Nella notte tra il 10 e l’11 febbraio, dopo una trattativa estenuante, un nuovo accordo è stato firmato a Minsk per un cessate il fuoco in Ucraina dell’Est. Al di là delle speranze dei mass media, nessuno crede che possa funzionare.
L’accordo ricalca in buona parte quello siglato a settembre sempre a Minsk e tra l’altro prevede: il ritiro di tutte le armi pesanti e la creazione di una zona di sicurezza di 50 chilometri fra le parti, il monitoraggio del cessate il fuoco da parte dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce); il rilascio di tutti prigionieri; il ritiro di tutte le forze straniere impegnate nel conflitto; l’adozione entro la fine del 2015 di una nuova costituzione da parte di Kiev per introdurre l’autonomia e uno statuto speciale per le regioni di Donetsk e Lugansk; il controllo dei confini nazionali da parte del governo ucraino da completare entro la fine del 2015.
E' un accordo che lascia le parti libere di interpretare una serie di punti, soprattutto quelli riguardanti l’integrità territoriale dell’Ucraina e l’autonomia delle regioni orientali, due questioni che ognuno tratterà nella maniera che più gli conviene. Inoltre, nonostante Putin, Poroshenko, Angela Merkel e Hollande fossero presenti, nessuno dei quattro ha firmato nulla. L’accordo è stato sottoscritto da un gruppo di contatto, che non prevede all’interno nessuna delle grandi potenze. Infine, all’incontro di Minsk non erano presenti né Obama, né alcun rappresentante degli Stati Uniti d’America, il paese che più ha promosso la vittoria di Majdan e spinto per l’escalation del conflitto.
Non è un caso che Obama, in una dichiarazione immediatamente successiva alla firma dell’accordo di Minsk abbia spiegato come si “augurasse il buon esito degli accordi” ma come allo stesso tempo “gli Usa non avessero abbandonato l’opzione di ulteriori aiuti al governo democratico di Kiev” (reuters.com, 12 febbraio 2014).
Infatti già dal prossimo marzo gli Usa invieranno seicento istruttori militari a Leopoli, con il compito di addestrare tre battaglioni della Guardia nazionale. E non è un mistero che i circoli più conservatori a Washington, con in testa il senatore Mc Cain, gridino ad alta voce quello che l’amministrazione Obama non è disposta a scrivere nero su bianco: il secondo accordo di Minsk è favorevole a Putin e dunque non funzionerà.
Gli avvenimenti delle ultime settimane processi ben più profondi dei punti di un accordo appena nato e sostanzialmente già moribondo. L’inizio del conflitto in Ucraina aveva già aperto una divaricazione tra gli Usa e la borghesia tedesca e francese che non ha fatto che approfondirsi. Gli Stati Uniti sono per l’offensiva finale nei confronti dei ribelli, Merkel era per la trattativa. Obama è per l’adesione dell’Ucraina alla Nato, Hollande ha dichiarato di essere contro. Se ci sono pressioni crescenti nel congresso Usa per armare l’esercito ucraino (sia da parte repubblicana che da quella democratica), Angela Merkel ha recentemente affermato: “non conosco una situazione dove l’invio di armi all’esercito ucraino porti il presidente Putin a pensare che possa uscire perdente dal punto di vista militare”.
In questo scontro Washington ha dalla sua parte i paesi della “nuova Europa” (vale a dire i paesi baltici e parte di quelli dell’Europa orientale). Gli interessi degli Stati Uniti sono anche economici, ma soprattutto politici: limitare l’influenza della Russia ed utilizzare l’indiscusso primato militare per recuperare terreno su quello economico e guardagnare sempre maggiori sfere d’influenza.
La borghesia tedesca ha forti legami economici diretti in Russia (20 miliardi di investimenti diretti nel 2013 ad esempio) che preferirebbe non vanificare, nel contesto di un’economia che comincia a frenare: il Pil della Germania nel 2014 è cresciuto solo dell’1%.
Una divisione che è stata sfruttata da Putin a Minsk.
