Le recenti elezioni presidenziali in Ucraina si sono tenute in un contesto tutt’altro che democratico. Negli ultimi mesi le sedi dei sindacati e delle organizzazioni di sinistra sono state sistematicamente assalite, devastate e date alle fiamme dalle bande fasciste con la complicità delle forze dell’ordine: il caso peggiore è stato l’incendio della camera del lavoro di Odessa, nel quale gli squadristi hanno brutalmente assassinato quaranta persone.
Il segretario del Partito comunista ucraino, Petro Simonenko, è stato costretto a ritirare la sua candidatura alle elezioni dopo essere stato quasi linciato da un gruppo di fascisti armati e il governo ha avviato l’iter ufficiale per mettere il Partito comunista fuori legge.
è questo il tipo di democrazia sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, che hanno riconosciuto senza riserve la regolarità dell’elezione di Petro Poroshenko, un oligarca il cui patrimonio è stimato in 1,6 miliardi di dollari. La prima azione del nuovo presidente è stata quella di scatenare un’offensiva militare in grande stile contro i ribelli di Donetsk, utilizzando contro il suo stesso popolo artiglieria pesante, cacciabombardieri ed elicotteri da combattimento (al momento si contano un centinaio di vittime).
Le repubbliche popolari
La ribellione nell’Ucraina orientale è descritta dai mass media occidentali come un’azione militare condotta da agenti russi infiltrati, ma la realtà è ben diversa. Nel Donbass si è sviluppato un movimento popolare di massa contro le politiche del governo di Kiev, che ha abolito il russo come seconda lingua ufficiale, ha designato come governatori della regione alcuni degli oligarchi più ricchi del paese e ha iniziato ad applicare le ricette di austerità del Fondo monetario internazionale. Quando la popolazione ha cominciato a manifestare contro queste misure e ad occupare gli edifici amministrativi, la risposta dei governanti di Kiev è stata quella di mandare l’esercito a schiacciare la protesta. Durante la cosiddetta “Operazione anti-terrorismo” in molti casi i soldati si sono rifiutati di sparare contro il popolo e anche la polizia si è ammutinata. Non potendo contare sulle forze regolari, il governo ha quindi formato nuovi battaglioni speciali della Guardia nazionale, reclutandoli interamente tra le formazioni paramilitari fasciste. La repressione però non ha fatto altro che esasperare la rabbia non solo della minoranza russofona, ma anche del resto della popolazione del Donbass, che ha dato vita a milizie popolari di autodifesa e ha sostenuto entusiasticamente la proclamazione delle Repubbliche “popolari” di Donetsk e Lugansk. L’adesione al separatismo è stata quindi soprattutto una risposta di massa agli attacchi del governo nazionale.
Il movimento nell’Ucraina orientale è eterogeneo e confuso, basti pensare che nella Costituzione della Repubblica “popolare” di Donetsk viene sancito il primato della religione ortodossa. Indubbiamente tra i leader separatisti figurano nazionalisti russi, avventurieri ed elementi reazionari: per esempio il comandante delle milizie di Sloviansk, Igor “Strelkov”, è un ex ufficiale dei servizi segreti russi che ha partecipato alla repressione in Cecenia. Le posizioni separatiste filo-russe peraltro non sono affatto adeguate ad estendere la lotta ad altre parti del paese.
Ma la natura dello scontro sta spingendo il processo in una direzione anti-oligarchica e potenzialmente anti-capitalista. Il Donbass è il cuore industriale del paese e settori crescenti del proletariato hanno partecipato alla ribellione. In decine di impianti minerari i minatori sono scesi in sciopero chiedendo il ritiro delle truppe governative e, nel pieno dei combattimenti, migliaia di operai hanno manifestato a Donetsk a sostegno della Repubblica “popolare”. Di fronte a questo nuovo protagonismo operaio l’oligarchia vede i propri interessi messi in pericolo. Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco d’Ucraina e il proprietario di buona parte delle fabbriche del Donbass, si è schierato al fianco del governo di Kiev e ha incitato i propri dipendenti a mobilitarsi contro i separatisti, ma dei 280mila operai impiegati nelle sue aziende solo in poche centinaia hanno aderito all’appello. In tutta risposta la Repubblica “popolare” di Donetsk ha annunciato la nazionalizzazione delle imprese di Akhmetov. Alcuni giorni dopo una folla di manifestanti a Donetsk ha tentato di assalire la casa del magnate ucraino ed è stata fermata a fatica dall’intervento delle milizie separatiste. Akhmetov ha dovuto frettolosamente abbandonare la regione e cercare rifugio a Kiev.
