizioni si concentrano nel calcio. I campionati di serie A, B e C ormai sono decisi a tavolino. Squadre che retrocedono che vengono ripescate. Serie B da 20 a 24 squadre deciso per evitare torti. Sentenze giudiziarie che si accavallano a sentenze sportive. Un vero caos insomma.
In questo contesto vi è il fenomeno degli ultrà nei quali, per la stragrande maggioranza dei casi ma per fortuna non in tutti, c’è una netta egemonia di gruppi di estrema destra. Formazioni politiche estremamente minoritarie nazi-fasciste hanno capito che le curve sono un luogo dove si concentrano le contraddizioni di questa società e dove poter fare un lavoro politico per ottenere consensi.
E’ ormai provato che quasi tutte le società di calcio hanno forti legami con questi gruppi, pagano loro le trasferte, li finanziano nella produzione di striscioni, megafoni e fuochi d’artificio, procurano biglietti per trasferte. Il caso di Roma-Lazio sospesa per volere dei tifosi (di gruppi ultrà in realtà) è un caso emblematico. Si ipotizza che vi era un accordo tra ultrà delle opposte squadre, e magari le stesse società, per mandare un segnale al governo nella direzione di sostenere un decreto in aiuto alle società di calcio. Del resto lo stesso Berlusconi pochi giorni prima aveva dichiarato che in mancanza di un aiuto alle società di calcio sarebbe scoppiata una rivoluzione nel paese. Altre ipotesi considerano invece, all’opposto, che ci sia stato un accordo tra ultrà delle due tifoserie contro le loro società in conseguenza di una rottura di collaborazione di cui sopra parlavamo. Mille altre possono essere le congetture.
Chi scrive non vuol avere la pretesa qui di sentenziare su questo caso anche perché la cosa ci interessa relativamente, ma la lezione che traiamo è che il calcio, come lo sport e come tutta la società è in uno stato di crisi generale. Del resto lo stesso caso sopra descritto la dice tutta sulla crisi di credibilità dello stesso Stato borghese e dei suoi apparati: decine di migliaia di onestissimi tifosi romanisti e laziali, chiedendo e ottenendo la fine anticipata della partita, hanno creduto ad una voce messa in giro da pochi ultrà che raccontava che forze di Polizia avevano ammazzato un bambino nei pressi dello stadio Olimpico piuttosto che alla stessa Polizia, al Questore e al Prefetto che attraverso gli altoparlanti dello stadio dicevano a gran voce che era falso e dovevano stare tranquilli.
Tutto ciò disgusta sempre più chi vede lo sport, uno sportivo preferito, o una squadra come una passione da seguire. Diversamente da Berlusconi pensiamo che sia proprio il contrario e che un decreto “spalma-debiti” o qualsiasi altro provvedimento simile aumenterà queste contraddizioni. Nei giorni in cui si paventava l’uscita della legge un sondaggio affermava che il 94% degli italiani erano contrari ad essa. Come spiegava Marx il capitalismo per svilupparsi e ristrutturarsi genera delle straordinarie contraddizioni che alimentano a loro volta nuovi processi rivoluzionari anticapitalisti. Lo sport, come sinteticamente abbiamo provato a spiegare, è stato uno strumento di consenso che manteneva l’unità interclassista, nazionale o meno che fosse, oggi sempre più si trasforma in un ulteriore esempio della necessità di trasformare da cima a fondo il sistema economico capitalista.
14-04-2004