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Appunti sulle prospettive economiche internazionali

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su FalceMartellonº 149, 19 luglio 2001

I dati più recenti provenienti dagli Usa, dalla Germania e dal Giappone, fanno pensare che il lungo ciclo di boom economico iniziato negli Usa nel 1991 sia ormai giunto al termine.

 

Sugli scaffali delle librerie e sulla stampa economica si affacciano titoli inequivocabili: “La fine dell’euforia”, “Verso la recessione, ma senza panico”, e via di seguito. La domanda ricorrente non è se si entrerà in recessione, ma quanto questa potrà durare e che effetti avrà.

Dopo la crisi asiatica del 1997 molti, compreso chi scrive, pensavano che in breve tempo la crisi si sarebbe estesa a livello internazionale. Così non è stato e anzi dopo un rallentamento nel 1998, l’economia ha ripreso a correre toccando l’apice a cavallo tra il 1999 e il 2000. La seconda metà del decennio, quindi, appare retrospettivamente come quella dell’espansione economica più forte, perlomeno in Usa e in Europa. Quali cause hanno permesso di assorbire il colpo della crisi asiatica?

Diversi fattori hanno concorso, sia economici che politici. Proviamo a indicarli brevemente.

1) L’investimento in nuove tecnologie, in particolare negli Usa, ha avuto conseguenze importanti sia sulla produttività del lavoro che sulla riduzione dei costi del capitale fisso: due elementi chiave nel mantenere alto il tasso di profitto.

2) L’enorme predominio degli Usa, a livello non solo economico, ma anche strategico-militare, ha permesso al capitalismo Usa di diventare il punto d’approdo di tutti i capitali che fuggivano dai mercati emergenti. Questo ha contribuito a sostenere il valore del dollaro, che a sua volta ha aumentato l’attrazione del mercato americano. Wall Street è diventata, almeno fino all’inizio del 2000, un’enorme calamita per i capitali di tutto il mondo.

3) Questo ha permesso di alimentare oltre ogni logica la “bolla” speculativa nella borsa. I profitti facili ottenuti nella speculazione borsistica hanno sostenuto sia i redditi e i consumi delle famiglie, sia i profitti delle aziende.

4) Grazie a questo meccanismo, e grazie all’alto valore del dollaro, il mercato Usa ha potuto assorbire una enorme quantità di beni prodotti in tutto il mondo, sostenendo la domanda mondiale.

Tutto questo non è stato privo di conseguenze. La bolla speculativa del Nasdaq si è sgonfiata nel corso del 2000, con un calo di circa il 60% rispetto ai massimi. Un altro effetto è stato quello di gonfiare a dismisura il deficit commerciale Usa, che è cresciuto come da tabella 1.

Tabella 1

Il deficit Usa

(saldi della bilancia dei pagamenti, miliardi di dollari)

1993

-82,7

1994

-118,6

1995

-109,5

1996

-123,3

1997

-140,5

1998

-217,5

1999

-331,5

2000

-435,4

La parte finale del ciclo (1998-2000) ha visto sì una crescita economica importante, ma ha anche significato l’accumularsi di grandi contraddizioni, in particolare negli Usa. Gli stessi fattori che hanno permesso il prolungamento del boom ora hanno l’effetto opposto: il deficit commerciale, la forza eccessiva del dollaro, la speculazione borsistica contribuiscono ad aggravare la prospettiva economica.

I dati sul ciclo in Usa

L’anno 2000 ha visto il ciclo Usa raggiungere il suo picco, con una crescita del Pil pari al 5% su base annua. Tuttavia già nel corso del 2000 è cominciata la brusca frenata dell’economia Usa. La crescita del Pil su base trimestrale, infatti, è stata come segue:

II trimestre: +5,6%

III trim.: +2,2%

IV trim.: +1,0%

I trim. 2001: +1,3%

Le ultime stime parlano di un +0,5% nel secondo trimestre del 2001

I dati della produzione industriale confermano e chiariscono l’andamento del ciclo Usa. Per 9 mesi di fila, da settembre 2000 a maggio 2001, l’utilizzo della capacità produttiva dell’industria è in calo. In altre parole, le fabbriche non girano a pieno regime. Si tratta di un dato estremamente importante, poiché è in genere l’indice più sicuro della saturazione del mercato, ossia della sovrapproduzione.

