Marxismo, violenza e non violenza
Tanto più una società è in crisi, tanto più la classe dominante deve servirsi di mezzi repressivi per mantenersi alla testa della società. Ad una situazione di crisi economica, non può che corrispondere l’aumento della violenza organizzata della classe dominante.
La guerra in Iraq è solo la punta del processo. I militari americani impegnati all’estero sono oltre 220.000. Gli Usa guidano le danze, con un aumento senza precedenti del proprio bilancio militare. Ma a questo ballo prendono parte tutte le potenze imperialiste, ognuna con il proprio peso specifico e i propri specifici interessi.
Elencare i conflitti in corso o i focolai di tensione sarebbe più lungo che nominare i paesi dove regna una pace formale (fatta di fame, disoccupazione e povertà, naturalmente).
La violenza poliziesca si è abbattuta puntuale su ognuno dei movimenti rivoluzionari sviluppatisi in Sud America.
Solo durante l’insurrezione del dicembre del 2001 in Argentina 21 manifestanti sono stati uccisi dalla polizia. Durante il processo rivoluzionario in Bolivia nel corso del 2003 150 manifestanti hanno perso la vita. Mentre scriviamo, la rivoluzione venezuelana è minacciata dalla crescita della violenza squadrista, sapientemente alimentata dalla borghesia. Citiamo solo i casi eccezionali, per brevità, tralasciando i paesi dove l’assassinio degli attivisti sindacali è la norma. In Colombia, ad esempio, dalla fondazione della Cut (il principale sindacato colombiano) ne sono stati uccisi 28mila.
In questo contesto il segretario del Prc Bertinotti decide di lanciare un dibattito per estirpare la violenza… dalle pratiche, dalla storia e dalle teorie del movimento operaio.
I termini del dibattito
“Questa coppia guerra-terrorismo che sequestra monopolisticamente la violenza, questa realtà ci mette di fronte ad un problema assolutamente inedito. Noi non possiamo pensare di battere questa violenza monopolizzata con la guerra. La violenza, in ogni sua variante, quale che sia il giudizio morale, risulta inefficace perché viene riassorbita dal terrorismo mettendo fuori gioco la politica”.
Fausto Bertinotti
Secondo Bertinotti guerra e terrorismo hanno un’origine indefinita e non corrispondono più ad interessi politici ed economici di classe. Qualsiasi risposta violenta a questi due soggetti diventerebbe a sua volta o guerra o terrorismo. Di conseguenza dobbiamo essere non violenti. Per completare il discorso, Bertinotti cita l’orrore del terrorismo individuale degli attentati kamikaze palestinesi in risposta alla barbarie dell’esercito israeliano. Dimostra così con un colpo di scena come chiunque si ponga il problema della resistenza armata ad un invasore finisca nelle braccia del terrorismo.
Se qualcuno osa chiamare in causa alcuni esempi storici come le guerre di liberazione nazionale, o la resistenza contro il nazifascismo, Bertinotti si appresta a dire che il suo ragionamento non vale per il passato ma è valido solo “qui ed ora”. Subito dopo però lo estende retrospettivamente a tutta la storia del movimento operaio nel corso del ‘900.
I campi di concentramento staliniani, i gulag, sarebbero così “la manifestazione estrema di una contraddizione che il comunismo si è portata nella pancia e che è determinata da un’ idea del potere e da una idea della violenza”. Bertinotti si chiede: “O non dobbiamo pensare invece che c’è un rapporto tra Kronstadt, il gulag e qualche cosa che ha a che fare con le nostre storie e magari con le Foibe?”.
Il minestrone così è pronto e può essere servito sulle pagine del Corriere della Sera o della Repubblica: Kronstadt, gulag, foibe, Bin Laden, Bush, bolscevichi, presa del potere, tutti insieme mischiati sapientemente sotto il termine “violenza”. Ma non si tratta di una ricetta così originale: l’idea di fondo è che la stessa presa del potere porti alla degenerazione militare della rivolzione, allo stalinismo e quindi alla sconfitta.
Ma ha mai letto gli scritti dell’opposizione di sinistra e di quei rivoluzionari e comunisti che sono stati eliminati nei campi di concentramento staliniani? Invece di affrettarsi a liquidare Trotskij (dicendo che ha perso anche lui) sarebbe forse il caso di attingere dalla Rivoluzione Tradita e da altri scritti nei quali il rivoluzionario russo analizza la controrivoluzione staliniana che ha cancellato le conquiste politiche dell’Ottobre. C’è un fiume di sangue che divide lo stalinismo dal bolscevismo e se si mette tutto nello stesso sacco si finisce inevitabilmente per abbandonare ogni idea di rivoluzione sociale.
