MILANO, 6-7-8 DICEMBRE 2014
Nel prossimo fine settimana si svolgerà la conferenza nazionale di Sinistra classe rivoluzione, doveverrà lanciato il nostro movimento politico.
La conferenza si terrà presso il
Circolo Arci El Pueblo
Via Piave 37, a Pero (Mi)
(a cinque minuti dalla fermata Molino dorino della linea 1 della metropolitana)
per tutte le info sulla conferenza: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Di seguito eccovi l'Ordine del giorno della conferenza e la sintesi del documento di prospettive politiche che discuteremo nel corso della conferenza
Ordine del giorno
SABATO 6
13 -13,30 Presentazione della conferenza
13,30 - 18 Prospettive per la lotta di classe in Italia
18 - 19 Rapporto sul lavoro della Tendenza marxista internazionale
19,00- 20,30 Cena
21,00 - 24,00 Festa con concerto della Banda Popolare dell'Emilia Rossa
DOMENICA 7
9 -12 Commissioni sul lavoro sindacale e sul lavoro nel movimento studentesco
12 - 13 Per l'alternativa rivoluzionaria. Discussione sulla bozza di programma
13,0014,30 Pausa Pranzo
14,30 - 16,30 Per l'alternativa rivoluzionaria. Discussione sulla bozza di programma
16,45 - 18,15 Sinistra classe rivoluzione: per un nuovo periodico
18,15 - 19 Colletta per il nuovo periodico
LUNEDI' 8
9 - 14.30 La costruzione del movimento politico SCR
14,30 - 15 Conclusioni della conferenza
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I marxisti e la crisi
(sintesi del documento di prospettive politiche in discussione alla Conferenza nazionale del movimento Sinistra Classe Rivoluzione che si terrà a Milano dal 6 all’8 dicembre 2014)
La crisi del capitalismo europeo è al centro della crisi internazionale. Anche la Germania, che in passato si era avvantaggiata dalla posizione egemone nell’Unione europea, ha registrato, nel secondo e nel terzo trimestre, una contrazione del Pil.
Se l’Ocse parla eufemisticamente di una “ripresa deludente in Germania”, il giornale di Confindustria è molto più esplicito nel dichiarare che siamo di fronte a “una caduta non momentanea dell’economia tedesca”.
Uno scenario del genere non potrà che acutizzare gli scontri tra le diverse potenze europee. La Francia ha annunciato che non rispetterà i vincoli sul deficit e i tentativi di Draghi di implementare il quantitative easing per dare respiro all’economia, vengono contrastati dalla Merkel, per ora con successo.
Carattere della crisi
A sei anni dall’inizio della crisi, non solo non è da attendersi che l’Europa possa uscire a breve dalla recessione, ma si profila all’orizzonte una situazione per certi aspetti simile alle “Grandi Depressioni” della fine del XIX secolo (1873-1895) e degli anni ’30 del XX secolo.
Naturalmente la crisi attuale si produce a un livello enormemente più alto rispetto a quelle del passato.
Questo avrà notevoli effetti politici e marchierà a fuoco le coscienze delle nuove generazioni che si apprestano ad entrare nell’arena politica e sociale.
La debolezza delle organizzazioni operaie e la loro degenerazione, particolarmente evidente in Italia, renderà il processo più tortuoso, ma in nessun modo costituirà un ostacolo a nuovi conflitti e rivolgimenti sociali.
L’assenza di organizzazioni riformiste di massa, come ne esistevano negli anni ’70, se da una parte limita gli strumenti organizzativi della classe, dall’altra la libera da apparati potenti che in passato hanno deviato più di un movimento su binari morti.
Le borghesie europee sono letteralmente terrorizzate dall’idea di perdere il controllo in uno qualsiasi dei paesi europei. I risultati elettorali di Syriza in Grecia, o di Podemos in Spagna generano il panico, perché mettono a rischio quelle politiche di austerità ritenute assolutamente necessarie per mantenere in equilibrio il sistema.
La tendenza prevalente sarà così di escludere dal potere, e con ogni mezzo, quelle forze che a sinistra (come a destra) minacciano la “Grosse Koalition” tra popolari e socialisti europei.
La pressione per dare vita a governi tecnici e di unità nazionale diventerà sempre più asfissiante e si allargherà a paesi come Spagna, Francia e persino Grecia.
Lo stato dell’economia italiana
Dall’ultimo aggiornamento dell’Organizzazione mondiale del commercio si evince che l’industria italiana resta seconda in Europa dopo quella tedesca. Ma le sue posizioni di leadership sono in settori sempre meno strategici.
