Il Venezuela è tornato all’attenzione dei media. A un anno dalla morte di Hugo Chavez, violenti scontri sono esplosi in tutto il paese, provocando decine di morti. I mass media, anche qui in Italia, parlano di pacifiche manifestazioni dell’opposizione, represse dal governo “dittatoriale” del presidente Maduro.
In realtà sono provocazioni ben organizzate, coordinate da gruppi armati di tutto punto, a cui hanno partecipato poche migliaia di persone, concentrate nei quartieri “bene” di Caracas e delle altre città del Venezuela. Iniziate lo scorso 12 febbraio, la loro principale rivendicazione è quella di rovesciare Maduro con ogni mezzo: barricate, blocchi stradali, spari di arma da fuoco, attacchi a sedi del Psuv e degli altri movimenti bolivariani. In poche parole, un colpo di stato. È la cosiddetta “Guarimba”, pianificata da una parte dell’opposizione, quella più radicale legata direttamente a Washington.
La “guarimba”, che continua mentre scriviamo, non sembra trovare tuttavia il consenso delle masse ed è alquanto improbabile che riesca nei suoi intenti. Una parte dell’opposizione infatti non l’ha sostenuta e sembra che il governo stia riuscendo a sgonfiare lentamente la protesta.
I pericoli principali tuttavia non provengono da queste azioni, ma piuttosto da tutta una serie di contraddizioni che permangono in Venezuela, a 16 anni dall’inizio della rivoluzione, e che si sono acuite dopo la morte del suo leader indiscusso, Hugo Chavez.
La rivoluzione bolivariana ha conseguito successi strabilianti nel campo dei servizi sociali, ha praticamente eliminato l’analfabetismo, ha migliorato le condizioni di lavoro e di vita di milioni di lavoratori e delle loro famiglie, per mezzo degli enormi profitti provenienti dal petrolio, finalmente utilizzati per il beneficio della collettività. Allo stesso tempo presenta tutte le caratteristiche di una rivoluzione che si dichiara “socialista” ma che si è fermata a metà della trasformazione economica e sociale.
La guerra economica
L’inflazione galoppante (56% nel 2013) che erode i salari, pur aumentati in maniera consistente dal governo, la scarsità dei generi alimentari di base (il 28% dei quali a gennaio erano introvabili nei negozi) rappresentano un pericolo mortale per la rivoluzione. Il sabotaggio economico costituisce quella sorta di golpe lento con cui il settore maggioritario della borghesia cerca di soffocare la rivoluzione, minandone alla base le fondamenta.
Non c’è dubbio, infatti, che la scarsità di merci è provocata in maniera deliberata dalle grandi catene di distribuzione private, che controllano in gran parte il commercio del paese e che decidono cosa immettervi e cosa no. I sequestri regolari operati dall’esercito riescono a rintracciare e mettere a disposizione solo un’infinitesima parte di questo gigantesco accaparramento. Intanto vere e proprie imprese “fantasma” hanno incassato 25 miliardi di dollari dallo Stato ma non hanno importato nulla. Tutto questo succede in un’economia dove lo Stato non controlla il settore finanziario e bancario e dove è in atto da almeno dieci anni una gigantesca fuga di capitali.
La decisione del governo di avere un cambio fisso tra bolivar e dollaro, senza imporre un controllo dei flussi finanziari ha provocato una gigantesca inflazione in un’economia che dipende in larga parte dalle importazioni.
Non si può controllare ciò che non si possiede, e l’economia venezuelana è tuttora un’economia capitalista.
Come vuole affrontare queste contraddizioni la dirigenza bolivariana? Convocando una “conferenza per la pace” e invitando i governatori e gli esponenti dell’opposizione “disposti al dialogo”. Il tentativo è quello di trovare una borghesia patriottica e nazionale che collabori al progetto del “socialismo bolivariano”. Tra questi, il proprietario del gruppo Polar, Lorenzo Mendoza, che controlla la grande distribuzione del paese: in poche parole, il principale responsabile del disastro economico in Venezuela. A questi incontri Mendoza si è recato con il presidente di Fedecamaras, la Confindustria venezuelana, Jorge Roig. Insieme hanno fornito consigli interessati a Maduro: “Presidente, state cercando di imporre un modello economico che è fallito nel mondo intero”, hanno detto riferendosi al socialismo, e hanno aggiunto: “Fedecamaras ha commesso errori, ma dobbiamo voltare pagina” (il Manifesto, 5 marzo).
Gli errori sono quelli dello scontro violento con il governo, come nel tentativo di golpe fallito dell’aprile 2002.
Un settore maggioritario della classe dominante oggi vuole operare un’azione di logoramento, fatta di tavoli di riconciliazione formali mentre continua la guerra economica, che punta a togliere la base popolare di consenso al governo. In un secondo momento, indebolito il fronte rivoluzionario, la borghesia non si opporrà all’utilizzo di mezzi violenti e a un eventuale un colpo di Stato, se le condizioni saranno favorevoli.
L’esempio cileno
Il parallelo con la strategia utilizzata in Cile è piuttosto evidente. Anche in quel caso, il governo di Unidad popular lasciò le principali leve dell’economia in mano ai privati. Anche in quel caso, l’inflazione schizzò alle stelle, provocando un distacco di vasti settori della piccola borghesia nei confronti del governo di Unidad popular.
È simile la richiesta che si sta avanzando dai settori riformisti del governo e della borghesia di varare un “piano di disarmo” per porre fine alle violenze. Tale piano è rivolto principalmente verso le milizie popolari che Chavez istituì alcuni anni fa, perché è chiaro che i delinquenti comuni e i gruppi paramilitari non consegneranno mai le armi volontariamente.
Anche in Cile, Allende fino all’ultimo fece appello alla destra perché ponesse fine al sabotaggio dell’economia. La risposta gliela recapitarono quel tragico 11 settembre 1973.
In Venezuela il processo rivoluzionario è durato straordinariamente a lungo, grazie al protagonismo eroico delle masse e alle ingenti risorse economiche del paese. Ma non può durare all’infinito. La scomparsa di Hugo Chavez ha indebolito lo schieramento bolivariano, i cui dirigenti hanno scelto deliberatamente di non affidarsi all’unica forza che è stata decisiva nel salvare la rivoluzione e spingerla in avanti: quella della classe operaia e delle masse.
Il protagonismo delle masse deve ritornare e giocare un ruolo essenziale nell’esproprio delle leve fondamentali dell’economia, delle grandi industrie, del latifondo, del settore finanziario e bancario. La gestione e il controllo dei lavoratori delle aziende espropriate, oggi ostacolati in tutti i modi dalla burocrazia, sarebbero una garanzia concreta di un appoggio popolare incrollabile. Questo è l’unico socialismo che conosciamo e per cui vale la pena di battersi in Venezuela, in America latina e nel resto del mondo.