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Questa rivista, che si pubblica in occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione, si pone due obiettivi. In primo luogo, quello di contribuire alla conoscenza di quegli avvenimenti, di fare insomma la nostra parte, grande o piccola che sia, affinché una conoscenza e una corretta valutazione dell’importanza della lotta partigiana di liberazione faccia parte del bagaglio politico dei nostri lettori e sostenitori.

Nella formazione dei militanti di oggi non si può prescindere da una conoscenza rigorosa della storia del movimento operaio e delle migliori tradizioni rivoluzionarie del nostro paese. Proseguiamo così uno sforzo che abbiamo iniziato con un precedente numero di In difesa del marxismo dedicato al biennio 1968-69 e che in futuro intendiamo proseguire affrontando altri punti decisivi della storia del movimento comunista e della lotta di classe in Italia.

Riteniamo decisivo tuttavia addentrarci anche nel dibattito che investe il tema della Resistenza, dibattito più che mai attuale (e basta scorrere le pagine di qualsiasi giornale in questi giorni in cui si avvicina il sessantesimo del 25 aprile, per rendersene conto).

Il dibattito storico non è mai il riflesso della “ricerca pura”, meno che mai il dibattito sulla Resistenza. Dietro alle interpretazioni, alle ricostruzioni, alle “scoperte” storiografiche, si manifestano in modo evidente gli interessi politici e di classe non solo di chi combatté allora sulle opposte posizioni, ma anche di chi oggi si scontra nella società italiana. Un dibattito, insomma, che non è sul passato, ma sul presente e sul futuro.

L’offensiva delle destre contro la Resistenza è oggi martellante. Si propone apertamente di cancellare il carattere del 25 aprile come celebrazione della liberazione dal nazifascismo, si propongono leggi che equiparano i combattenti di Salò ai partigiani, si conducono campagne contro l’infiltrazione “comunista” nei libri di testo scolastici. Berlusconi è stato capace di andare ad Auschwiz nella giornata della Memoria (che, non dimentichiamolo, si celebra nell’anniversario della liberazione di Auschwiz per mano dell’Armata rossa) a pronunciare un discorso contro i crimini “del fascismo e del comunismo”.

Di questa vasta produzione reazionaria rimane un vertice insuperato (solo finora, temiamo) lo sceneggiato televisivo “Il cuore nel pozzo”, culmine di una lunga campagna sulla vicenda delle foibe, campagna in passato veniva condotta solo dalle forze dell’estrema destra ma che in questi anni ha pervaso l’intero centrodestra e si è aperta non pochi varchi nello stesso centrosinistra grazie alle uscite di personaggi come Illy, Violante, ecc.

La risposta a sinistra è stata debolissima e le posizioni avanzate da Bertinotti nel corso dell’ultimo periodo non hanno certo contribuito a rafforzarla: una protesta di tipo moralistico, che si limita a proclamare che la guerra è orrore, incapace di discernere persino le più macroscopiche menzogne della destra, che mescola in un unico calderone guerra imperialista, lotte di resistenza, atti di terrorismo, sollevazioni rivoluzionarie… Su questo tema invitiamo i lettori a consultare gli articoli da noi pubblicati in passato, in particolare La lotta partigiana presso il confine orientale: una rilettura necessaria, di Gabriele Donato, reperibile sul nostro sito, assieme al vasto materiale da noi pubblicato riguardante la polemica che in questi mesi ha attraversato il Partito della rifondazione comunista.

A nostro avviso, tuttavia, per giungere a una vera comprensione della Resistenza, del suo carattere, del motivo per cui ottenne una così profonda adesione da parte dei lavoratori italiani, non è sufficiente lo smascheramento e la demistificazione delle volgari menzogne della destra reazionaria. Il percorso verso tale comprensione, soprattutto per i più giovani, appare come una vera e propria corsa a ostacoli. Ostacoli frapposti da una complessa e pesante stratificazione di mitologie che hanno teso, in questo mezzo secolo e più, a cristallizzare una visione asettica, depurata e diremmo oggi “politicamente corretta” della lotta di liberazione.