Come in altre situazioni dall’Iraq all’Afghanistan, passando per la Siria e la Libia, l’intervento dell’imperialismo Usa non stabilizza la situazione ma la destabilizza. Se in Medio Oriente il caos creato da Washington e dai suoi alleati ha fornito maggior spazio e maggiori ambizioni ad alcune borghesie nazionali (Iran, Turchia, Arabia Saudita), così in Ucraina il tentativo di isolare e indebolire Putin lo ha invece rafforzato ed ha aperto una spaccatura nella Nato dalle conseguenze imprevedibili. E non nutriamo alcun dubbio che, a causa dello scontro in atto appena descritto, alla prima occasione “Minsk 2” salterà e il conflitto riprenderà, ancora più cruento e sanguinoso.
Il fallimento di Maidan
A Minsk, è stato l’ex agente del Kgb ad avere il controllo della situazione. Poroshenko, d’altra parte non aveva altra opzione che quella di accettare, anche se a denti stretti, un nuovo accordo. Un cessate il fuoco che si è reso necessario dopo l’offensiva dell’esercito di Kiev nei confronti delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, partita a metà gennaio. L’attacco era inevitabile, visti i rapporti di forza scaturiti dalle elezioni politiche dello scorso 25 ottobre, dove il partito della guerra era uscito chiaramente vincitore e a causa delle pressioni di Washington.
L’offensiva è tuttavia presto naufragata. A Debaltsevo, un importante snodo ferroviario vicino a Donetsk, le truppe delle repubbliche ribelli (Rpd e Lpd) hanno accerchiato tra i 6 e gli 8mila militari di Kiev, tra cui alcune divisioni paramilitari direttamente legate all’organizzazione neofascista Pravij Sektor. Una mancata tregua ne avrebbe comportato molto probabilmente l’annientamento. Dopo Minsk ai militari ucraini è stata riservata una mesta ritirata.
Ancora più drammatica, tuttavia, è la situazione economica e sociale in Ucraina.
L’economia del paese è crollata del 7% nel 2014 e la proiezione della Banca mondiale per il 2015 è di una diminuzione del Pil di un ulteriore 2%. Secondo l’Istituto nazionale di statistica, l’inflazione è cresciuta in maniera drammatica dall’1,2% dell’inizio del 2014 al 29% del gennaio di quest’anno.
La valuta nazionale è crollata del 30% del suo valore nel giro di due settimane, dall’inizio di febbraio.
Non è un caso che proprio il giorno dell’accordo, il capo del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, abbia annunciato un nuovo piano di salvataggio per l’Ucraina. Dei 17 miliardi di euro annunciati, probabilmente ne arriveranno solo 5, almeno secondo l’Economist. In cambio il Fmi chiede maggiore austerità: un taglio del 5% della spesa statale in rapporto al Pil nei prossimi tre anni, un programma simile a quello portato avanti dal governo greco tra il 2010 e il 2014.
“è un programma molto duro”, ha ammesso Lagarde. Tra gli obiettivi del Fondo, il pareggio di bilancio, verso la futura privatizzazione, di Naftogaz, gigante statale del gas, per l’aprile del 2017. Oggi l’azienda statale fornisce il combustibile al 20-30% del prezzo di costo.
Quello che non capiscono, o meglio preferiscono ignorare, i funzionari del Fmi sono le conseguenze sociali di un simile programma.
Il paese è già scosso da proteste sociali crescenti. Il governo di Kiev ha predisposto il richiamo alla leva di 100mila nuovi soldati. Per comprendere il grado di disperazione dell’esecutivo, sono stati richiamati gli abili al servizio militare dai 25 ai 60 anni! I risultati sono stati comunque scarsi. Dal 20 gennaio ad oggi, secondo i dati a disposizione, solo il 62% dei coscritti hanno risposto alla lettera di precetto. Già 7.500 ucraini sono stati perseguiti per renitenza alla leva, mentre i presidi delle madri sei soldati davanti agli uffici governativi sono ormai quotidiani.
