Il socialismo è la sola via per la rivoluzione in Venezuela!
Si vivono giorni decisivi in Venezuela. Le forze di opposizione al governo del Presidente Chavez hanno lanciato una nuova offensiva dopo il fallimento dei due precedenti tentativi controrivoluzionari, il colpo di Stato dell’aprile 2002 e la serrata padronale nel dicembre 2002 e il Gennaio 2003.
Le organizzazioni reazionarie hanno negli scorsi mesi provato a percorrere la via delle urne per rovesciare Chavez. La nuova costituzione venezuelana, promulgata dall’attuale governo, prevede la possibilità di revocare tramite referendum ogni carica pubblica eletta a metà del mandato. Sono sufficienti il venti per cento delle firme dell’intero corpo elettorale per convocare un referendum revocatorio. Una procedura così democratica non esiste in nessun altro paese al mondo. Vi immaginate che succederebbe se qualcuno proponesse una cosa del genere in Italia? Dalla destra alla sinistra moderata si griderebbe “alla prevaricazione violenta delle istituzioni democratiche” e al “golpe populista”.
Il referendum
Appoggiata da una campagna mediatica di enormi dimensioni, l’opposizione nel dicembre scorso ha cercato di raccogliere le firme necessarie per un referendum contro il Presidente. La commissione elettorale nazionale (Cen) ha controllato le firme raccolte, ed ha annunciato a fine febbraio che solo 1 milione e 800mila degli oltre tre milioni di firme consegnate dall’opposizione, erano effettivamente valide. Per indire il referendum ne occorrevano 2 milioni e 400mila. La casistica dei brogli perpetrati dall’opposizione sfiora il ridicolo: più di 377mila firme sono state direttamente annullate poiché appartenenti a minori, a persone private dei diritti elettorali o addirittura decedute! Decine di migliaia di firme sono state apposte con la stessa calligrafia. La Cen non è poi riuscita a provare la validità o meno di ben 870mila firme ed ha disposto che i firmatari debbano confermare la propria volontà nuovamente alla presenza di rappresentanti del governo, della Cen e dell’opposizione. Sarà praticamente impossibile che l’opposizione riesca a convalidare l’oltre mezzo milione di firme di cui ha ancora bisogno. La sua sconfitta è stata chiara, ma i suoi dirigenti, spalleggiati dall’Organizzazione degli Stati Americani e dagli osservatori del Centro Carter (dal nome dell’ex presidente Usa), hanno rifiutato il verdetto della Cen e incitato alla “disobbedienza civile” nei confronti del governo.
La realtà è che per i leader dell’opposizione il responso della Cen era del tutto secondario. La raccolta di firme rappresentava una scusa per guadagnare tempo e serrare le fila dei propri sostenitori. È molto improbabile poi che Chavez oggi possa perdere una consultazione elettorale come un referendum sulla sua persona. I sondaggi più sfavorevoli danno il Presidente al 60% di appoggio fra la popolazione. A Giugno ci sarà una nuova tornata elettorale ed è probabile che la destra possa perdere una serie di amministrazioni locali, inclusa la capitale Caracas.
L’ultimo anno è stato infatti testimone di un indebolimento costante delle forze antichaviste, che non si sono riprese dai due tentativi controrivoluzionari falliti. I loro sostenitori sono demoralizzati e le piazze in occasioni dei loro cortei sono sempre più vuote. I dirigenti dell’opposizione avevano dunque bisogno di un collante che coagulasse la loro base e mantenesse alta la tensione. Se il referendum fosse stato celebrato e fossero stati sconfitti, avrebbero comunque gridato alla frode davanti a tutta la comunità internazionale.
Provocazioni fasciste
Infatti, questo è proprio quello che sta succedendo in questi giorni. Già nei giorni precedenti al 29 febbraio, data prevista per la decisione del Cen sulla validità delle firme, si è scatenata una ondata di terrore per le strade di Caracas e delle maggiori città del paese. Assalti tipici delle squadraccie fasciste a lavoratori, studenti, sostenitori di Chavez, si sono susseguiti e continuano tutt’ora. Mentre scriviamo, nove sono i morti e decine i feriti. Sono stati attacchi preordinati e simultanei in diversi luoghi e città, fatto che dimostra come esiste una regia centrale dietro le quinte. Lo scopo è quello di destabilizzare il paese nella logica del “tanto peggio, tanto meglio” mantenenedo aperta la possibilità di tentare un nuovo colpo di stato.
