Università
Quest’estate è stato redatto lo Schema di Regolamento per l’Autonomia Didattica. Questo è solo l’ultimo dei provvedimenti che in questo decennio hanno duramente colpito l’università pubblica.
Nella seconda metà degli anni ‘60, con la liberalizzazione dell’accesso, è cominciato il periodo della cosiddetta università di massa: un numero enorme di giovani si è iscritto e le iscrizioni sono aumentate anno dopo anno (da 228mila nel ‘61, a 682mila nel ‘70, a 1.055mila nell’84) fino a stabilizzarsi nei primi anni ‘90 (1.685.000 nel ‘95). A tale crescita vertiginosa non se ne è accompagnata una proporzionale dei laureati. Alla "Sapienza" di Roma, in circa trent’anni gli iscritti sono più che quintuplicati, mentre i laureati sono solo triplicati. Alla libertà di iscrizione non è mai corrisposto un effettivo diritto allo studio. I finanziamenti per le borse di studio, gli studentati, le strutture sono sempre stati inadeguati. In questa situazione quelli che sono duramente colpiti sono i figli dei lavoratori. La selezione di classe comincia già dalla scuola ed aumenta all’università: su 100 figli di imprenditori che intraprendono la scuola dell’obbligo, 57,4 si diplomano e 6 si laureano; su 100 figli di operai 33 si diplomano e 1,4 arriva alla laurea.
L’AUTONOMIA UNIVERSITARIA
Questo scenario è andato peggiorando quando a queste carenze storiche si è aggiunta nei primi anni 90 l’Autonomia Universitaria di Ruberti. Questo provvedimento ha significato la libertà per gli atenei di decidere come e dove raccogliere i fondi. E visto che dallo Stato di finanziamenti ne arrivano sempre di meno, le due fonti principali sono state gli studenti e le imprese. I risultati: da una parte le tasse sono aumentate dappertutto, raddoppiando o triplicando nella maggior parte dei casi. Dall’altra, che si è avuta una grossa differenziazione tra un ateneo e un altro e, all’interno dello stesso ateneo, tra facoltà e facoltà. I privati hanno speso solo per quelle università e quelle facoltà che interessano a loro, che riguardano il loro territorio o il loro settore. Le altre si sono dovute accontentare dei sempre più magri contributi statali. Quindi dietro la demagogia (ripresa anche oggi) sulla gestione "autonoma" e "dal basso" degli atenei, si nasconde la deresponsabilizzazione dello stato, e del ministero, di fronte al peggioramento dell’università.
Dopo quest’autonomia (ovvero deregolamentazione) finanziaria è arrivata quella didattica. L’anno scorso una commissione di 14 "saggi" ha redatto la cosiddetta Bozza Martinotti. Il filo conduttore di questa era la ‘competizione tra gli atenei e tra le facoltà’. Malgrado il linguaggio accattivante questa non è altro che la legittimazione degli effetti dell’Autonomia Universitaria. Allo stesso modo la "pluralità dell’offerta formativa" significa sancire per legge che la stessa laurea presa in due atenei differenti avrà diverso valore, che gli insegnamenti per lo stesso corso varieranno da città a città, a seconda delle esigenze delle imprese. Si andranno formando, da una parte università (o alcune delle loro facoltà) con buone strutture, buoni professori e che daranno possibilità lavorative, ma che avranno tasse altissime; dall’altra università allo sbando, con tasse più basse ma che serviranno solo da parcheggio per i futuri disoccupati. L’ultima pericolosa novità della Bozza Martinotti è lo spostamento degli insegnamenti professionalizzanti dai corsi di laurea a quelli post-laurea (scuole di specializzazione, Sis, ecc.), che saranno a numero chiuso, con pochi posti, poche borse di studio e che quindi lasceranno molti studenti con una laurea inutile in mano. Lo sbocco inevitabile del percorso è la fine del valore legale del titolo di studio.
L’AUTONOMIA DIDATTICA
Arriviamo così allo ‘Schema di regolamento in materia di Autonomia Didattica degli atenei’, che sta per finire l’iter legislativo e che forse verrà attuato già dall’anno prossimo. Questo mette in pratica le linee-guida della Bozza Martinotti e stabilisce il meccanismo dei crediti in essa anticipato. I crediti saranno 60 all’anno e a ciascuno di essi corrisponderanno 25 ore "di lavoro" dello studente (quindi 1500 ore all’anno). Almeno la metà di questi crediti si otterranno con lo studio individuale, cioè per ogni esame corrisponderanno un certo numero di ore di studio (valutate non si sa come ?!). Ed almeno il 20% dei crediti sarà invece composto da attività pratiche, frequenze, stage, tirocini interni o esterni. Questo significa che ogni studente dovrà svolgere in questo modo diverse centinaia di ore all’anno dentro (e magari anche fuori) l’università. Ciò comporterà pesanti disagi per gli studenti pendolari e costringerà gli studenti lavoratori ad abbandonare gli studi.
Inoltre il Regolamento prevede la sostituzione delle attuali laurea e diploma universitario con una Laurea, della durata di tre anni, ed una Laurea Specialistica, di cinque anni. Già otto anni fa abbiamo visto qualcosa di simile con l’introduzione dei diplomi universitari, meglio conosciuti come "lauree brevi". Allora si diceva che questi servivano per quei giovani che non se la sentivano di affrontare quattro o cinque anni di università. In realtà quello che abbiamo visto è che gli iscritti non sono affatto aumentati; semplicemente, una "fetta" di studenti invece di iscriversi al corso di laurea, si sono iscritti alla "laurea breve". Tutto questo non risolverà né il problema dei fuori-corso, né tantomeno quello degli abbandoni. Quello che vediamo è invece una progressiva dequalificazione dei titoli di studio. La laurea da tempo non è più sinonimo di lavoro sicuro (e questo malgrado il fatto che non ci sia un aumento degli studenti che si laureano) ed oggi vale ancora di meno, visto che bisognerà affrontare i corsi post-laurea.
Il ministro dell’Università Zecchino vuole ricacciare l’università indietro di trent’anni, cioè con un certo diploma si potrà accedere solo a certe facoltà. A questo si collega il Riordino dei Cicli della scuola, dove lo studente dovrà scegliere a 12 anni a quale tipo di scuola superiore andare. Perciò la scelta fatta a 12 anni sarà decisiva fino alla laurea (sempre che uno ci arrivi)!
Di fronte a tutto questo noi studenti dobbiamo dare una risposta decisa, respingendo in blocco il progetto di controriforma dell’università e richiedendo un raddoppio dei finanziamenti statali, unica garanzia per un effettivo diritto allo studio, oltre a misure per migliori condizioni (più strutture, più appelli,.) e contro la selezione.