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Nell’ultimo periodo è balzato agli onori della cronaca il drammatico problema delle diffuse violenze sessuali in India. Le azioni brutali presentateci sui giornali, con stupri di gruppo e omicidi ai danni di alcune bambine, mostrano solo la punta dell’iceberg di quello che è, invece, un dramma quotidiano, che coinvolge migliaia di donne in uno stato di costante sopraffazione e degrado.

La vittoria schiacciante del BJP e l’ascesa fulminea di Narendra Modi come leader populista hanno stordito un gran numero di analisti laici e progressisti in India e a livello internazionale. Speravano in realtà, contro ogni logica, che il risultato fosse diverso dalle previsioni degli esperti sui media borghesi.

Negli ultimi due mesi un movimento di protesta di massa ha scosso la regione del Gilgit-Baltistan, una regione del Pakistan che confina con Cina, India e Afghanistan. Il movimento è nato inizialmente come una reazione agli aumenti dei prezzi dovuti alla rimozione dei sussidi governativi per la vendita del grano nel Gilgit-Baltistan.

Quest'anno, il 33° congresso di “The Struggle” (“La Lotta”, sezione pakistana della Tendenza Marxista Internazionale) è stato atteso con grande aspettativa. Il neoeletto governo di destra della Lega Musulmana di Nawaz Sharif sta dando il segnale per nuovi e severi attacchi alla classe lavoratrice e in questo contesto “The Struggle” e la PTUDC (Campagna per la difesa dei sindacati in Pakistan) sono in prima linea nell'organizzare il contrattacco.

Il 9 ottobre è trascorso un anno da quando la tranquilla valle dello Swat fu improvvisamente travolta dal dolore e dall’angoscia per il bestiale attacco subito da Malala Yousafzai e altre studentesse nel momento in cui il pullman che le stava portando a casa finì intrappolato a un posto di blocco dell’esercito che stava subendo un arttacco dei fondamentalisti.

Il capitale si sposta dove è meglio remunerato. Nel 2010 il giornale finanziario The Economist riconosceva questa verità sul funzionamento del sistema capitalista scrivendo che “ i costi salariali in paesi come la Cambogia, il Vietnam ed il Laos sono soltanto una frazione di quelli cinesi”. Per questa ragione, già negli anni ’90, una parte del tessile cinese si era spostato in quei paesi e nel Bangladesh.

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