Osserviamo nella tabella 2 l’andamento di questo indice da un punto di vista storico negli ultimi vent’anni, che hanno visto due crisi (1979-82 e 1990-91) svilupparsi negli Usa.

La tabella indica le percentuali di utilizzo della capacità produttiva nell’industria. È chiaro quindi che quando indichiamo l’apice del ciclo non intendiamo il punto in cui la produzione raggiunge il suo livello massimo in termini di volumi, ma il punto in cui vi è il massimo utilizzo della capacità produttiva installata, in altre parole il punto oltre il quale può cominciare a manifestarsi la tendenza alla sovrapproduzione.

Tabella 2

Utilizzo della capacità produttiva nell’industria Usa

(percentuali)

 

anno

mese

Apice del ciclo

1979 (86,0)

feb. ’79 (87,1)

Massima crisi

1982 (74,5)

dic. ‘82 (71,1)

 

 

 

Apice del ciclo

1989 (84,1)

mar./apr. ‘89 (85,3)

Massima crisi

1991 (79,3)

gen. ‘92 (79,1)

 

 

 

Apice del ciclo

1997 (83,5)

ott./nov. ‘97 (83,9)

Massima crisi

?

(ultimo dato)

mag ‘01 (77,4)

In altre parole, questo indice ha un certo valore di anticipazione dell’andamento del ciclo.

Un altro dato che indica il rallentamento economico in Usa è l’utilizzo dell’energia elettrica, che sta calando dal mese di novembre, come segue.

indice: 1992=100

nov. 2000 = 109,7

mar. 2001 = 102,0

Quali sono i settori in crisi? È lampante che nel settore legato alle nuove tecnologie ci sia una crisi potenzialmente devastante. La crescita della produzione nelle industrie ad alta tecnologia è stata il traino del boom, particolarmente nella seconda fase (dopo il 1995). La tabella 3 mostra la rapidissima crescita del settore negli ultimi anni, e il brusco calo con cui è terminata.

Tabella 3

Boom e crisi del settore alte tecnologie in Usa

(variazioni della produzione, in percentuale)

 

tutto il settore

semiconduttori e

 

 

componenti elettroniche

1998:

+37,2

+45,7

1999:

+40,6

+47,8

2000:

+55,3

+73,4

 

 

 

I trim. ‘00

+70,4

120,5

II trim. ’00

+56,9

66,4

III trim. ’00

+25,2

23,3

IVtrim. ‘00

-5,7

-9,0

Più che di una frenata, in questo caso si potrebbe parlare di una macchina lanciata a tutta velocità che va a sbattere contro un muro…

Il motivo di questo tracollo è presto spiegato: c’è una sovrapproduzione enorme, che non trova più sbocchi. A questo si aggiungono gli effetti del crollo delle azioni new economy durante tutto lo scorso anno. Un articolo del Corriere Economia (25 giugno) spiega la situazione nel settore delle fibre ottiche, cioè i cavi per i collegamenti internet ad alta velocità. Secondo uno studio della Merrill Lynch, solo il 2,6% degli investimenti fatti in questo settore hanno generato ricavi per le società. “Gli altri 87,66 miliardi, vale a dire oltre 200mila miliardi di lire, rappresentano investimenti che potrebbero restare inattivi per molti anni. E gran parte dei quali, dicono numerosi esperti americani, rischia di non essere mai attivata.” Questo ha effetti sulla Borsa, deprimendo ulteriormente gli indici: “Dall’inizio dell’anno, le insolvenze di debiti obbligazionari delle telecom hanno causato, negli Usa, 12,8 miliardi di dollari di perdite per gli investitori, che vanno ad aggiungersi ai 5,2 miliardi di dollari bruciati nel 2000. Complessivamente, le obbligazioni di telecom assommano, in questo momento, a 650 milardi di dollari, e a Wall Street c’è chi prevede che, prima che le acque si calmino, le perdite degli investitori supereranno i 150 miliardi di dollari del più grosso buco finanziario della storia economica americana, quello causato dai fallimenti a catena delle casse di risparmio alla fine degli anni Ottanta.” Ulteriore conseguenza, 100mila posti di lavoro persi nel settore nel giro di 18 mesi.