Guerra e pacifismo
Per i marxisti la guerra imperialista non è il frutto della brutalità insita nella natura umana né tanto meno della follia di questo o di quel governo. La guerra imperialista sorge direttamente dalle contraddizioni generate dal capitalismo. Nel proprio sviluppo, il capitalismo ha creato un’economia su scala internazionale. Ma ha sviluppato il mercato internazionale mantenendo la proprietà privata dei mezzi di produzione e i confini nazionali. L’internazionalizzazione dei mercati è avvenuta così non nel segno di una generale armonia, ma di una sfida continua tra i diversi gruppi imprenditoriali e blocchi imperialisti per la difesa e l’allargamento delle proprie quote di mercato. Invece della pace su scala internazionale, il mondo ha vissuto due conflitti mondiali.
Dopo il 1945 il capitalismo ha potuto dare l’illusione a grosse masse di lavoratori di aver trovato una via pacifica al proprio sviluppo. Una crescita economica senza precedenti, permetteva alle diverse tensioni imperialiste di essere regolate in termini “pacifici”. La cruda legge dei rapporti di forza veniva nascosta sotto la cortina di fumo del diritto internazionale. Le potenze capitaliste potevano perseguire una linea internazionale comune, coperta magari dal velo blu delle Nazioni Unite. Sia detto di sfuggita che questo non cambiava di un grammo la sostanza imperialista delle loro scelte: la guerra all’Iraq del 1991 fatta sotto la bandiera dell’Onu e di comune accordo tra le varie potenze imperialiste non si distingue per il proprio contenuto di classe dalla guerra del 2003. Semplicemente l’attuale crisi economica non fornisce i margini per un accordo tra i diversi paesi imperialisti, come successe nel 1991.
Chiunque oggi si oppone alla guerra imperialista viene definito comunemente pacifista. Da questo punto di vista non ci scandalizziamo se migliaia di lavoratori e studenti si autoproclamano pacifisti. Tuttavia il pacifismo è un’ideologia ben definita con le proprie premesse e le proprie conseguenze. Nonostante si proponga di difendere la pace sempre e comunque, mostra tutti i propri limiti proprio di fronte ai conflitti reali.
Si limita a predicare in modo quasi religioso la pace e la fratellanza tra gli uomini. Proiettata a livello internazionale una simile ideologia si augura l’esistenza di un mondo pacifico e giusto, ma proiettata a livello interno predica la pace sociale e la collaborazione tra le classi. Con il rifiuto di qualsiasi forma di violenza, si rifiuta tanto la guerra causata dalla borghesia quanto la lotta di classe contro la borghesia stessa.
Alcune parole sul gandhismo
“Userò tutta la mia influenza e autorità contro la lotta di classe. Se qualcuno vuole deprivarvi della vostra proprietà mi troverete a lottare al vostro fianco”.
Gandhi
Nelle sue teorizzazioni Bertinotti ha tirato più volte in ballo Gandhi come esempio di pacifismo radicale. Così facendo dimostra proprio il contrario di ciò che vorrebbe. Pochi personaggi sono circondati da un’aura di santità tanto ingiustificata come Gandhi. L’ideologia di Gandhi non era il frutto della testa di un uomo particolarmente illuminato e tollerante, ma era il riflesso di interessi di classe ben precisi. Rifletteva contemporaneamente i sogni e la debolezza della borghesia indiana (di cui Gandhi era un esponente di spicco). Sorta sotto l’ala protettiva dell’imperialismo inglese, la borghesia indiana desiderava la propria indipendenza ma temeva ancora di più la possibilità di una rivoluzione proletaria. Questa contraddizione si rifletteva nell’ascetismo, nella passività gandhiana, nell’auspicio che si ottenesse l’indipendenza attraverso le riforme, senza dover passare per una sollevazione popolare.
