Questa riforma si inserisce in un tentativo, fortemente voluto dalla Confindustria, di fare dell’istruzione un sistema flessibile e funzionale ai loro interessi caratterizzato da alti livelli di selezione, da accresciuta "professionalizzazione" e dalla cosidetta "formazione permanente".
La riforma prevede dei crediti per misurare il "tempo di lavoro" dello studente: per ogni esame si certifica un valore numerico aggiuntivo al voto che corrisponde a tante ore di studio. Questo tempo deve ovviamente essere misurato, e questo sarà presto la base per richiedere la frequenza obbligatoria a lezione, con seri problemi per gli studenti lavoratori.
Diversi professori stanno già prendendo le firme a lezione, anche se ciò non è ancora previsto a livello ufficiale. Per laurearsi è necessario raccogliere 60 crediti l’anno pena l’iscrizione "ripetenti" con il risultato di sottoporre gli studenti a ritmi di studio molto più alti e all’eliminazione di chi resta indietro.
Il nuovo sistema prevede lauree di tre anni caratterizzate da insegnamenti più leggeri e specifici più eventuali due di specializzazione. Nella propaganda del ministero si dice che questo consentirà di laurearsi prima e di trovare lavoro.
Quello che non dice questa propaganda è che queste lauree saranno estremamente specifiche e quindi che i lavori che troveremo spariranno al primo soffio di vento del mercato, costringendoci a tornare a studiare senza salario e a nostre spese. E’ questa la truffa della formazione permanente: le imprese potranno richiedere nuovi corsi di laurea sulla base delle necessità del mercato. La struttura modulare dell’insegnamento aiuterà questo processo: al posto dei vecchi esami ci sono i moduli.
L’università formerà così figure professionali estremamente specifiche che andranno incontro a diversi destini. Per alcuni, che riusciranno a laurearsi in facoltà di "serie A" a numero chiuso e con alti costi (magari accompagnati da master che costano parecchi milioni), non accessibili sicuramente ai figli dei lavoratori potranno forse aspettarsi un certo lavoro, ma saranno comunque dequalificati, non avendo delle basi solide da utilizzare per riorientarsi. Per tutti gli altri il destino sarà anche meno piacevole: tre anni in facoltà abbandonate perché non interessano a nessuna impresa, perché nessuno le vuole finanziare e poi l’incerto futuro di disoccupazione e precariato.
I primi effetti
A Roma, a Psicologia ad esempio, nel primo anno è stato istituito un esame obbligatorio, in sei moduli a febbraio, in una situazione nella quale le ore di lezione sono diminuite.
Pagheranno sicuramente gli studenti più deboli, che saranno obbligati a fare sempre più lavoro a casa o a passare per il mercato dei corsi privati ad alto costo. Il risultato di tutto questo sarà che per i figli dei lavoratori l’università sarà ancora meno accessibile.
A Psicologia vi sono ora 7 corsi di laurea del primo livello e le aule non bastano per tutti i moduli: questo ha creato un enorme problema con i corsi che cominciano in ritardo per mancanza di spazi o che costringono gli studenti ad eccitanti maratone per seguire una lezione in sede ed un altra in un teatro. In altre facoltà la situazione è anche peggiore.
Ad Ingegneria grazie all’autonomia è partito un progetto di collaborazione con l’Alenia, ditta bellica. Così la ricerca viene subordinata agli interessi di guerra: questo avrà conseguenze anche su cosa si insegnerà e su chi veramente comanderà in facoltà.
La strategia del ministero è quella del "dividi et impera": hanno scelto di non dare alle facoltà direttive precise ma di lasciare libertà di organizzazione, così non vedremo per esempio il numero chiuso subito ovunque (cosa che avrebbe portato ad un esplosione di rabbia da parte degli studenti) ma una situazione a macchie di leopardo.
Difendere il diritto allo studio
Tutto questo avviene in un contesto che è già profondamente segnato dalle politiche di tagli all’università e ala scuola. Da ultimi arrivano i 5000 miliardi che sono stati trasferiti dal finanziamento per scuola ed università alle spese di guerra.
In particolare la nuova finanziaria decurta il fondo ordinario per l’università di 21 miliardi per il 2002, di 397 e 794 miliardi rispettivamente per il 2003 e 2004. La chiusura di un piano della mensa e l’annuncio che per il prossimo anno l’80% degli aventi diritto alle borse di studio Adisu non sarà preso in considerazione sono ulteriori dimostrazioni di come la riduzione dei servizi per gli studenti si inserisca alla perfezione in un sistema di università dove è previsto che vada avanti solo chi può permetterselo.
Se La Sapienza è uno schifo, non è perché è pubblica, ma perché i finanziamenti statali vengono ridotti di anno in anno. Per questo la prima condizione per migliorare la situazione è richiedere più soldi per nuovi spazi, per avere più corsi, per dare agli studenti i libri gratis, per avere più case dello studente e più mense per i fuorisede. Quello che ha invece tentato di fare l’autorità accademica è aumentare le tasse d’iscrizione all’università in maniera particolare per gli studenti provenienti da famiglie a basso reddito.
Tutto ciò avveniva l’anno scorso e ha provocato un’ampia mobilitazione in tutte le facoltà culminata nell’occupazione di alcune presidenze, dipartimenti e dell’aula magna del rettorato ma sopratutto in un corteo di 8000 persone che è sfilato lungo i viali dell’università.
Il più grosso movimento dell’università da 10 anni non è riuscito a collegarsi con la maggior parte degli studenti che non avevano idea di che cosa comportasse la riforma ma ha ottenuto, nonostante ciò il risultato del ritiro dell’aumento delle tasse. E adesso il rettore chiede al governo altri fondi, visto che al buco provocato dal mancato aumento se ne stanno sommando altri. "Altrimenti – dice – scoppia un altro ‘68".
Bilancio e compiti del movimento
Abbiamo portato a casa un risultato, ma non può bastarci. Gli avvenimenti dell’anno scorso hanno portato al rafforzamento dei collettivi che c’erano e alla nascita di collettivi nuovi, ma allo stesso tempo c’è una nuova fase da affrontare. Un limite del movimento era stato quello di non saper chiarire alla maggior parte degli studenti quali obiettivi si volevano raggiungere oltre al ritiro dell’aumento delle tasse e la denuncia della riforma.
Il movimento ha l’assoluta necessità di partire dalla lotta concreta contro i provvedimenti che passano facoltà per facoltà ma allo stesso tempo non deve farsi frammentare in mille rivoli: ad esempio i problemi di strutture insufficienti alla didattica sono presenti in ogni facoltà, e dovrebbero essere unificati in un’unica lotta. Di più, l’obiettivo deve essere unire l’unità a livello nazionale: l’Autonomia è applicata in tutta Italia e tutte le università stanno progettando (più o meno di nascosto) aumenti delle tasse. Dobbiamo saper spiegare agli studenti che quello che stanno vivendo è in realtà un attacco al diritto allo studio che mira ad eliminare particolarmente gli studenti proletari e che il caos che oggi c’è nelle facoltà è la dimostrazione che la riforma non solo non risolve i problemi ma li aggrava.
Non possiamo semplicemente dire che quel problema o quell’altro vanno risolti, dobbiamo far vedere qual’è l’obiettivo di fondo della riforma e far capire che solo attraverso un movimento generale di tutte le università, assieme ai lavoratori che vedono il diritto allo studio negato ai propri figli, si potrà ottenere il ritiro della riforma.