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A un anno dal ritiro


Il sequestro del diciannovenne caporale Gilad Shalit da parte dei Comitati di resistenza popolare a Gaza la mattina del 25 giugno ha innescato l’ennesima ritorsione israeliana contro la popolazione civile palestinese, la più dura da molti anni a questa parte.

Anche volendo dar credito alle intenzioni dichiarate dalle autorità israeliane, qualcuno potrebbe chiedersi se rovesciare sulla striscia di Gaza 1.200 tra missili e bombe (uccidendo almeno 40 civili innocenti tra cui donne e bambini), distruggere l’unica centrale elettrica (lasciando senza energia e dunque senza acqua per i prossimi sei mesi 700mila persone), bombardare tre ponti, colpire con un missile l’ufficio del Primo ministro Haniye, stringere d’assedio la striscia di Gaza e lanciare la caccia all’uomo contro i dirigenti di Hamas in Cisgiordania (tra gli altri sono finiti in manette otto ministri e 23 deputati palestinesi) serva a liberare il militare rapito.


Le conseguenze dell’attacco israeliano


La distruzione dell’unica centrale elettrica non significa solo che 700mila palestinesi sono al buio, ma che le poche scorte alimentari fresche si deteriorano con maggiore velocità, che le poche strutture sanitarie dipendono dal gasolio che tiene in funzione i gruppi elettrogeni e che potrebbe venire a mancare da un momento all’altro, che i desalinizzatori e i depuratori non funzionano (e la falda acquifera di Gaza da tempo è contaminata a causa del supersfruttamento imposto dagli occupanti israeliani nei decenni scorsi). L’assedio impedisce alla maggioranza della popolazione di rifornirsi di combustibili anche solo per cucinare o per bollire l’acqua, il che implica la possibilità che un’epidemia (ad esempio di colera) sia non solo possibile, ma probabile se non viene subito tolto questo blocco criminale.

Le offerte di avviare un negoziato per uno scambio di prigionieri lanciate dai Comitati di resistenza popolare sono state respinte in modo sprezzante dal premier israeliano Olmert poco prima di dare il via alla rappresaglia militare su Gaza. La rivendicazione che Israele liberi le donne e i minori di 18 anni detenuti nelle carceri israeliane (sono 413) in cambio di notizie sul caporale rapito ha suscitato una enorme eco di simpatia tra la massa dei palestinesi. I detenuti politici palestinesi nelle carceri israeliane sono 8500, molti senza aver mai subìto un processo.

L’operazione “Pioggia d’estate” (una veste poetica che rende ancora più grottesco il terrorismo di Stato) sarebbe una colossale manifestazione di stupidità se veramente il suo scopo fosse quello di liberare l’ostaggio, ma il caporale Shalit non è che una piccola pedina sacrificabile in un gioco più grande e non ci vuole molta fantasia per pensare che in realtà la sua eventuale uccisione tornerebbe utile soprattutto a chi come il governo israeliano sta perseguendo da anni la strategia di delegittimare sistematicamente ogni autorità palestinese, per avvalorare il teorema che qualsiasi azione in difesa degli interessi israeliani, anche la più sanguinaria, sia giustificata dall’inaffidabilità della dirigenza palestinese.


Divisioni nella classe dirigente israeliana


In questa vicenda vi sono molti elementi che devono portarci a dubitare fortemente della versione ufficiale. Fonti dello Shin Bet (riportate dal quotidiano israeliano Haaretz) hanno riferito di aver allertato l’esercito dell’alta probabilità di un attacco come quello che effettivamente è avvenuto il 25 giugno. Nonostante i vertici militari fossero a conoscenza di queste informative a quanto pare non hanno modificato la disposizione delle pattuglie e non hanno preso contromisure. Il piano di “salvataggio” lanciato è del tutto sproporzionato e incongruente con l’obiettivo dichiarato. Da diverse settimane inoltre si erano intensificati i cosiddetti “omicidi mirati” di dirigenti palestinesi da parte degli israeliani, fino a culminare ai primi di giugno nella rottura della tregua unilaterale dichiarata dai gruppi armati di Hamas un anno fa a causa della strage di un’intera famiglia di bagnanti colpita da un proiettile d’artiglieria israeliana sulla spiaggia di Gaza. Questo “incidente” ha minato seriamente la credibilità dei vertici dell’esercito ed è stata vissuta dagli israeliani con vergogna e dai palestinesi con rabbia enorme.