L’Italia ha perso da tempo, a causa dello smantellamento del settore pubblico, i punti di forza che deteneva in settori chiave come la chimica, la siderurgia di base, l’informatica, la cantieristica.
Il dato dell’export, tanto decantato dal governo, va analizzato con cura. Seppure è vero che l’industria italiana ha conosciuto nel 2013 un surplus con l’estero di oltre 100 miliardi di euro, bisogna confrontare il dato con la situazione della manifattura quando è cominciata la crisi.
“Gli indici destagionalizzati dell’Eurostat dicono che il fatturato dell’industria manifatturiera italiana a settembre 2013 risultava caduto del 16,9% rispetto al 2008, contro un calo del 2,8% della Germania. Colpa soprattutto di un autentico crollo del 23% del fatturato domestico italiano rispetto ad una più modesta flessione del 6,3% di quello tedesco.” (Il Sole 24 ore, 24 dicembre 2013).
Il fatto che il Pil italiano si contragga pur in presenza di un incremento delle esportazioni non è banale. è chiaro che la riduzione delle importazioni non dipende dalla maggiore competitività del sistema produttivo nazionale, ma dalla perdita di lavoro e dalla riduzione del potere d’acquisto delle famiglie.
In sintesi, i miglioramenti italiani nei conti con l’estero non sono generati da un recupero di produzione del sistema manifatturiero nazionale (nonostante il costo del lavoro sia sceso significativamente negli ultimi anni), ma dal crollo della domanda e degli investimenti produttivi. Pertanto si può affermare che nell’ultimo anno il saldo dei conti commerciali con l’estero è migliorato non grazie alla produttività ma all’austerità, su cui grava oltretutto il macigno del debito pubblico, che resta uno dei più elevati al mondo.
Il movimento operaio e le sue organizzazioni
Se oggi il risveglio del movimento operaio europeo tarda a trovare un’espressione nelle organizzazioni tradizionali della classe, questo si deve a basi materiali oltre che politiche.
Secondo uno studio recente, se prendiamo il rapporto tra gli iscritti e gli elettori ai partiti operai in Europa, risulta che mediamente questo rapporto dopo la guerra era al 25%, negli anni ’60 era al 12,7% e dopo essere risalito leggermente nel corso degli anni ’70 è crollato al 4,05% negli anni ’90 per arrivare al 3% di oggi.
Ci sono basi oggettive per questa crisi del movimento operaio organizzato?
Se nei primi anni della crisi la disoccupazione non si è impennata è stato grazie al sostegno dagli ammortizzatori sociali (per i quali l’Inps ha speso 80 miliardi di euro in 5 anni), ma con la progressiva scadenza della cassa integrazione, a partire dal 2012-2013 per molti è cominciata la mobilità e l’espulsione dai luoghi di lavoro.
Quanto questo sta contribuendo a modificare le caratteristiche e le dimensioni del proletariato? Nella crisi del 2009-2010, in soli due anni, c’è stata una riduzione del peso della manifattura italiana sul Pil, paragonabile a quella che colpì gli Usa e la Gran Bretagna negli anni ’80. Il dato della manifattura sul Pil che nel 2000 era del 21%, nel 2010 si attestava al 16,5%.
Se ancora nel 2000, proporzionalmente al Pil, l’Italia era uno dei paesi più industrializzati al mondo con Giappone e Germania, ora si colloca a metà strada tra questi paesi e il gruppo dei vecchi paesi “deindustrializzati”. Stiamo dunque diventando un paese in cui le fabbriche sono un ricordo del passato? Respingiamo con forza questa idea. Il proletariato italiano non solo esiste ma ha dimensioni ragguardevoli per quanto oggi stia attraversando una fase di obiettiva difficoltà.
Analizzando i dati si vede come nel 2000 in Italia c’erano 8 milioni di proletari “produttivi” (produttori di plus-valore in termini marxisti) di cui oltre la metà erano occupati nell’industria a cui bisognava aggiungere 5 milioni di salariati “non produttivi”, (il 45% nei servizi non creatori di plusvalore ma finalizzati alla sua circolazione e il 55% dipendenti statali e para-statali).
A questi vanno aggiunti i lavoratori in nero.
A conti fatti il proletariato in Italia nel 2000 era composto da circa 14-15 milioni di persone.