Gli appoggi a una soluzione del genere non mancano. Istituzioni statunitensi hanno finanziato con milioni di dollari Sumate, l’organizzazione che ha organizzato la raccolta di firme per il referendum. Non dimentichiamo che Washington ha aiutato con numerosi consiglieri militari i golpisti nell’aprile 2002, riconoscendo subito il loro capo, Pedro Carmona, come presidente al posto di Chavez.
La particolarità del Venezuela è proprio che, dal giorno seguente alla vittoria di Chavez nel 1998, l’intera classe capitalista ha discusso e pianificato il suo rovesciamento. In sé il programma dell’ex Colonnello non è che un insieme di riforme democratico borghesi, da effettuarsi all’interno del sistema capitalista. Il rafforzamento dell’economia nazionale, così da creare sufficiente ricchezza per tutta la popolazione, costituisce l’obiettivo principale dell’attuale governo. Ma tale è la degenerazione della classe dominante venezuelana ed il suo asservimento all’imperialismo nordamericano che non si trova un imprenditore disposto ad appoggiare il progetto politico di Chavez.
Lo deve ammettere anche il Presidente in una recente intervista: “L’oligarchia mi ha assediato. Oggi ho visto una foto mia del ’99 e mi sono spaventato. Da una parte c’era Peña (sindaco di Caracas, ora feroce antichavista, ndr). Dall’altra Cisneros (leader miliardario dell’opposizione) che è riuscito a collocare propri uomini in posizioni di governo. Sono stato circondato da infiltrati.(…) Hanno fatto moltissimi danni.” (Liberazione, 09/03/2004).
In queste frasi possimo trovare il nocciolo del problema: Chavez che si circonda di borghesi che considera propri alleati e questi ultimi che tramano contro di lui senza un attimo di sosta.
Il comportamento della borghesia venezuelana non é però imputabile a una cattiveria d’animo di natura genetica. Nell’epoca odierna di crisi capitalista, in tutto il mondo il padronato non vuole fare alcuna concessione alle masse. Se ciò lo proviamo tutti i giorni sulla nostra pelle nei paesi più ricchi dell’Europa Occidentale, possiamo solo immaginare quale margine di manovra ci sia in America Latina per migliorare le condizioni di vita delle masse all’interno dell’economia di mercato.
Così i capitalisti non possono permettere che esista un luogo dove, come in Venezuela, si aumentino i finanziamenti all’istruzione e alla sanità, non si privatizzino i servizi sociali e la compagnia petrolifera nazionale e si mantenga una politica estera indipendente da quella degli Stati Uniti.
Ad esempio, grazie ai progetti del governo, 680.000 persone hanno potuto terminare la scuola elementare ed ottenere un’educazione di base. La sanità è diventata un diritto e nel solo mese di gennaio più di sei milioni di persone hanno avuto accesso gratuito alle cure sanitarie. L’economia si sta riprendendo dal duro colpo infertole dalla serrata padronale di quattordici mesi fa. La produzione industriale nel 2003 è cresciuta del 18% mentre la disoccupazione è scesa dal 20 al 16%.
Rimangono gravi problemi perché misure radicali, come il calmierare i prezzi dei prodotti basilari, convivono con la struttura dell’economia che è ancora essenzialmente capitalista. Tuttavia è in questi provvedimenti e nel protagonismo crescente delle masse che possiamo rintracciare le ragioni dell’appoggio di massa a Chavez.
Un nuovo colpo di stato?
L’arroganza dell’imperialismo ha portato quindi a una spostamento a sinistra delle posizioni di Chavez e del suo movimento Quinta Repubblica. La pressione delle masse è formidabile. La sua stessa elezione alla Presidenza è un sottoprodotto del processo rivoluzionario in Venezuela. È l’espressione, per quanto distorta e confusa, della radicalizzazione di milioni di lavoratori e di sfruttati che hanno respinto gli attacchi feroci della reazione più e più volte. Anche in queste giornate la risposta delle masse alle provocazioni della destra è stata entusiasmante. Domenica 29 febbraio un’ennesima manifestazione oceanica ha invaso le piazze e le strade della Capitale. Qui Chavez ha si espresso in maniera molto dura contro Bush. Lo ha invitato a non interferire più con gli affari interni del Venezuela, minacciando di tagliare i rifornimenti petroliferi agli Stati Uniti. Ha denunciato correttamente come tutta la campagna dell’opposizione sia orchestrata direttamente da Washington, paventando il rischio di un intervento militare diretto degli Stati Uniti.
Quest’ultima possibilità appare però a breve termine poco probabile, così come un nuovo colpo di stato. I rapporti di forza fra le classi sono oggi sfavorevoli alla destra. Inoltre l’opposizione ha molto meno sostegno nell’apparato delle forze armate rispetto al golpe dell’aprile del 2002: la maggior parte degli alti ufficiali mantiene, per il momento, l’appoggio a Chavez. Il problema è quanto potrà durare questo appoggio e quali sono le basi della lealtà alla rivoluzione bolivariana?
