Il fallimento del ”processo di pace” spinge la vittoria di Hamas - Falcemartello

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Il fallimento del ”processo di pace” spinge la vittoria di Hamas

La vittoria del movimento di resistenza islamica Hamas nelle elezioni legislative palestinesi segna un punto di svolta negli equilibri interni all’Autorità nazionale palestinese (Anp). È lo sbocco naturale di dodici anni di tradimento delle più elementari aspirazioni della massa della popolazione da parte del regime dell’Anp, nato nel 1994 dagli accordi di Oslo.

Hamas ha conquistato una larga maggioranza dei seggi (74 su 132) del parlamento. Una vittoria annunciata, ma dai contorni ancora più netti di quanto fosse possibile ipotizzare. Batosta sonora per Fatah e per le formazioni storiche della sinistra palestinese (Fplp ed altri).

Le reazioni ed i commenti della cosiddetta “comunità internazionale” sono a senso unico: si esprime “preoccupazione”, “sconcerto”, addirittura “dolore”, per citare le parole di Berlusconi. Purtroppo al coro unanime si uniscono anche i leader principali della sinistra, Fassino e D’Alema in testa, più preoccupati di difendere quello che resta dell’Anp che di capire veramente quello che sta succedendo.

“Che fine farà il processo di pace?” si chiedono. Il “processo di pace”, se mai è esistito, non è stato altro che un inganno sistematico ai danni della popolazione palestinese e della massa dei lavoratori israeliani.

Ricatto “democratico”

La conclusione più o meno esplicita del fiume di parole spese per commentare il voto palestinese è che queste popolazioni hanno dimostrato di essere incapaci di autogoverno, ovvero non sarebbero ancora pronte per la democrazia. Alcuni commentatori, interessati a seminare ulteriore confusione, hanno perfino paragonato Hamas al nazismo.

“Hamas ora dovrà mostrarsi responsabile!”, dicono in coro. “Deve riconoscere lo Stato israeliano, altrimenti i fondi che sovvenzionano l’Anp verranno tagliati”. In altre parole l’imperialismo vuole che la direzione di Hamas segua il solco già tracciato e “garantisca” il mantenimento dell’ordine esistente. Una cosa è certa: se dovesse imboccare questa strada, come in parte ha già fatto, la direzione di Hamas avrebbe i giorni contati.

Il governo israeliano ha già bloccato i trasferimenti delle entrate fiscali all’Anp e prosegue per la sua strada. Gli Usa e L’Ue invece si riservano di usare questa arma di ricatto per condizionare il futuro governo dell’Anp.

L’Anp è un carrozzone da cui dipendono 200mila funzionari, inclusi 60mila membri delle forze di sicurezza. I loro stipendi sono pagati per oltre la metà dai contributi internazionali: “Abbiamo bisogno di aiuti stranieri per un miliardo e mezzo di dollari all’anno altrimenti affondiamo”, ammette il ministro dell’economia uscente (Corriere della Sera, 29 gennaio 2006). A rischio, oltre agli stipendi, sono le forniture di acqua ed energia (quindi anche gli ospedali).

Si profila dunque un braccio di ferro con Hamas sulla pelle della popolazione palestinese.

Dal punto di vista israeliano cambia poco. Nonostante la scomparsa, dopo l’ictus, di Sharon dalla scena politica e la crisi che si è aperta in Israele, la strategia del nuovo premier Olmert non cambia. Disimpegnarsi unilateralmente dalle posizioni non difendibili e proseguire a ritmo serrato l’annessione di fatto dei territori chiave, a costo di scontrarsi con il settore più oltranzista dei coloni. Mentre venivano sgombrati gli 8.000 coloni da Gaza se ne sono insediati il doppio in Cisgiordania intanto la costruzione del muro continua incessante.

La natura di Hamas

Cos’è Hamas? Un’organizzazione populista islamica di matrice borghese. La sua ideologia, mutuata dalla Fratellanza musulmana è profondamente antisocialista e reazionaria. Il suo braccio armato ha fatto ricorso sistematico alla tattica del terrorismo individuale, inclusi i kamikaze, impiegati anche contro i civili.

Hamas però non è solo questo. La sua struttura nasce da un settore della piccola e media borghesia islamista di Gaza. Solo la totale bancarotta della direzione dell’Anp ha permesso a questa forza di crescere fino a diventare dominante.

Pochi sanno che per circa vent’anni la diffusione del movimento di rinascita islamica in Palestina è stata sostenuta e finanziata dagli occupanti israeliani proprio nel tentativo di scalzare l’egemonia delle organizzazioni laiche e rivoluzionarie. Fu proprio il timore di perdere questa protezione che spinse lo sceicco Yassin nel 1988 dopo l’esplosione della prima Intifada a formare in tutta fretta Hamas per intervenire nella lotta senza esporre direttamente le istituzioni islamiste.