Accertata la crisi profonda del settore delle alte tecnologie, due sono le domande da farsi. Primo: possono gli altri settori dell’economia Usa contribuire a riequilibrare la situazione evitando così una recessione profonda? Secondo: possono altre aree dell’economia mondiale svolgere un ruolo di traino tale da sostituire, almeno in parte, la domanda che viene a mancare dagli Usa?

Proviamo a rispondere, nell’ordine, alle due domande

L’occupazione

La disoccupazione ha raggiunto il minimo storico nell’ottobre del 2000 con un tasso ufficiale del 4,0%. Da allora c’è stato un certo aumento fino a giungere al 4,5% di aprile. I dati più recenti indicherebbero una svolta negativa, le cui proporzioni non sono però ancora chiare. Da luglio a maggio, l’industria manifatturiera ha perso 675mila posti di lavoro, dei quali oltre due terzi sono stati persi dopo dicembre.

Il calo è stato particolarmente marcato nel mese di maggio. In generale negli altri settori dell’economia non si sentono ancora gli effetti della crisi, e l’occupazione è ancora sostanzialmente stabile.

Resta il fatto che non si vede, allo stato attuale, come l’economia Usa possa invertire la tendenza nei prossimi mesi. La linea di Bush e Greenspan è quella di sostenere i profitti delle imprese, con l’obiettivo di rilanciare gli investimenti. Le due leve impiegate sono il taglio dei tassi d’interesse (che dovrebbe sostenere i profitti e favorire il credito) e la riduzione delle tasse per le imprese e per i redditi più alti. È tutto da dimostrare, però, che queste misure potranno rilanciare gli investimenti. In primo luogo, esiste negli Usa (e anche nei paesi asiatici) una enorme capacità produttiva che fatica a essere impiegata; in secondo luogo, c’è un declino dei profitti (-4,8% per le principali 500 aziende Usa, primo trim. 2001). Ora, è del tutto chiaro che in mancanza di chiari sbocchi di mercato e di una prospettiva di profitti ragionevoli, saranno ben poche le imprese disposte a rischiare investimenti massicci.

L’unica proposta realmente “anticiclica” di Bush è il programma di spese militari, in particolare il rilancio dello “scudo spaziale” (Nuclear Missile Defence, Nmd), che può creare un mercato significativo per l’industria.

Effetti internazionali: Usa e Asia

La frenata dell’economia Usa ha già cominciato a colpire duramente le economie asiatiche, che sono sue fornitrici. Nel primo trimestre le importazioni Usa sono calate del 5,5%, e nel secondo di un ulteriore 1,9%. Nel secondo trimestre del 2001 paesi dell’Asia orientale vedono calare le loro esportazioni come da tabella 4:

Tabella 4

Esportazioni dei paesi asiatici

(Secondo trim. 2001, variaz. %)

Cina

-10,6

Taiwan

-3,1

Corea

-13,5

Giappone*

-4,7

* Primo trim.

 

Questi dati dimostrano quanto sia fragile la ripresa asiatica, e soprattutto come sia legata a doppio filo al mercato americano e ne subisca tutte le evoluzioni.

L’economia giapponese non accenna a uscire da un decennio di sostanziale stagnazione. Al contrario, dopo una modesta ripresa nel 1999-2000, il Pil è nuovamente in calo (-0,2% nel primo trimestre); così come la produzione industriale, il commercio al dettaglio, l’occupazione regolare.

Inoltre, come abbiamo già segnalato in passato, ha già bruciato enormi risorse nel tentativo di rilanciare l’economia attraverso la spesa pubblica, con risultati modesti. Al tempo stesso il debito pubblico giapponse è esploso fino a raggiungere il 130% del Pil, una cifra peggiore del punto più critico toccato dall’Italia all’inizio degli anni ’90.