Ma se nel 2000 il dato era questo, quanti sono invece i proletari oggi nel nostro paese? Mancano i dati per aggiornare le cifre, per i tagli al bilancio Istat e la cancellazione del Censimento dell’industria e del commercio (così come le statistiche sugli scioperi e i conflitti di lavoro).
Possiamo limitarci a fare delle stime approssimative. Secondo le statistiche dall’inizio della crisi (2008) si sono persi circa 900mila posti tra i lavoratori dipendenti. Di questi circa 700mila nell’industria, 110mila nei servizi e 100mila nell’agricoltura.
Se diciamo che dall’inizio della crisi ci sono in Italia un milione di proletari in meno non andiamo lontani dalla realtà.
Si tratta certamente di una perdita secca ma non di una ecatombe, che possa giustificare teorie sulla “fine del proletariato”.
I processi molecolari nella classe
La crisi, per quanto possa stordire inizialmente un movimento, alla lunga scrive nella carne dei lavoratori la necessità dell’abbattimento del sistema. La classe è un soggetto pulsante, vivente e in continuo movimento, che interagisce con il resto della società.
Non siamo deterministi, e sappiamo che, a parità di condizioni strutturali, possono esserci sbocchi politici alquanto differenti. La debolezza di strumenti politici-organizzativi della classe, se da una parte la fa procedere al “rallentatore” (si pensi alla rivoluzione venezuelana) e rende più tortuoso il processo, dall’altra fa venir meno vincoli burocratici e permette una battaglia più audace per la costruzione di un nuovo soggetto rivoluzionario e di classe.
La classe lavoratrice è in continua mutazione ed è costantemente rimodellata dalle scelte dei padroni (investimenti, chiusure, delocalizzazioni, precarizzazione, organizzazione del lavoro, ecc.), ed è in un quadro in continua e rapida trasformazione che i proletari devono articolare la lotta per i loro interessi comuni.
Sono decine, centinaia di migliaia i processi molecolari che avvengono tra i lavoratori ogni giorno per provare a difendersi dagli attacchi padronali tutelando gli interessi comuni. Si formano migliaia di ambiti informali al margine delle burocrazie sindacali, per discutere e incontrare le soluzioni più adeguate. I padroni (ce lo insegna la storia della lotta di classe, in particolare dei primi anni ’80) hanno fatto di tutto per rompere e disarticolare questi “ambiti collettivi”, per spezzare la solidarietà e la militanza, ma questi canali si riformano costantemente finendo, nei punti più alti del conflitto sociale, per riversarsi ed influenzare le organizzazioni sindacali che sono più presenti e radicate nel territorio. Le organizzazioni sindacali di massa, ai margini delle quali è impossibile costruire niente di stabile e duraturo.
Ciò che risulterà decisivo, anche se in certi momenti sembra dare pochi risultati, è l’intervento cosciente che i rivoluzionari svolgono nei luoghi di lavoro. A condizione che ai lavoratori si dica sempre la verità, anche quando è difficile da digerire, anche quando il dirlo può allontanarci delle simpatie e persino dei militanti.
Il governo Renzi e l’alternativa a sinistra
Fin dal suo insediamento a Palazzo Chigi, Renzi ha provato a stupire con effetti speciali, generando una certa aspettativa tra i lavoratori, la ciliegina sulla torta è stato senz’altro il bonus degli 80 euro.
Grazie all’assenza di un sindacato che meriti questo nome e di serie alternative a sinistra, l’operazione ha funzionato, almeno in un primo momento.
Ma ora i nodi stanno venendo al pettine, gli indici di gradimento precipitano, e la “luna di miele”, se così possiamo chiamarla, si sta esaurendo rapidamente.
Per quanto Renzi rappresenti un punto di rottura con i precedenti governi Monti e Letta, si basa sulla stessa maggioranza parlamentare ed è un governo debole destinato a scontrarsi con la futura polarizzazione sociale e politica.
Il fatto che oggi il Pd concentri su di sé (e dentro di sé), tutte le tensioni di classe presenti nella società, non è un elemento di forza, ma piuttosto di debolezza della borghesia italiana. Per questa ragione il partito è destinato a subire nuove divisioni e persino scissioni. Risulta impensabile ingabbiare in un solo partito le acute tensioni di classe che si svilupperanno in futuro nella società.
La crisi della sinistra “radicale” si approfondisce ogni giorno di più. Sel ha subito la scissione di Migliore. Il Prc è più diviso che mai. L’entusiasmo verso il nuovo soggetto della sinistra, da far nascere a partire dalla lista Tsipras si è smorzato rapidamente.