Il cinismo di Putin
Obama sta cercando di convincere l’Unione europea ad imporre a Mosca sanzioni economiche più pesanti, ma il tentativo di isolare la Russia non sembra avere molto successo. Putin ha appena concluso con la Cina una serie di accordi commerciali per forniture di gas e petrolio per centinaia di miliardi di dollari e la Germania è contraria a inasprire le sanzioni, poiché le aziende tedesche hanno realizzato forti investimenti in Russia. Da parte sua Putin, dopo l’annessione della Crimea, non ha affatto intenzione di fagocitare anche l’Ucraina orientale: un simile passo porterebbe ad una destabilizzazione permanente della zona e il costo economico per il mantenimento dell’industria del Donbass sarebbe eccessivo. L’obiettivo del Cremlino è invece quello di scongiurare l’integrazione dell’Ucraina nell’Unione europea e nella Nato.
I governi di Berlino e Mosca stanno quindi lavorando ad una soluzione negoziata della crisi, che preveda per l’Ucraina una Costituzione federalista con ampia autonomia regionale, che garantirebbe alla Russia di continuare ad esercitare la sua influenza sul paese. Ma un compromesso è tutt’altro che facile da raggiungere.
Il governo di Kiev è nei fatti ostaggio delle milizie neonaziste che ha incorporato nell’apparato statale e che sono più che mai necessarie per condurre la guerra nell’Est. Al di là dei voleri di Washington e Berlino, questi fanatici ultra-nazionalisti non hanno alcuna intenzione di avviare negoziati con i ribelli, si oppongono a qualsiasi prospettiva federalista e sono pronti a provocare un bagno di sangue.
Dall’altra parte Putin ha sicuramente i suoi agenti in Ucraina orientale, ma non controlla affatto il processo, come è emerso chiaramente in una serie di episodi. In occasione del referendum a favore dell’autonomia tenutosi a Donetsk e Lugansk l’11 maggio, il presidente russo aveva consigliato di rinviare la consultazione per favorire il dialogo con il governo di Kiev, ma il suo appello è caduto nel vuoto e la popolazione è andata in massa a votare per il sì. Il Ministro degli esteri russo Lavrov ha riconosciuto la legittimità delle elezioni ucraine e si è dichiarato pronto a incontrare Poroshenko, mentre nel Donbass il boicottaggio del voto è stato totale. I portavoce delle Repubbliche “popolari” invocano l’assistenza militare della Russia e allo stesso tempo il Cremlino annuncia di aver ritirato le proprie truppe dal confine ucraino.
Poroshenko ha peraltro offerto una sponda a Putin: durante la campagna elettorale non ha proposto l’entrata dell’Ucraina nella Nato e si è detto disponibile ad avviare negoziati con Mosca. Il suo intento è chiaramente quello di riconoscere gli interessi russi in Ucraina e avere in cambio da Putin mano libera per schiacciare definitivamente la rivolta in Ucraina orientale. Un accordo potrebbe quindi essere raggiunto sulla testa delle masse del Donbass, che Putin è disposto ad abbandonare pur di perseguire i propri interessi imperialistici.
La guerra civile ucraina è oramai una realtà drammatica, ma l’entrata in scena dei lavoratori del Donbass rappresenta un punto di svolta. La mobilitazione degli operai e dei minatori può trasformare in una realtà concreta le nazionalizzazioni annunciate dal governo di Donetsk e l’espropriazione dell’oligarchia è l’unico elemento davvero in grado di unificare la stragrande maggioranza della popolazione ucraina, non solo nell’Ucraina orientale ma anche nel resto del paese.