L’ombrello delle autorità israeliane ha permesso alla Fratellanza musulmana a Gaza di accumulare un considerevole potere economico. La rete di assistenza caritativa, servizi sociali, scuole ed ospedali, i contributi dati alle famiglie dei reclusi e dei tanti uccisi dalle forze d’occupazione sono stati l’unico salvagente per decine di migliaia di famiglie ridotte alla povertà più assoluta. Tutto ciò è alimentato da un fiume di denaro (si parla di 30-60 milioni di dollari al mese) proveniente dall’Iran e dalle monarchie del Golfo (soprattutto quando queste dopo la prima guerra del Golfo, per punire l’appoggio dato da Arafat a Saddam Hussein, hanno dirottato su Hamas il flusso principale delle loro sovvenzioni). Inutile dire che la monarchia saudita difficilmente finanzierebbe una forza che minacciasse seriamente il capitalismo.

Il rifiuto degli accordi di Oslo ha mantenuto Hamas finora fuori dalle posizioni di potere dell’Anp.

Vittoria del terrorismo islamico?

Hamas è dunque vista dai palestinesi come una forza estranea alla corruzione dell’Anp. Questo è un punto centrale: l’affermazione di Hamas ha poco a che vedere con il fattore religioso o gli attentati suicidi.

Nella sua campagna elettorale gli slogan si sono concentrati quasi esclusivamente sulla lotta alla corruzione, al nepotismo, alle tangenti, in altre parole un attacco frontale contro il sistema di corruzione che ha retto l’Anp dalla sua nascita.

Questo stato di cose è intollerabile per la maggioranza della popolazione palestinese che vive con redditi tra uno e due dollari al giorno. La maggioranza dei palestinesi ha votato per Hamas ma non vuole la legge coranica, né crede nella prospettiva di cancellare Israele iscritta nella carta fondativa di Hamas. Un sondaggio tenuto dopo il voto rivela che l’84% dei palestinesi resta a favore del raggiungimento di un accordo con Israele.

Più che un referendum a favore di Hamas il voto palestinese è una massiccia protesta contro Abu Mazen e la dirigenza di Fatah. “Ho sempre votato per Fatah. Ma ora voglio cambiare… Ci avevano promesso una vita migliore, ma hanno gestito il governo come fosse la loro impresa privata. Non sono puliti e non servono il popolo, esattamente come succede negli altri stati arabi”. Questo commento raccolto da L’Unità riflette lo stato d’animo di molti.

La protesta contro i dirigenti è esplosa soprattutto nella base di Fatah. “Abbiamo tanta rabbia in corpo, sappiamo che il nostro crollo è la conseguenza della politica scellerata dell’Anp e dei dirigenti di Al Fatah”, dice un militante in una delle numerose manifestazioni armate che pretendevano le dimissioni del comitato centrale di Fatah.

La dirigenza palestinese ha abusato per anni dei propri incarichi di governo per avvantaggiare clientele e famiglie. Così è possibile che il figlio di Abu Mazen sia il monopolista della cartellonistica pubblicitaria, che la famiglia Qrei (del primo ministro Abu Ala) abbia il controllo dell’industria delle costruzioni, che ogni pratica amministrativa o licenza debba essere spinta da un’adeguata tangente, oppure che il ministro della giustizia - proprietario di diverse cave di marmo - abbia venduto materiali alle ditte israeliane che costruivano insediamenti illegali di coloni ad Har Homa, o che qualche imprenditore con alte protezioni abbia venduto agli israeliani cemento per la realizzazione del Muro voluto da Sharon che sta asfissiando la Cisgiordania.

Il problema è il capitalismo

Questi sono solo alcuni esempi di quello che da tempo denunciamo come un sistema di sfruttamento nel quale, complice l’occupazione israeliana, una borghesia parassitaria trae benefici dall’oppressione del suo stesso popolo. Il problema non è la corruzione di questo o quello, ma un sistema sociale che genera privilegi e alimenta la povertà.

Tutto ciò è reso più grave dall’accettazione, sulla base degli accordi di Oslo e Madrid (e del protocollo di Parigi che regola la vita economica dell’Anp), di uno stato endemico di subordinazione dell’economia palestinese nei confronti di Israele e dell’imperialismo. Hamas potrà colpire questo o quel settore particolarmente corrotto, ma è organicamente incapace di costruire un’alternativa a questo stato di cose. Al contrario la vittoria elettorale schiacciante toglie ogni alibi alla direzione di Hamas, che non potrà farsi più scudo della corruzione dell’Anp. Esiste un abisso tra le aspettative della massa dei palestinesi e il carattere reazionario della cricca dirigente di Hamas. La vittoria di Hamas assume per queste ragioni un carattere transitorio. Ogni passo nella direzione dell’islamizzazione provocherà necessariamente un conflitto con la maggioranza della popolazione dove è radicato un profondo sentimento laico.

Le masse palestinesi non saranno disposte ad accordare una cambiale in bianco a nessuno. La lotta esploderà di nuovo. Compito dei marxisti sarà lavorare per recuperare le tradizioni rivoluzionarie della prima Intifada, capace di unire le masse dei territori occupati agli arabi d’Israele e di raccogliere inizialmente la simpatia e l’appoggio di un settore importante dei lavoratori israeliani. Solo lavorando in questa direzione si potrà finalmente rovesciare l’oppressione imperialista e costruire le condizioni per un movimento rivoluzionario che trasformerà da cima a fondo tutto il Medio oriente.