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La farsa delle elezioni irachene

 

 

I colloqui di Sharm el Sheik tra Abu Mazen e Sharon e le elezioni irachene di fine gennaio sono due tasselli fondamentali della svolta impressa dalla nuova amministrazione Bush per limitare i danni dell’avventura irachena.


Le dichiarazioni a favore di una svolta democratica e pacificatrice nascondono però la prosecuzione dell’aggressione imperialista con altri mezzi.

La quiete prima della tempesta

“Oggi suonano le campane, domani si mangeranno le mani.”

Robert Walpole

 

La macchina della propaganda era ben oliata e pronta ad entrare in funzione: i discorsi pronti da settimane, già scritti a Washington da gente sveglia, ci hanno raccontato come le elezioni in Iraq siano state un grande successo, un trionfo della democrazia, con milioni di iracheni generosamente in fila indiana a votare per la libertà, per la sconfitta della legge del terrore e la vittoria della democrazia, per un futuro luminoso del paese e altre simili amenità.a

Domenica 28 agosto il governo iracheno ha licenziato la bozza di carta costituzionale. Scritta dall’inviato americano Zalmay Khalilzad, ex-ambasciatore in Afghanistan, la Costituzione indica nell’Islam la principale fonte del diritto della Repubblica parlamentare e democratica irachena, e prevede la suddivisione del paese in regioni e macroregioni le quali avranno potere legislativo, di controllo sulle risorse naturali (gas e petrolio) e disporranno di loro forze di sicurezza e di reparti militari. Il testo della Costituzione andrà al voto il 15 ottobre prossimo. Se due terzi dei votanti in almeno tre provincie sulle diciotto in tutto si esprimessero contro la bozza, dovrebbero essere ripetute le elezioni del 30/1 scorso e ricominciare daccapo tutto il percorso.

Una falsa "democrazia" imposta a colpi di cannone

 

Sorda ad ogni rovescio, decisa a travolgere ogni ostacolo, l’amministrazione Bush continua la sua marcia a tappe serrate verso l’inevitabile escalation del conflitto iracheno.

Le elezioni farsa del 30 gennaio, logica conseguenza dell’altrettanto farsesco passaggio di poteri dalla Coalition Provisional Authority (Cpa) di Bremer al governo fantoccio di Allawi, inscenata frettolosamente lo scorso 28 giugno, maschera un ulteriore, inevitabile aumento dell’esposizione militare nordamericana in Iraq.

A Falluja l’esercito americano ha portato avanti una delle più grosse operazioni militari dai tempi del Vietnam: i soldati statunitensi per diversi giorni hanno messo a ferro e fuoco un’intera città. La distruzione e i massacri prodotti da questo attacco rappresentano un atto criminale inaudito verso il popolo iracheno. In tutto l’Iraq è il caos. La lotta fra l’esercito occupante e la guerriglia irachena attraversa ogni parte del paese.

E lo stato confusionale del centrosinistra

Lo sviluppo degli avvenimenti in Iraq possiede un ritmo che per tanti commentatori è del tutto inaspettato. Un anno e mezzo fa tutto pareva rientrare negli schemi dei benpensanti che affollano i “talk-show” televisivi. Gli Stati Uniti d’America avevano sconfitto rapidamente un dittatore come Saddam Hussein, annichilito le aspirazioni di libertà delle masse arabe e le proteste dei pacifisti in tutto il mondo e ristabilito l’ordine in una regione del mondo, il Medio Oriente, chiave per i destini del capitalismo mondiale.

La cattura di Saddam Hussein, avvenuta la mattina del 13 dicembre, ha dato agli angloamericani una piccola boccata d’ossigeno, ma lo scenario non diventa per questo più favorevole all’imperialismo e sarebbe un errore scambiare le manifestazioni di giubilo di pochi (in alcuni casi - documentati - pasturate da qualche dollaro distribuito ai passanti per gioire davanti alle telecamere), per l’inizio di una luna di miele fra le masse irachene e l’Amministrazione coloniale.

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