Dobbiamo ricordarci che l’esercito venezuelano è stato sì influenzato dal processo rivoluzionario, ma rimane comunque un esercito borghese, creato e organizzato dalla classe dominante a difesa dei propri interessi. Fino a che una rivoluzione è in ascesa, spesso le forze armate sono divise o inutilizzabili per scopi reazionari. Ma quando il processo rivoluzionario entra in una fase di riflusso o di confusione, sovente prodotta dall’atteggiamento ondivago e conciliante della direzione del movimento operaio, si possono aprire scenari pericolosi. Una parte o la maggioranza della cupola militare può fare ritorno all’ovile della borghesia. Questo è cio che successe in Cile al tempo del governo di Unidad Popular. Allende aveva grosse illusioni nella natura “democratica” delle Forze Armate. Pensava che fosse vero quello che è scritto nelle Costituzioni borghesi, che l’Esercito ha il compito di difendere le istituzioni democratiche e il governo in carica. Così Allende nominò Pinochet, fino ad allora convinto democratico, a comandante in capo dell’Esercito e fu sinceramente sbalordito alla notizia che proprio Pinochet si era posto alla testa del golpe. Le Forze dell’ordine infatti difendono i rapporti di proprietà capitalisti e non una Costituzione che, in ultima analisi, è un pezzo di carta che può essere tranquillamente stracciato in mille pezzi quando è in pericolo l’esistenza stessa della propria classe di “riferimento”, la borghesia. Questo è quello che è successo in Cile e questo può accedere ancora in Venezuela.
Le probabilità a favore di una svolta reazionaria aumenteranno quanto più il governo di Chavez si mostrerà indeciso e tentennante, facendo concessioni alle multinazionali, non sferrendo colpi decisivi alla controrivoluzione. In una situazione così polarizzata non ci si può fermare a metà strada. Oggi molti generali e altri alti funzionari statali appoggiano il cavallo vincente, vale a dire Chavez, ma davanti al caos e all’instabilità politica, provocate dalla strategia del terrore della destra e dalle indecisioni del governo, potrebbero stancarsi. Dopo diversi mesi di stallo e di confusione potrebbero emergere elementi che impongono una soluzione militare per ripristinare l’ordine in una società divenuta “ingovernabile”.
Non possiamo escludere che settori dell’opposizione scelgano subito questa strada, appoggiandosi sulle forze che già ora li sostengono. Nello stato di Zulia il governatore antichavista sta utilizzando la polizia locale contro il governo centrale, minacciando di dichiarare l’indipendenza della regione. L’intento è quello di provocare un intervento dell’esercito. Qui entrerebbe in gioco l’esercito colombiano, con cui Zulia confina, che correrebbe in soccorso della regione “ribelle” e della democrazia. Democrazia di cui, come si sa, il governo colombiano è un noto campione.
La prospettiva più probabile nel breve termine per l’opposizione, consigliata anche dall’amministrazione Bush, è di provocare un aumento continuo della tensione. Ciò significa sul versante interno provocazioni, attacchi e attentati continui come quelli di questi giorni. Più voci parlano di un possibile embargo economico internazionale nei confronti del Venezuela, per richiedere il “rispetto dei diritti umani violati”. Una mossa del genere però potrebbe portare a un’accelerazione del processo rivoluzionario. Come a Cuba dopo la rivoluzione del 1959, potrebbe essere il boicottaggio statunitense a spingere Chavez al di là delle proprie intenzioni e a rompere con il capitalismo.
Nella rottura con le logiche di mercato risiede l’unica salvezza per la rivoluzione bolivariana. L’opposizione trae la propria forza dalle fabbriche, le televisioni, i giornali che possiede. I principali mezzi di produzione devono essere nazionalizzati e posti sotto il controllo dei lavoratori. Chavez di fronte alla serrata un anno fa incitò i lavoratori ad assumere il controllo delle aziende i cui proprietari ostacolavano il processo rivoluzionario. Questa proposta deve essere ripresa oggi di fronte a un nuovo grave pericolo. Solo impossessandosi delle leve della produzione sarà possibile sconfiggere le forze reazionarie.