Si potrebbe concluderne che almeno un settore dell’esercito abbia voluto approfittare della reazione emotiva israeliana ad un nuovo grave incidente per recuperare autorità, forzare la mano e rioccupare Gaza. Questo spiegherebbe la reticenza di Olmert a dare il via libera ad una operazione di rastrellamento sul terreno richiesta dai vertici militari. Per Olmert, Gaza è un problema da tenere sotto controllo anche con il tallone di ferro, ma sa che una nuova occupazione potrebbe avere conseguenze ingestibili per Israele. Per un settore consistente dell’esercito invece il ritiro da Gaza dell’anno scorso è una macchia da cui riscattarsi.

Obiettivo fondamentale dell’operazione è comunque quello di umiliare un intero popolo, terrorizzarlo, dimostrare la durezza con cui vengono colpiti i nemici d’Israele. Secondo obiettivo è mantenere, anzi aggravare, lo stato di cronica dipendenza da un punto di vista economico dell’Autorità palestinese da Israele, in modo da avere un potente strumento di ricatto che sia efficace in ogni momento. Garantire che la popolazione palestinese non possa mai rialzare la testa. Non è un caso che con una periodicità infallibile vengano colpite e distrutte le più importanti infrastrutture costruite nei momenti di tregua. Terzo obiettivo è ridimensionare il potere di Hamas decimandone la direzione e approfondire il conflitto con Fatah.


Vicolo cieco della direzione palestinese


Se è certo che la direzione di Fatah e Abu Mazen abbiano pensato di approfittare della crisi e della momentanea debolezza di Hamas per cancellare il governo di Haniye e rimescolare le carte con un golpe bianco, è altrettanto certo che questo indubbiamente provocherebbe una reazione di massa contro di loro. La rabbia dei palestinesi contro questa direzione inetta e corrotta è stata ampiamente dimostrata nelle ultime elezioni, ma le speranze riposte in Hamas sono state in parte deluse. Ancora una volta la direzione palestinese divisa e litigiosa sta speculando sulla disgrazia del suo popolo per mantenersi al potere. Hamas non si sta dimostrando qualitativamente diversa da Fatah e, nonostante i proclami bellicosi, pochi giorni prima dell’attacco aveva sottoscritto il documento promosso da Bargouthi e da altri dirigenti palestinesi in carcere che implicitamente riconosce lo Stato israeliano e assegna all’Olp (dunque al presidente Abu Mazen) la guida nelle trattative con Israele per la costituzione dello Stato palestinese, secondo uno schema che richiama la famigerata “road map”. Le pressioni a cui è sottoposta Hamas al governo stanno creando un conflitto crescente al suo interno in particolare tra il governo e i dirigenti dell’emigrazione, a cui rispondono alcuni dei gruppi armati.


A un anno dal ritiro da Gaza


Per molti israeliani l’azione che ha portato al rapimento del caporale Shalit è da considerare come un atto di guerriglia, non di terrorismo. Questo è il motivo per cui sono molte le critiche rivolte dai principali organi di stampa (non solo Haaretz, ma anche i tabloid cosiddetti “popolari”) alla condotta di Olmert. Questo riflette la crescente stanchezza della massa degli israeliani allo stato di guerra permanente provocato dall’occupazione dei Territori, ma è anche il sintomo di qualcosa di più profondo.

Quasi un anno è passato dal ritiro unilaterale dell’esercito israeliano da Gaza voluto da Sharon. Pochi mesi sono bastati a far crollare le speranze che questo passo potesse diventare il primo atto di una stabilizzazione. Tutti gli attestati internazionali di riconoscimento ricevuti dall’allora premier israeliano Sharon per la sua “strategia di pace” erano dettati da una profonda ipocrisia. La scelta di Sharon, lungi dall’essere frutto di una vera volontà di abbandonare la politica di colonizzazione dei Territori occupati di Cisgiordania e Gaza, era dettata da considerazioni del tutto funzionali a questa stessa logica. Olmert e il governo di coalizione tra Kadima e i laburisti (nel quale il leader laburista Peretz sta velocemente dissipando l’autorità conquistata come oppositore di Sharon) stanno perseguendo lo stesso disegno, ma deve fronteggiare una crescente stanchezza della popolazione israeliana.

Negli ultimi anni la grande maggioranza degli israeliani ha visto peggiorare le proprie condizioni di vita per la crisi economica e il sempre crescente fardello che la classe dominante scarica su di loro per sostenere la sua politica militare e ha perso l’illusione che il tallone di ferro che schiaccia i palestinesi nei Territori sia sufficiente ad impedire una nuova esplosione difficilmente controllabile.

Il ritiro dei soldati occupanti era stato salutato comprensibilmente con sollievo dalla maggior parte degli israeliani e da una esplosione di gioia collettiva della massa della popolazione palestinese, ma si è rivelata solo una tregua effimera, non diversa da tutte le altre fallite nel passato.

11-07-2006 


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