Dietro le concezioni della Seconda guerra mondiale come pura e semplice “guerra liberatrice contro il fascismo”, dietro le raffigurazioni della resistenza come puro e semplice “riscatto nazionale” (il “nuovo risorgimento” di cui parlava la propaganda del Pci di epoca togliattiana), scompaiono le reali motivazioni che determinarono la politica bellica dei vari schieramenti, scompare si rende impossibile una seria comprensione delle profonde divisioni, divisioni di classe, che attraversavano il campo dell’antifascismo, e soprattutto scompare ogni riferimento alla lotta di classe e alle profonde aspirazioni rivoluzionarie che motivarono tanti dei combattenti di quella lotta, in Italia come nel resto d’Europa.

Non è possibile nel breve spazio di questa presentazione affrontare l’insieme di questi temi. Basti qui ricordare che l’intera guerra nel Mediterraneo e la campagna d’Italia in particolare fu completamente condizionata dagli interessi dell’imperialismo inglese (non sempre precisamente coincidenti con quelli americani) e dal conflitto a distanza con l’Urss. La politica mediterranea di Churchill aveva due assi al suo centro: il primo era la difesa dei possedimenti coloniali in Medio oriente e delle linee di comunicazioni vitali dell’impero britannico. Il secondo era la lotta contro l’influenza tedesca prima e sovietica poi nella penisola balcanica. Il teatro mediterraneo rimase per quattro anni l’unico terreno di scontro diretto fra la Germania e le potenze occidentali (un teatro di gran lunga secondario rispetto al fronte russo, dove l’esercito tedesco concentrava dal 70 all’80 per cento delle proprie forze); ma dopo Stalingrado risultò evidente che l’Armata rossa aveva invertito il corso della guerra all’est. La speranza inizialmente accarezzata dalle potenze occidentali, e cioè che la Germania e l’Urss si dissanguassero a vicenda lasciando poi il campo libero, andava in frantumi e si poneva invece agli angloamericani il problema di evitare che il crollo della Germania aprisse le porte all’espansione sovietica. Su queste basi accelerarono i preparativi per lo sbarco in Francia e, parallelamente, si pose il problema dell’Italia e dei Balcani.

Non era solo un problema militare o di zone d’influenza; il prevedibile tracollo dell’Asse apriva le porte al pericolo insurrezionale. In Jugoslavia, in Grecia, in Albania e, a partire dal 1943, in Italia, il movimento di resistenza vedeva un ruolo sempre più marcato dei partiti comunisti, dei lavoratori e dei contadini. Come sempre, in ogni paese occupato la classe dominante tende al collaborazionismo mentre le classi oppresse sono in prima fila nella lotta contro l’oppressione straniera. Tutta la storia della campagna d’Italia conferma come ogniqualvolta si pose concretamente la possibilità dell’insurrezione, ogniqualvolta si apriva un varco nel quale le masse avrebbero potuto avanzare con un proprio movimento indipendente, in tutti questi casi l’azione concorde degli angloamericani e della borghesia italiana in tutte le sue espressioni, dalla monarchia, ai vertici dell’esercito, ai partiti borghesi inseriti nel campo antifascista, metteva in primo piano non la lotta contro i nazifascisti ma il contenimento del pericolo rivoluzionario. Fu così fra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943, fu così nel 1944, ad esempio di fronte al problema della liberazione di Roma, fu così, infine, nelle decisive giornate della primavera del 1945. A ogni svolta decisiva del movimento di liberazione, gli interessi di classe della borghesia prevalsero sulla cosiddetta “unità” antifascista.

Del resto non fu certo questo solo il caso dell’Italia. La borghesia è sempre patriottica fino a quando la “difesa della patria” non entra in qualche modo in conflitto con il suo dominio di classe. Questo spiega perché, ad esempio, nel 1940 la borghesia francese preferì arrendersi a Hitler dopo una campagna militare di sole sei settimane piuttosto che condurre una lotta ad oltranza armando la popolazione di Parigi: lo spettro di una nuova Comune era molto più spaventoso, ai suoi occhi, dello spettro della dominazione tedesca.

In questo contesto fu decisivo il ruolo dello stalinismo. Le vittorie militari dell’Urss alimentarono la speranza che la guerra contro il nazifascismo assumesse il carattere di una rivoluzione sociale. Tale era l’attesa di migliaia e migliaia fra i combattenti della lotta partigiana, e di centinaia di migliaia di lavoratori che negli scioperi di massa del 1943-44 manifestarono chiaramente la loro volontà di farla finita non solo col fascismo, ma anche col capitalismo che lo aveva generato. Tale attesa si concretizzava anche nell’adesione di massa ai partiti operai e in particolare al Pci. Ma proprio qui sta la più grande contraddizione e la maggiore tragedia di quell’epoca: e cioè che né Stalin, né Togliatti erano in alcun modo disposti a permettere un simile sviluppo.