Ritorna anche la lotta di classe: di fine gennaio è la notizia di uno sciopero spontaneo dei lavoratori del grande stabilimento ‘Yuzhmasch’ di Dnipropetrovsk. Da mesi non vengono pagati gli stipendi. La gran parte della produzione di componenti high-tech in precedenza era diretta alla Russia. Ora le esportazioni sono bloccate e gli impianti sono fermi. Il 28 gennaio scorso 1.500 minatori hanno manifestato a Kiev contro la chiusura delle miniere prevista dal governo che potrebbe portare alla perdita di 50mila posti di lavoro.
L’Ucraina è dunque un paese fallito, dove le promesse di gloria e di vittoria scandite a gran voce dagli oligarchi e dai nazionalisti si sono tramutate nel loro opposto. Il viaggio a Minsk di Poroshenko, anch’egli uno degli uomini più ricchi del paese, potrebbe rivelarsi fatale per il suo destino politico. Se concede l’autonomia alle repubbliche dell’Est, sarà deposto da un colpo di Stato dei battaglioni ultranazionalisti. Se si rifiuta e continua la guerra (l’opzione più probabile), incapperà in nuove sconfitte e sarà sostituito ugualmente dalle milizie di estrema destra, questa volta con il probabile aiuto della “democrazia” di Washington.
In maniera simile ad altri interventi, diretti o indiretti, portati avanti dall’imperialismo, sono state armate e finanziate delle forze che possono sfuggire al controllo dell’imperialismo stesso. Dopo la vittoria di Maidan i battaglioni paramilitari fondati dagli oligarchi e dai partiti politici di estrema destra hanno giocato un ruolo sempre maggiore. Questi battaglioni di volontari hanno sostenuto molti combattimenti nell’attuale conflitto, operando perlopiù in maniera indipendente dal governo. Quest’ultimo li ha considerati degli eroi, ma ora, di fronte a una sconfitta de facto nella guerra alle repubbliche dell’Est, la possibilità di una rivolta armata nei confronti del governo centrale non è affatto da scartare. Già quest’estate alcuni ufficiali del battaglione Azov, formato in buona parte da volontari neonazisti, proclamarono che una volta vinta la guerra all’Est, “avrebbero portato la battaglia fino a Kiev”. Potrebbero farlo di nuovo, e con rabbia ancora maggiore, oggi che la guerra è persa.
Ancora una volta l’esempio dell’Ucraina dimostra che nessuna guerra può essere vinta sulla base del “terrore bianco”, in un paese capitalista moderno. E questo vale ancora di più se questo terrore ha il volto della più bieca propaganda reazionaria e nazionalista portata avanti dalle forze di Maidan.
Contraddizioni nell’Est
Le repubbliche di Donetsk e Lugansk sono riuscite a resistere non tanto per l’aiuto della Russia, che pure a livello economico e di rifornimenti c’è stato, ma per l’esistenza di un movimento popolare di massa che, soprattutto nella primavera e nell’estate dello scorso anno, ha visto protagonista la classe operaia e i propri battaglioni pesanti, i minatori, che hanno addirittura costuituito propri battaglioni volontari. Per tali ragioni la resistenza antifascista delle repubbliche ha avuto dalla nostra Tendenza internazionale l’appoggio più convinto.
Nei mesi successivi abbiamo assistito tuttavia a una vera e propria “normalizzazione” della situazione politica e del dibattito interno.
Nelle elezioni del 2 novembre nella Rpd la lista del Partito comunista non è stata ammessa per “problemi procedurali”, secondo le autorità.
Ad inizio gennaio arriva la notizia del sequestro di quattro militanti di Borotba. Avvenuto in realtà tra Natale e Capodanno, i quattro militanti sono stati arrestati dal Battaglione Vostok. Alcuni giorni dopo, i quattro sequestrati, rinchiusi per due settimane, vengono liberati e contemporaneamente espulsi dalla Repubblica Popolare del Donetsk. Da questo episodio, Borotba non può più entrare nelle repubbliche di Donetsk e Lugansk, anche se gli attivisti sicuramente non sono intenzionati ad arrendersi.