Le imprese e soprattutto le banche giapponesi sono cariche di debiti, e con i tassi d’interesse vicino allo zero, e con le banche caricate di almeno 50 miliardi di dollari di crediti inesigibili, ci sono ben poche possibilità di sanare la situazione attraverso semplici meccanismi di mercato. In caso di fallimenti a catena, sarà ancora lo Stato a dover intervenire. Tutto lascia pensare quindi che nei prossimi anni il Giappone, lungi dall’essere un traino per l’economia internazionale, sarà piuttosto una palla al piede che potrà divorare risorse considerevoli.

Usa ed Europa

Negli scorsi anni l’Unione europea ha beneficiato, come tutte le altre economie, della domanda di merci proveniente dagli Usa. Ora, però, con la prospettiva di una crisi, i nodi vengono al pettine: Usa e Unione europea si trovano sempre più spesso a scontrarsi sul terreno commerciale, diplomatico e militare.

L’ultimo episodio eclatante riguarda la scalata tra il colosso Usa General Electrics sulla Honeywell, bocciata dal commissario europeo per la concorrenza Mario Monti. Naturalmente Bruxelles non ha il potere di impedire a due imprese di fondersi in terra americana, ma può porre tali e tanti ostacoli al loro operare sui mercati europei, da rendere poco vantaggiosa la fusione. Precisamente questo è quanto avvenuto in questo caso (la più grande “scalata” di un’azienda su un’altra, con un’offerta di 42 miliardi di dollari).

Le motivazioni reali del veto europeo sono evidentemente protezionistiche, volte a difendere la presenza di imprese europee come Rolls Royce e Thales e la stessa Honeywell nel mercato dei motori per aerei e della strumentazione elettronica. Si tratta dell’ultimo di una serie di episodi, come segnala il Corriere Economia del 25 giugno: Time Warner-Emi, Mci-sprint e Volvo-Scania, Aol-Time Warner. Altri scontri seguiranno, a partire dalla guerra a tutto campo nell’aviazione civile fra il consorzio europeo Airbus e l’americana Boeing.

Il conflitto non riguarda solo il terreno puramente commerciale: i contrasti “ambientali” sugli ormoni, gli Ogm, gli accordi di Kyoto, ecc. sono prima di tutto contenziosi commerciali. Lo stesso dicasi per il progetto americano di scudo spaziale, che mette i paesi europei sotto un evidente ricatto: o accettare di restare schiacciati dalla superiorità tecnologica Usa nel campo militare, o impegnarsi a loro volta in una gravosa corsa al riarmo spaziale.

Il clima generale del commercio mondiale è destinato a deteriorarsi, in particolare a causa della posizione a medio termine insostenibile del dollaro: “Per la prima volta da quando il dollaro ha iniziato a rafforzarsi, le imprese americane iniziano a chiedere a Washington di far scendere il cambio della valuta rispetto a euro e yen per sostenere le esportazioni”. (Corriere Economia, 25/6/01) In un contesto di rallentamento della produzione e del commercio internazionale, se gli Usa imboccassero la via della svalutazione competitiva questo significherebbe un disastro per tutti i loro concorrenti. Tuttavia, la borghesia americana non può imboccare a cuor leggero questa strada. Il controllo del dollaro, cioè della principale valuta mondiale, è una leva fondamentale che non possono e non vogliono abbandonare, e quindi cercheranno di impedire un calo eccessivo della propria moneta.

Crisi di egemonia

L’aspetto più peculiare di questa recessione è che da un lato essa comporterà una crisi nell’egemonia americana sul mondo, ma dall’altro non esiste una potenza in grado di sostituirla, così come non esiste una moneta in grado di sostituire il dollaro sui mercati mondiali.

Gli Usa incontreranno difficoltà crescenti in primo luogo nel tenere sotto controllo la situazione nei paesi sottosviluppati, dove le crisi “periferiche” (sia economiche che sociali e politiche) si producono ormai con regolarità dal 1995 (Messico, Argentina, Brasile, Ecuador, Filippine, Indonesia, Malesia, Turchia, Medio oriente, ecc.). Al tempo stesso hanno una difficoltà crescente a imporre il proprio volere agli altri protagonisti della politica mondiale. La Russia di Putin è ben lontana dall’atteggiamento servile di quella di Eltsin, come dimostra lo scontro sullo scudo antimissile, e su questo terreno converge con l’Europa; il rapporto fra Usa e Cina rimane pieno di attriti (vedi anche l’articolo Cina, Usa, Pacifico dopo l’incidente dell’aereo spia, FalceMartello nº 147); infine crescono le divisioni con l’Europa, come abbiamo già spiegato.