Il prestigio dell’Unione sovietica e dell’Armata rossa si sommava al fermento rivoluzionario crescente che generava un afflusso di massa verso i partiti comunisti che assunsero il ruolo decisivo nella lotta partigiana in Italia, in Jugoslavia, in Francia, in Grecia, in Albania. Tuttavia la prospettiva di una rivoluzione in occidente era al di fuori della politica di Stalin. In ogni occasione l’influenza dell’Urss fu volta non a stimolare ma a bloccare o ritardare questo genere di sviluppi. In Cina, dove negli stessi anni l’armata di Mao era impegnata in una lotta su due fronti, contro l’occupante giapponese e contro il regime di Chiang Kai-shek, alla fine della guerra Stalin propose al Partito comunista cinese di cercare un accordo con Chiang. Analoga fu la politica di Stalin in Grecia, nei Balcani e anche in Italia.

Stalin sanciva questa politica sciogliendo l’Internazionale comunista, proprio a ridosso della conferenza di Teheran con Churchill e Roosevelt: una sorta di dichiarazione formale di rinuncia alla rivoluzione mondiale, in realtà già da tempo seppellita sotto le mille svolte e controsvolte che avevano trasformato l’Internazionale rivoluzionaria dei tempi di Lenin in una appendice delle necessità della politica estera dell’Urss.

Di questa contraddizione le masse non erano coscienti; tanti militanti e quadri comunisti espressero in forma embrionale l’aspirazione a portare fino in fondo il movimento rivoluzionario, magari pensando di interpretare la “vera” linea del Pci e dell’Urss (contrapposta a una linea di collaborazione che credevano solo tattica, di facciata e momentanea). Ma, privi di punti di riferimento su scala nazionale e internazionale, poterono solo tentare di avanzare di qualche passo su quella via in singoli episodi di lotta che tuttavia erano fatalmente destinati a infrangersi contro il muro costituito dalla ferrea determinazione del gruppo dirigente togliattiano a non permettere alcuno sviluppo di forze alla sua sinistra.

Fu dunque per queste vie, mescolando repressione e inganno, ricatto e promesse, che la borghesia italiana poté riprendere il controllo del paese con la decisiva collaborazione del gruppo dirigente del Pci. Lo sciopero insurrezionale che nel luglio del ’48 seguì l’attentato a Togliatti fu il canto del cigno di quel grande movimento, l’ultimo tentativo dei lavoratori e dei partigiani di riprendere in mano un potere che avevano sentito fra le loro mani dopo il 25 aprile e che invece passo dopo passo era stato loro sottratto. Lo sciopero insurrezionale non a caso scoppiò al di fuori del controllo del Pci e dell Cgil, in un’esplosione di furore sponaneo che vide in molti casi i partigiani mettersi in prima fila nella lotta, convinti che l’attentato a Togliatti costituisse l’inizio della repressione aperta e che fosse quindi giunta l’ora della lotta insurrezionale per il potere. Priva di un centro dirigente, con tutto il vertice del Pci proteso disperatamente a evitare gli “eccessi”, l’ondata spontanea si spense tuttavia dopo pochi giorni. La borghesia ribadiva la sua vittoria scatenando una vasta ondata di repressione antioperaia e anticomunista e inaugurando la lunga stagione del dominio democristiano.

In tanti hanno lavorato, in questi decenni, per sminuire e cancellare la portata rivoluzionaria della Resistenza. L’esito finale, la rivalsa democristiana e la stabilizzazione del dominio borghese in Italia e in Europa dopo il 1948 sono stati l’argomento “inappellabile” per dimostrare che la rivoluzione era “impossibile”. Contro questa posizione si sono espresse in passato le voci di tanti militanti comunisti che hanno lottato affinché la memoria di quella speranza rivoluzionaria non venisse spenta sotto le interpretazioni patriottiche, democraticistiche e “ufficiali” della loro lotta; negli articoli di questa rivista vengono richiamate le elaborazioni di alcuni di questi militanti e le loro testimonianze. A loro e a tutti coloro che intendono raccogliere quel testimone, è dedicata la pubblicazione di questa rivista.

 

11 aprile 2005
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