Dallo scorso marzo a oggi, l’Organizzazione mondiale della sanità e altre istituzioni sanitarie stimano che almeno 3.300 persone abbiano contratto il virus Ebola nell’Africa occidentale. Circa la metà sono morte.
Assieme all’“Ice bucket challenge” e alle decine di migliaia di video di gente che si rovescia addosso secchiate d’acqua ghiacciata, questi due temi hanno occupato giornali e Tv tutta l’estate. La campagna per raccogliere fondi contro la Sla è molto simile a tante altre. Acriticamente, senza porsi domande fondamentali su come una società civile dovrebbe utilizzare i fondi pubblici, a scadenze regolari veniamo sommersi di richieste di questo tipo.
Invece del virus Ebola, che non è affatto recente — visto che fu identificato per la prima volta nel 1976 nella Repubblica Democratica del Congo —, finora si era parlato poco. Il virus si diffonde attraverso il contatto con il sangue e gli altri fluidi corporei: ad oggi non ha portato a epidemie su grande scala proprio perché provoca in breve tempo la morte dell’organismo che ha infettato, riducendo quindi i tempi per il contagio. L’alta mortalità e il fatto che finora non fosse mai arrivato alle zone urbane spiega perché alle grandi aziende farmaceutiche non interessasse più di tanto. Fino a oggi questo patogeno era limitato a pochi villaggi perduti nella foreste tropicali di Costa d’Avorio, Congo, Guinea e Sudan, in cui l’epidemia si spegneva in pochi giorni.
Ora si sa che l’inizio dell’epidemia è stato otto mesi fa nelle foreste della Guinea, ma solo il 22 di marzo è stata dichiarata ufficialmente. E ancora dopo questa data la mancanza di un sistema sanitario moderno ed efficiente ha comportato che il contaggio si allargasse a Sierra Leone e Liberia. Nelle ultime settimane è perfino arrivato nel paese più popoloso dell’Africa, la Nigeria.
Mentre in Europa troviamo tra 35 e 45 medici per ogni mille abitanti, in questi paesi raramente si arriva ad uno ogni mille. I sistemi sanitari non sono gratuiti, ospedali pubblici e privati si devono pagare e perciò più della metà della popolazione semplicemente non può accedere alle più semplici cure.
Aroh Cosmos Izchukwu, un medico nigeriano che lavora a Monrovia, la capitale della Liberia, ha raccontato le condizioni dei malati nel suo ospedale: “Sembra un campo di morte, il virus non è la cosa più grave.
È tutto sporco. C’era un bagno per cinquanta persone. Ci sono dei cadaveri che restano nelle stanze per giorni. C’e urina, feci e vomito dappertutto”.
Tutto il contrario del trattamento ricevuto da due cooperanti statunitensi: Kent Brantly e Nancy Writebol, trasferiti dalla Liberia ad Atlanta, dove è stato somministrato loro un siero denominato ZMapp, sviluppato dalla Mapp biopharmaceutical. Questo farmaco è una combinazione di tre anticorpi monoclonali che si legano al virus per aiutare il sistema immunitario a neutralizzarlo. Al momento si potrebbero avere al massimo quaranta dosi di ZMapp al mese mentre i contagiati in Africa si contano a migliaia e potrebbero arrivare anche a decine di migliaia…
Comunque il Cdc (Centro per il controllo delle malattie) di Atlanta segnala che è molto presto per assicurare che sia stato questo nuovo farmaco a salvare i due statunitensi contagiati. Una percentuale che va dal 20 al 40 per cento di chi entra in contatto col virus non muore “anche senza aiuto medico” segnala il Cdc.
Il problema dunque non è oggi la corsa al farmaco miracoloso, ma assicurare condizioni sanitarie da paese civile a queste popolazioni.
Il sacrificio di centinaia di medici europei che stanno dando una mano con Ong come Medici senza frontiere o Emergency ha fatto molto, ma non può risolvere il problema. Perché innanzitutto occorrono medici e infermieri in numero sufficiente e servono condizioni di vita degne: case pulite, un sistema fognario, acqua potabile, alimentazione corretta, cultura. Tutto quello che gli imperialisti in combutta coi corrotti dirigenti locali continuano a negare alla maggioranza
della popolazione!