Quando nel 1920 scoppia uno sciopero nel settore tessile, il Congresso Indiano approva immediatamente una risoluzione di fedeltà alla corona inglese e Gandhi si scaglia contro lo sciopero come episodio di “anarchia e distruzione rossa”. Nel 1928 un giovane radicale, Bagat Singh, viene arrestato e processato dagli inglesi con l’accusa di sovversione. Attorno al processo di Bagat Singh si solleva un’ondata di proteste e mobilitazioni. È in questo momento che Gandhi decide di far partire la propria marcia della disobbedienza civile, sapientemente tollerata dagli inglesi, per sviare il movimento da una possibile insurrezione. La marcia gandhiana si conclude con la firma il 19 marzo 1931 di un patto tra Gandhi ed il vicerè inglese Irwin, senza alcun accenno alla possibilità della concessione della grazia a Bagat Singh. Quattro giorni dopo Bagat Singh viene impiccato. Tra il 1942 ed il 1946 l’India viene scossa da un’ondata rivoluzionaria che costringe gli inglesi a concedere l’indipendenza formale. Tuttavia, per sviare la rabbia popolare su linee religiose, gli inglesi, di comune accordo con la casta dominante indiana, decisero di dividere il subcontinente in due paesi: l’India a maggioranza indù ed il Pakistan a maggioranza mussulmana. Il pacifico Gandhi alla fine accettò di sollevare un simile barbarico confine in un subcontinente che aveva sempre visto mussulmani ed indù convivere pacificamente. Da allora la “partizione” tra India e Pakistan ha causato un milione di morti e circa 10 milioni di profughi. L’India e Pakistan sono oggi due nazioni dotate di bombe nucleari con una continua tensione alle proprie frontiere. Quanta pace e serenità può sbocciare dai profeti della non violenza.
Democrazia borghese e violenza
“In che cosa consiste in realtà la funzione della legalità borghese? Se un cittadino libero è detenuto coattivamente da un altro in un’abitazione stretta e inabitabile (…) chiunque è capace di vedere che questo è un atto di violenza. Ma se questa operazione è scritta su un libro chiamato codice penale e la abitazione è una cella delle reali prigioni prussiane, si converte immediatamente in un atto di pacifica legalità. (…) In poche parole ciò che ci si presenta come legalità cittadina non è altro che la violenza della classe dominante elevata previamente a rango di legge. (…) In realtà la legalità borghese (e il parlamentarismo è legalità in potenza) è al contrario una determinata manifestazione sociale della violenza politica della borghesia sorta da una base economica”.
Rosa Luxemburg
Ciò che viene considerata “pace” sotto il capitalismo non è nient’altro che un “pacifico” sistema di sfruttamento, povertà e disoccupazione coatta mantenuto con la violenza organizzata dello Stato e della guerra imperialista. La violenza quotidiana di cui è intriso questo sistema viene coperta dalla legalità o dalla morale comunemente accettata. Ma anche la legalità e la morale non sono costruzioni eterne, ma costruzioni storiche. Tanto quanto nell’antichità la schiavitù era considerata morale, nel sistema capitalista viene considerato morale che una cricca di capitalisti possa asservire migliaia di uomini e dirigere l’economia in base alla propria sete di profitto. Se un gruppo di lavoratori occupa un’azienda per amministrarla democraticamente in base ai propri bisogni, compie un atto illegale ed immorale. Se un reparto di uomini, vestiti in blu e chiamati poliziotti, viene mandato a sgombrare la fabbrica per ristabilire la proprietà sull’azienda, compie un atto morale, legale ed una violenza giustificata. E questa violenza appare tanto più giustificata se i poliziotti agiscono secondo il mandato e le leggi di un parlamento democraticamente eletto, depositario naturalmente della sovranità nazionale. Nel mondo celeste della democrazia borghese, infatti, tutti gli uomini sono uguali: Umberto Agnelli ha a disposizione solo un voto così come il cassa integrato della Fiat.
Ma quando si torna sul mondo terreno, nei rapporti sociali ed economici reali, il cassa integrato deve pensare come arrivare alla fine del mese, mentre Agnelli controlla le leve economiche fondamentali del paese. Mentre il parlamento dà l’impressione che esista una dialettica democratica tra le classi, un luogo dove i rappresentanti democraticamente eletti discutano e controllino le sorti del paese, nella realtà la borghesia controlla l’economia (e con essa tutte le scelte fondamentali), i giornali, le televisioni, la produzione editoriale.
La presa del Palazzo d’inverno
“Questa rivoluzione – mi diceva un mio compagno di strada – si farà con le buone maniere. Questa rivoluzione si faceva con le buone maniere proletarie: con l’organizzazione. Per questo essa ha vinto – a Pietrogrado – in modo così facile e completo”.
Da “Anno primo della Rivoluzione Russa”.
Victor Serge
Nei discorsi di Bertinotti torna ossessivo il riferimento alla “presa del Palazzo d’Inverno”. Non è casuale. L’episodio della presa del palazzo d’Inverno da parte dei lavoratori russi durante la rivoluzione dell’ottobre del 1917 viene preso come simbolo dell’idea scorretta dei bolscevichi che la rivoluzione potesse essere vinta “in termini prevalentemente militari”, che il potere risiedesse in un luogo fisico particolare e che un colpo di stato insurrezionale fosse necessario per la presa del potere. Si tratta in effetti di idee profondamente scorrette, peccato che nessuna di queste corrisponda in nessun modo alle idee del bolscevismo. Come al solito gli esempi di Bertinotti dimostrano l’esatto contrario di ciò che vorrebbe.