Fratoianni, nuovo coordinatore di Sel, ha ribadito il carattere non occasionale dell’alleanza col Pd, che non è in discussione. È dunque improbabile che Fratoianni diriga il partito in direzione di un nuovo soggetto della sinistra, da costruire assieme al Prc. Questa prospettiva può realizzarsi, solo sulle ceneri di Sel, se in futuro subisse ulteriori pesanti sconfitte ed uscisse dal parlamento.
Tutti i tentativi di Ferrero sono destinati a finire nel nulla, e la crisi del Prc si approfondirà.
Parte dell’ampio settore di militanza di sinistra rimasto privo di riferimenti organizzati verrà certamente rivitalizzato quando la lotta di classe si manifesterà in modo aperto. Ma le organizzazioni della sinistra esistenti non potranno fare altro che trascinarsi al seguito di processi che si determinano altrove tentando di ritagliarsi una nicchia di sopravvivenza.
La reazione della Cgil
La strategia della Camusso si basava su una vittoria di Bersani alle elezioni del 2013. Non solo questa non è arrivata ma oggi il Pd e il governo sono guidati da Renzi, che è irrimediabilmente ostile all’apparato della Cgil.
I provvedimenti di Renzi e dei precedenti governi (Monti e Letta), riducono notevolmente le entrate sindacali (con tagli ai patronati, ai distacchi sindacali, ecc).
Tutta questa situazione assieme alle continue provocazioni di Renzi spingono la Cgil, per quanto controvoglia e timidamente, a chiamare i lavoratori alla mobilitazione. La manifestazione dell’autunno contro la riforma del lavoro e gli scioperi di categoria che sono seguiti hanno mostrato l’enorme rabbia che si è accumulata sotto la superficie.
Ma il terreno resta in salita, non basterà una manifestazione nazionale o uno sciopero per riguadagnare il consenso perso tra i lavoratori, dopo anni di immobilità di fronte ad attacchi frontali. Lo stesso Cofferati nel 2002, con una Cgil più solida di quell’attuale e senza il peso di una crisi economica, ci mise almeno un anno per scaldare i motori della mobilitazione.
Il problema è che la burocrazia a un certo punto potrebbe trovarsi con le spalle al muro, di fronte all’alternativa di combattere o perire.
La prospettiva di trasformare la Cgil in un sindacato dei servizi, che sostanzialmente si sovrappone all’apparato dello Stato, è un’opzione che sfuma ogni giorno di più. Il governo non ha né le risorse, né l’interesse, né la volontà di foraggiare un sindacato che per giunta in questo momento potrebbe non avere più la forza di “controllare” il conflitto sociale.
Se Renzi pensa (e lo pensa) di non aver bisogno dei sindacati perché i lavoratori li rappresenta meglio lui, la Cgil non ha alternative se non quella di combattere e riaffermare il proprio ruolo sociale, per quanto i suoi dirigenti detestino questa prospettiva.
L’assenza di riferimenti credibili nel sindacalismo di base non offre alternative e fa sì che la Cgil, resti il principale ambito dentro cui si scaricheranno le tensioni sociali nel prossimo periodo.
Una generazione senza futuro
Le giovani generazioni non hanno futuro. Questa idea si sta diffondendo a macchia d’olio tra i giovani e giovanissimi.
È generale la percezione del fatto che l’Italia stia sprofondando nella crisi e questo se da una parte genera emigrazione, dall’altra produce una grande frustrazione, e disaffezione verso tutte le istituzioni che rappresentano lo status quo, a partire dai partiti tradizionali.
La crisi delle organizzazioni giovanili della sinistra è ancora più profonda di quella delle organizzazioni adulte. Ma questo non significa che non torneremo a vedere grandi mobilitazioni giovanili a fianco di quelle operaie.
Se Renzi sta avendo un merito è proprio quello di aver sbloccato, con un mix di promesse smisurate e di continue provocazioni al sindacato, una situazione che sembrava statica e che oggi sta avendo una accelerazione sul piano politico e sociale. Come spesso avviene le crisi partono dall’alto ed è la “frusta della controrivoluzione” che sta riattivando il movimento di massa nel nostro paese.
Mai come oggi la prospettiva di un partito di classe che nasca al caldo delle mobilitazioni può realizzarsi offrendo un’alternativa radicale alla crisi in corso. Uno scenario che favorirebbe non poco la battaglia dei rivoluzionari contro le idee riformiste che seminano demoralizzazione e scetticismo nel movimento operaio.