Il conflitto sta assumendo sempre più le caratteristiche di un confronto puramente militare, dove l’aspetto politico e anti-oligarchico della lotta viene messo in secondo piano e come abbiamo visto le forze di sinistra indipendenti sono messe a tacere.
Nelle repubbliche popolari, infatti, molti battaglioni operano secondo propri obiettivi, ambigui e spesso riconducibili al nazionalismo russo più retrivo. In una situazione del genere i militari a Donetsk e Lugansk prendono sempre più potere mentre le forze anticapitaliste sono sempre più soffocate, lo si vede anche dal fatto che tutte le promesse di nazionalizzazione fatte fino ad oggi non sono state rispettate. Tale aspetto non è affatto irrilevante. Una posizione anti-oligarchica e un appello alle masse lavoratrici del resto dell’Ucraina potrebbero essere particolarmente preziosi, proprio ora che la crisi del governo di Kiev è sempre più profonda. L’obiettivo dei leader della Rpd e del Ppl sembra sempre più quello di congiungersi alla penisola di Crimea per creare così un territorio indipendente che si unifichi nei fatti a Mosca.
Non dubitiamo di un iniziale consenso popolare a una simile prospettiva, a Donetsk e Lugansk come nella stessa Russia. Putin e gli oligarchi russi hanno tuttavia ben poco da offrire nel contesto di un’economia capitalista in crisi: nel 2014 la crescita è stata pari a zero e la previsione del governo è di una diminuzione del Pil del 3% quest’anno. L’euforia iniziale lascerà ben presto il passo alla disillusione di fronte ai tagli e all’austerità imposti da Putin. Allo stesso tempo, una secessione taglierebbe la strada per tutto un periodo all’unità tra la classe lavoratrice dell’Est, con le sue tradizioni di lotta, e quella del resto dell’Ucraina, proprio ora che siamo alla vigilia di una possibile esplosione della protesta di massa ad ovest.
Tocca ai rivoluzionari difendere un prospettiva internazionalista e di classe, in Ucraina come in Russia, l’unica che sia in grado di opporre al nazionalismo degli oligarchi e delle forze reazionarie una reale alternativa, in grado di unificare tutti gli oppressi. Tra la barbarie imperialista e il vicolo cieco del nazionalismo c’è un’altra strada: quella della lotta di classe e della rivoluzione socialista in Ucraina, in Russia e in tutta Europa.
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BOX
La Drang nach osten della Nato
Nella sua strategia di allargamento a Est (Drang nach osten, appunto) la Nato ha deciso di aumentare da 13mila a 30mila uomini la “Forza di risposta della Nato”. È una forza di intervento che può mobilitare rapidamente una “Forza di punta” di 5mila uomini, dispiegabile in 48 ore, mentre tutti gli effettivi sono mobilitabili in una settimana.
Per non lasciare adito a dubbi su quale sia l’obiettivo di questa Forza, i sei centri di comando saranno installati immediatamente nei tre stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), nonché in Polonia, Romania e Bulgaria, quattro su sei nazioni confinanti con la Russia.
Il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, in una apposita riunione dei 28 ministri della difesa dei paesi aderenti all’alleanza atlantica il 4 febbraio scorso, ha definito tali misure “il più grande rafforzamento della Nato dalla fine della guerra fredda”.
La borghesia tedesca è riluttante rispetto all’intervento in Ucraina, ma è piuttosto baldanzosa riguardo al rafforzamento della sua presenza nell’Europa orientale. Un editoriale della Frankfurter allgemeine zeitung del 6 febbraio aveva un titolo significativo, “Germania al fronte”. Nello stesso articolo veniva riportata la decisione di raddoppiare gli effettivi delll’esercito tedesco nella base Nato di Stettino in Polonia.
La Germania, come l’Italia, partecipa al pattugliamento aereo dei paesi baltici deciso all’inizio della crisi ucraina dalla Nato. Il ministro della Difesa italiano, Roberta Pinottti ha deciso di prolungare fino a fine agosto la missione dell’aeronautica italiana in Ucraina, visto che i prossimi non “saranno mesi in cui la preoccupazione andrà scemando”.