La rivoluzione dell’ottobre 1917 è la seconda tappa della rivoluzione russa scoppiata nel febbraio ‘17. Se la rivoluzione del febbraio aveva creato i soviet, consigli operai e contadini, la rivoluzione dell’ottobre conferì loro tutto il potere. Il vecchio apparato statale, uno strumento di oppressione al servizio dei grossi capitalisti e proprietari terrieri, veniva così soppresso per essere sostituito da un apparato statale composto da migliaia di consigli operai e contadini. Ovviamente l’eliminazione dell’apparato statale borghese non era un atto fine a sé stesso era la condizione indispensabile per iniziare la trasformazione dell’economia da un sistema diretto in base al bisogno dei profitti dei capitalisti, in un sistema pianificato democraticamente dai soviet in base ai bisogni della popolazione.
La partecipazione del proletariato alle giornate di ottobre fu tale che lo Stato si sciolse come neve al sole. La temibile fortezza di Paolo e Pietro fu presa con un comizio interno di Trotsky che convinse la guarnigione a passare dalla parte della rivoluzione. Il Palazzo d’Inverno fu circondato pacificamente, un incrociatore sparò qualche colpo a salve e il Palazzo si arrese. I generali zaristi venivano rilasciati se davano la propria parola che non avrebbero organizzato la resistenza contro la rivoluzione. Questi stessi generali dopo poche settimane erano al comando delle truppe bianche che massacravano e devastavano nel tentativo di schiacciare la rivoluzione. E (cosa ancora più importante) mentre avveniva la presa del Palazzo d’Inverno, il consiglio nazionale dei soviet, con delegati eletti da milioni di lavoratori, contadini e soldati, sanciva la distribuzione alla terra dei contadini, l’inizio dell’edificazione dell’economia socialista e la cessazione immediata delle ostilità al fronte, con la richiesta di una pace senza annessioni.
A proposito di violenza e non violenza, la rivoluzione dell’ottobre, questo presunto bagno di sangue, poneva di fatto fine ad un reale bagno di sangue causato dal capitalismo: la carneficina della prima guerra mondiale.
Il problema dell’autodifesa
Pietro Ingrao è stato uno dei primi a rispondere alla chiamata di Bertinotti, dichiarandosi entusiasta delle sue innovazioni. Ma dopo averne incensato ogni parola, nota di sfuggita: “C’è una questione che Fausto non esplicita. (…) Che cosa si fa contro la violenza armata dell’aggressore?(…) quale strada possono percorrere milioni di persone, questi popoli, per respingere la violenza americana? C’è o no un obbligo di resistere anche con le armi? C’è un diritto di difesa che non deve o non può rinunciare al loro uso?”.
Abbiamo provato a rispondere a questa domanda anche se in termini generali. Come marxisti rifiutiamo questo sistema, un sistema che contiene nello sfruttamento dell’uomo sull’uomo il nocciolo di qualsiasi violenza.
Rifiutiamo anche il terrorismo: una tattica tanto controproducente, quanto barbarica ed infantile. Il potere del capitalismo non risiede in questo o quel ministro, in questo o quella banca, e non è di certo eliminando un borghese o facendo saltare una banca che lo si eliminerà. Il potere del capitalismo risiede nella proprietà privata dei mezzi di produzione ed è tale proprietà che ci poniamo l’obiettivo di eliminare. Ma nessuna classe dominante ha mai lasciato i propri privilegi senza lottare. E la borghesia non sarà da meno: contro la rivoluzione sarà disposta a scatenare ogni genere di violenza. Qualsiasi considerazione del marxismo sulla violenza parte da una semplice e banale necessità di autodifesa.
Questo ovviamente non giustifica l’uso della forza in qualsiasi caso, ma solo quando questa viene dalle masse e si inserisce in una prospettiva di trasformazione della società, ed è per questo che i marxisti si oppongono alle sciagurate azioni di terrorismo delle Br o dell’Eta ma difendono a spada tratta le grandi rivoluzioni del passato o parlando dell’oggi (perchè questo non è solo un dibattito storico) le milizie operaie e contadine che si stanno formando in Bolivia o in Venezuela per difendere il processo rivoluzionario dall’ aggressione violenta della classe dominante e dell’imperialismo.