Teoricamente l’Europa avrebbe l’occasione di avvantaggiarsi da questa situazione approfittando delle difficoltà degli Usa. Il problema rimane tuttavia quello di sempre: l’economia europea ha dimensioni paragonabili a quella americana, ma gli Stati europei sono dei nani che non possono ambire a competere su scala mondiale.

È possibile che da questa situazione il processo di unificazione europea prenda ulteriore spinta, avviandosi alla costruzione di un “superstato” che sarebbe - questo sì - in grado di porsi come concorrente alla pari nei confronti degli Usa nella lotta per il predominio mondiale?

A nostro avviso questo è uno sviluppo estremamente improbabile. In realtà, una volta approvata la moneta unica, il processo di unificazione è giunto a uno stallo con il trattato di Nizza. Questo stallo, finora tenuto nascosto, emerge chiaramente dopo il referendum con il quale gli irlandesi hanno bocciato il trattato e quindi la proposta di allargamento dell’Unione.

Diventa sempre più difficile far procedere in modo consensuale il processo di unificazione; infatti, da un lato è sempre più evidente come il metodo di prendere decisioni da ratificarsi all’unanimità rischia di portare alla paralisi completa; dall’altra parte, un tentativo serio di passare a un metodo di votazioni a maggioranza su questioni decisive aprirebbe rapidamente i conflitti tra i maggiori paesi, a partire da Germania e Francia; il timore, già forte oggi, è che con l’allargamento ad est il capitalismo tedesco potrebbe crearsi una solida maggioranza nell’Unione (la maggior parte dei paesi candidati all’entrata nell’Ue sono satelliti della Germania) e imporre in modo schiacciante la propria volontà agli altri paesi, che sarebbero spinti a creare una coalizione contrapposta per riequilibrare la distribuzione del potere.

Se a questo aggiungiamo che gli Usa non sono certo spettatori passivi di questo processo, ma hanno l’interesse a mantenere l’Europa in uno stato di relativa debolezza e divisione, e se aggiungiamo le ulteriori contraddizioni che si aprirebbero se anche la Gran Bretagna dovesse aderire all’Euro, crediamo che si imponga una conclusione chiara: la crisi economica internazionale e le difficoltà che ne seguiranno tenderanno ad alimentare i conflitti in Europa, piuttosto che ad attenuarli.

La crisi che si sta sviluppando conferma una volta di più come l’economia capitalista non può abolire il ciclo boom-recessione, a dispetto di tutte le chiacchiere dispensateci negli scorsi anni a proposito della new economy e delle sue meraviglie. Sebbene sia ancora presto per dire fino a che punto la recessione sarà profonda e duratura, si può già da ora affermare che segna il passaggio da una fase all’altra. Il decennio degli anni ’90 ha visto una ripetizione, più breve, dell’“età dell’oro” americana. Quell’epoca, parliamo degli anni ’50 e ’60, finì in una crisi economica e politica di grandi proporzioni, in un’esplosione di lotte di classe in tutto il mondo, in una importante avanzata della rivoluzione nei paesi coloniali.

La crisi attuale segnerà il passaggio a una nuova fase. Il dominio incontrastato degli Usa sarà messo in discussione, nuovi conflitti internazionali si delineano all’orizzonte, e soprattutto sono sempre più numerosi i segnali che la pace sociale che ha dominato gran parte del mondo capitalista avanzato si avvia a terminare. I processi rivoluzionari a livello internazionale hanno subìto in generale un rallentamento o un arretramento nel corso degli anni ’90.

Gli sconvolgimenti della nuova fase economica contribuiranno a invertire il flusso degli avvenimenti e a rimettere all’ordine del giorno la questione dei limiti del capitalismo e della necessità di un’alternativa rivoluzionaria.

fonti: Fed, Fmi, Department of Labor, Bank of Japan, Banca d’Italia, Bundesbank

 

 

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