La mancanza di chiarezza da parte di Chavez sui passi che la rivoluzione deve intraprendere per consolidarsi, ha rappresentato finora il limite più evidente del processo. Chavez ripete che in Venezuela “I poveri stanno prendendo il potere” (Liberazione, 09/03/2004) La cosa è vera solo in parte. Le masse in Venezuela hanno dimostrato che sono l’unica forza che può fermare la reazione: sono entrate nella scena politica e vogliono decidere in prima persona il proprio destino. La volontà delle masse è essenziale per la presa del potere da parte della classe operaia ma non basta. Si deve tradurre in atti concreti. Le masse devono strappare le leve del potere economico dalle mani della borghesia ed organizzarsi in assemblee popolari, in consigli all’interno dei luoghi di lavoro, in poche parole in soviet, per gestire questo potere.
Il problema dell’autodifesa
La rivoluzione oggi però deve affrontare una nuova minaccia: i gruppi di chiara matrice fascista che, armati, vogliono destabilizzare il paese. A questi non si può rispondere che con l’autodifesa organizzata delle masse. Su questo il movimento operaio internazionale non può assumere una posizione ambigua o, peggio, di finta imparzialità. Ci riferiamo alle corrispondenze dell’inviata di Liberazione:
“A Caracas Est, la Caracas dei ricchi, la polizia metropolitana (il cui controllo sfugge completamente al governo) spara sulla guardia nazionale. È in questo Far West, più che nelle segrete stanze del Cen, che Chavez si gioca la presidenza. Se riuscirà a sottrarsi alla trappola della repressione violenta avrà vinto la partita più difficile. (…)
Dalle baracche chaviste e dai quartieri popolari del centro escono squadre di uomini in borghese. Sono le ronde autorganizzate che da giorni scalpitano. (…) Gruppi armati che sostengono il chavismo dai bassifondi della metropoli. Sbarrargli il passo, nelle prossime ore, non sarà impresa semplice” (Liberazione, 4 marzo 2004)
Questo è il riflesso concreto della svolta “nonviolenta” del segretario del Prc, Bertinotti. Secondo i suoi sostenitori, in Venezuela non è in atto una provocazione di stampo fascista da combattere. Siccome ambedue le parti utilizzano metodi “violenti” sarebbero da condannare, senza nemmeno considerare quali interessi di classe esprimano le due parti. Che dovrebbero fare allora i lavoratori in Venezuela? Farsi massacrare dai provocatori a braccia alzate, sperando al massimo nell’intervento di una forza di interposizione internazionale? Quella dei dirigenti del nostro partito è una posizione astratta, che sembra negare nei fatti la contrapposizione fra le classi. Ma siccome le classi ancora esistono, come esiste tuttora la scontro fra di esse, rifiutare qualunque opzione “violenta” di cambiamento sociale significa porsi in pratica in una posizione di accettazione dell’esistente, dell’ordine capitalista. In Venezuela la restaurazione del normale ordine capitalista avrebbe come risultante una dittatura spietata e sanguinaria.
Ma per fortuna le masse si stanno organizzando e rispondendo colpo su colpo all’offensiva del padronato. Noi siamo orgogliosi di schierarci dalla parte di lavoratori e giovani che resistono alle ignobili provocazioni fasciste. La resistenza e la straordinaria voglia di lottare del popolo venezuelano deve però essere coordinata ed organizzata. Per questo sempre più vasti settori di avanguardia, tra cui spiccano i marxisti della Corrente Marxista Rivoluzionaria di cui parliamo nelle pagine di questo giornale, stanno discutendo e promuovendo una serie di rivendicazioni che oggi assumono un ovvio carattere d’urgenza.
Le principali riguardano la creazione di comitati e squadre di autodifesa che devono presidiare i quartieri popolari e i luoghi di lavoro. Il governo deve provvedere al loro armamento e all’addestramento necessario. I comitati devono essere eletti da assemblee in ogni quartiere e luogo di lavoro Questi comitati devono essere collegati ai settori dell’esercito leali alla rivoluzione. La democratizzazione dell’esercito è un obiettivo prioritario per impedire l’infiltrazione di elementi controrivoluzionari. Consigli di soldati devono essere creati a tutti i livelli col potere di elezione e di revoca degli ufficiali. La rivoluzione venezuelana è entrata, come spiegato, in un momento decisivo. Mai come ora l’espressione di Karl Marx “la rivoluzione e la controrivoluzione marciano a fianco” è attuale. Lo sbocco dello scontro a cui stiamo assistendo può essere la più inebriante delle vittorie o la più terribile delle sconfitte. Perché prevalga il primo scenario, non basta l’eroismo delle masse di Caracas. È necessaria la costruzione di un partito rivoluzionario di massa che raccolga attorno a sé le forze migliori del proletariato e delle masse che appoggiano Chavez e assicuri il successo della rivoluzione socialista. E un Venezuela socialista potrebbe essere costituire quella scintilla che infiamma un continente sudamericano già in rivolta.