Cinema
Fahrenheit 9-11
Il vero volto del “sogno americano”
È uscito nelle sale italiane il film di Michael Moore “Fahrenheit 9-11” centrato sulla situazione politica americana, l’elezione di Bush e le reali cause della guerra in Iraq. Dal punto di vista strettamente cinematografico il film non rappresenta nulla di nuovo. La tecnica usata è quella del film-documentario con la voce fuori campo di Moore che fa da raccordo tra una scena e l’altra. Le scene contenute nel film sono interamente “reali”, si tratti di riprese realizzate direttamente da Moore o dalla televisione o da altri documentari giornalistici. Né si tratta del primo film-documentario a giungere dagli Usa. Lo stesso Moore ne aveva già realizzati altri 4, tutti premiati dalla critica ma fattisi strada molto lentamente tra il grande pubblico.
Ma per Fahrenheit le cose stanno andando in maniera leggermente diversa. 8 settimane prima della sua uscita il film perde l’appoggio del distributore per un chiaro boicottaggio dell’industria cinematografica americana più legata al Partito Repubblicano. Il film già ultimato esce comunque nel penultimo week end di agosto ed è immediatamente il più visto negli Usa. In due giorni viene visto da più persone di quante non avessero visto il precedente film di Moore (Bowling a Columbine).
“Ma - come dice lo stesso Moore - sono state le reazioni e i resoconti arrivati dai cinema di tutto il paese che mi hanno fatto veramente andare in estasi. Un gestore di sala dopo l’altro hanno telefonato per dire che il film aveva ricevuto standing ovations mentre scorrevano i titoli di coda (…) e che facevano fatica a far svuotare la sala dopo la proiezione perché gli spettatori erano troppo turbati, oppure volevano stare seduti a discutere con i loro vicini ciò che avevano appena visto”.
Crisi a stelle e strisce
Non si tratta di casualità. Se Moore ha qualcosa di geniale è stato finora per la sua capacità di raccontare ciò che sta realmente accadendo. Lui stesso è dialetticamente un prodotto dell’ambiente che ha attorno ed a sua volta lo determina. La sua parabola è interessante perché in un certo senso riflette il movimento nella testa di milioni di persone. A quattordici anni entra in seminario deciso a farsi prete. A quindici anni è capo scout e a diciotto anni diventa il più giovane cittadino eletto in una carica pubblica locale. Ma la sua città di residenza, Flint, viene rapidamente colpita dalla crisi economica (con la chiusura degli stabilimenti General Motors) fino ad arrivare ad un tasso di disoccupazione del 30%. E’ questa realtà a cui Moore vuole dare voce quando nel 1989, ormai lontano anni luce dal seminario, gira il documentario “Roger & Me” sulla chiusura degli stabilimenti General Motors.
Dalla contestata elezione di Bush, dal crollo della Enron, passando per gli attentati dell’11 settembre fino alla guerra in Iraq, il proletariato americano vive un crollo di certezze a tutti i livelli. Non si tratta nemmeno di un processo spiegabile con i fatti degli ultimi 3 anni. Dal 1975 gli Usa sono il paese su scala mondiale dove il livello e l’aspettativa di vita medi in termini relativi sono crollati di più. Come qualcuno che esce da un coma di 40 anni, il proletariato americano ha provato negli ultimi 3 anni prima paura e terrore, poi stupore e sgomento e adesso voglia di reagire.
Il film di Moore testimonia questa realtà in maniera brillante.
Quale alternativa?
Moore ha l’esplicito scopo di spingere all’azione, alla militanza. Il suo obiettivo dichiarato è il “Bush out” (mandare a casa Bush). Questo è un pregio, ma a ben vedere mette a luce uno dei limiti del film. Non si tratta beninteso di un limite ascrivibile solo a Moore, ma di un limite che risiede in tutta la situazione oggettiva: la mancanza di un’alternativa reale. Il film alimenta l’enorme rabbia esistente contro Bush ed il suo entourage. Ma tale rabbia, se non viene dotata di una spiegazione coerente e complessiva, rischia solo di trasformarsi in mere illusioni nei Democratici.
Kerry è un rappresentante del capitalismo americano tanto quanto il detestato Bush. Ha dichiarato che non ritirerà le truppe dall’Iraq, non potrà inventare nessuna ricetta alternativa alla crisi economica se non altri tagli e sacrifici. Le migliaia di cittadine americane, come Flint, immerse nella disoccupazione, continueranno a languire nella povertà e il sottoproletariato americano continuerà a morire in Iraq.
Nelle battute finali del film, Moore dice più o meno così riferendosi alla guerra in Iraq (parafrasiamo a memoria): “Non si tratta di una guerra per la conquista di questa o quella zona geografica ma di una guerra delle classi dominanti contro le classi subalterne”. E’ così. E se le cose stanno realmente così, l’alternativa non può essere tra due rappresentanti delle classi dominanti, Bush e Kerry, ma tra capitalismo e socialismo.
Passando attraverso le illusioni in Kerry, il proletariato americano scoprirà presto questa elementare verità e non passerà molto prima che la bandiera rossa sventoli a ground zero. Speriamo che Moore sappia raccontare questo successivo stadio della presa di coscienza con altrettanta brillantezza e che magari ne diventi un attivo protagonista.